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“Piccole Donne” e l’etica del lavoro. Come si sviluppa il senso del dovere?

educazioneglobale Piccole DonneSi può insegnare ai figli il senso del dovere? Oppure l’etica del lavoro sconta anche qualche componente innata (geneticamente determinata) e, dunque, cicale o formiche si nasce?

Mentre rimuginavo sulla questione sono andata a ripensare alle cose che hanno influenzato me, a parte il clima respirato a casa (che è formato da troppi elementi per valutarli tutti insieme).

Un’influenza decisiva l’ha avuta la lettura di “Piccole donne”, il romanzo di Louisa May Alcott che ha accompagnato nella crescita generazioni di ragazzine. Certo,  è un classico quasi solo per ragazze, i ragazzi hanno sempre letto altre cose (quelli che leggevano). Ma è anche un libro che, pur moralistico, ha un fascino particolare, è il fascino che l’ha mantenuto un classico in tutti questi anni, anche se il divario tra il mondo rappresentato e il mondo in cui vivono i nativi digitali è ormai troppo ampio.

La trama è nota: la vicenda si svolge nel 1865, nel pieno della guerra di secessione americana. La famiglia March vive dignitosamente, anche se non negli agi, fino a che il padre non è costretto a partire per il fronte: la moglie e le sue quattro figlie restano sole a casa. Le quattro ragazze, ognuna diversa dall’altra, sono al centro delle avventure del romanzo. Ognuna di loro si arrangia con qualche lavoretto per portare avanti la famiglia; altri personaggi compaiono nella narrazione ma, alla fine, l’epicentro del romanzo è il microcosmo femminile costituito dalle quattro sorelle e dalla madre.

Negli anni dell’infanzia e della preadolescenza ho ripreso dallo scaffale questo romanzo per trovare conforto o ispirazione. Per anni, ho ritenuto erroneamente che quello che mi faceva rileggere il libro era il carattere delle quattro sorelle, ognuna delle quali trovava un posto nel mio olimpo personale. Mi sentivo fragile come Beth,  assomigliavo a Jo, ero segretamente affascinata da Amy e cercavo invano, tra le mie amiche, una che fosse dolce, generosa e comprensiva come Meg.

Ora so che, oltre al gioco identitario, per via del quale, di volta in volta, mi sentivo come questa o quella delle quattro sorelle March (le “Piccole Donne”), probabilmente ero attratta anche dal valore che trasuda da quel libro: l’etica del lavoro calvinista.

Per quanto si narri di un mondo nel quale le donne benestanti (ancora) non lavorano in modo strutturato, i personaggi di Luisa May Alcott sono permeati dal lavoro come valore etico, dall’impegno in tutte le sue forme. E’ un mondo in cui tenere le mani occupate, fare le cose per bene o mantenere l’attenzione concentrata in un’attività è considerato valore supremo.

A distanza di tanti anni l’ho finalmente capito: quando tornavo a quel romanzo era quel sentimento di utilità che cercavo. Probabilmente, in modo del tutto subliminale, è questo che ha attirato – ma anche finito per formare – migliaia di ragazzine e di adolescenti di diverse generazioni che, come me, hanno apprezzato quel libro.

“Potete provare l’esperimento per una settimana e vedere se vi piace. Penso che da sabato sera vi accorgerete che ‘tutto gioco e nessun lavoro’ è negativo quanto ‘tutto lavoro e niente gioco’…”  così afferma la signora March, la mamma delle quattro sorelle, in uno dei capitoli più simbolici del romanzo. Cosa è successo?

E’ successo che le quattro sorelle hanno un momento di stanchezza: ognuna, in casa, ha un compito da svolgere e non ne può più. Così chiedono alla madre se possono passare una settimana di puro relax. E la signora March che, saggiamente, sa già come andrà a finire, non dice loro di no, ma le invita a tentare l’esperimento per una settimana, certa del risultato…

Un risultato certo perché la vacanza se la prende anche lei, lasciando che le quattro sorelle March sperimentino, sulla loro pelle, cosa accade in un nucleo famigliare (ma, in realtà, nella società tutta) quando nessuno compie più il suo dovere.

Come ci si può aspettare, la cosa funziona per un poco, ma presto l’esperimento porta i suoi frutti: tutto si deteriora ed emergono i primi malumori. Dapprima si tratta di piccole cose: i fiori appassiscono nei vasi, il fuoco nel camino è spento, la polvere si accumula nelle stanze.  Le giornate, passate nell’ozio, diventano insolitamente lunghe e scomode. L’ultimo giorno, la madre dà alla domestica, Hannah, un giorno di vacanza ed il caos raggiunge il culmine. In cucina non c’è nulla di pronto da mangiare e tutto è in disordine.

E’ così che le quattro ragazze comprendono cosa succede quando ogni persona pensa solo a se stessa ed imparano, a loro spese, che una vita dedicata unicamente al piacere è, in fin dei conti, noiosa (anzi, è quasi una cosa di cui vergognarsi). E quando, di colpo, per reazione, vengono prese dal fuoco sacro dell’impegno, sarà ancora la madre a consigliare alle figlie di non passare da un estremo all’altro, ma di fare delle giornate un’alternanza dell’utile con il piacevole.

La lezione del romanzo, è che il lavoro rende la vita utile, mentre il gioco la rende piacevole.

I valori di Piccole Donne rispecchiano la cultura educativa dell’epoca, ma rappresentano anche dei valori immanenti nella società americana: da un lato, infatti, la madre insegna alle figlie la carità (quando dovranno sacrificare la colazione di Natale per nutrire ed assistere una donna malata e i suoi bambini) e la modestia (l’unica virtù un po’ datata); dall’altro, trasmette la fiducia nelle proprie possibilità (così importante per le ragazze), il senso del dovere e, soprattutto, l’importanza del lavoro dell’individuo per il progresso della società.  Non è forse tutto ciò che sta alla base dell'”American Dream“?

Insomma, Louisa May Alcott trasforma in romanzo quello che Max Weber scrive nella sua opera “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. “Piccole Donne” è più efficace di qualsiasi saggio nello spiegare la concezione calvinista del valore del lavoro per il lavoro stesso.

A volerne dare una interpretazione moderna, la signora March insegna alle figlie anche ad avere una “mentalità di crescita” (a growth mindset) sottolineando l’importanza dello sforzo piuttosto che il risultato, come invita a fare la psicologa Carol Dweck, di cui ho già scritto in un altro post.

In tutto il romanzo, le sorelle March incontrano difficoltà ed, ogni volta, la madre consente alle figlie di superarle ed imparare dai propri errori; il suo insegnamento è efficace perché la signora March vive seguendo le stesse regole che impone agli altri.

Non so se oggi l’esempio è sufficiente ad insegnare il senso del dovere. In un mondo in cui siamo tutti bersagliati da innumerevoli messaggi, l’esempio dei genitori potrebbe non avere più l’impatto che aveva in passato.

Forse, anche alla generazione dei nativi digitali serve un grande romanzo morale, o un film di quelli che cambiano la tua visione del mondo. Non sono sicura che la letteratura contemporanea per ragazzi, tra diari di una schiappa, maghi e saghe fantasy, contenga un’opera del genere. Ma questo è uno dei casi in cui vorrei tanto sbagliarmi…

 

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Comments

  1. Cara Elisabetta,

    hai fatto di nuovo centro! Splendido post, complimenti.

    Anche per me “Piccole donne” è stato il mio romanzo di formazione (io mi ritrovavo in Jo!!). Benchè la mia famiglia non sia protestante, ho ricevuto dai miei genitori gli stessi valori delle sorelle March, che cerco a mia volta di trasmettere a mia figlia; Sono innamorata del “sogno americano” e credo molto anche nell’etica del “Learn Earn and Return”: è una forma di onestà morale ed economica che noi in Italia non pratichiamo molto.

    Quanto all’autrice, Louise May Alcott, ho recentemente scoperto che è figlia di Amos Bronson Alcott, uno dei padri fondatori della moderna pedagogia progressista americana. Egli suggeriva, assieme a Horace Mann, Maria Montessori, Friedrich Frobel e John Pestalozzi, un modello di formazione scolastica che promuovesse la formazione di ragazzi mentalmente attivi, curiosi, competenti e responsabilmente critici verso le complessità del mondo. In altre parole, la formazione ideale per i cittadini di un paese che vuole essere profondamente democratico.
    Questa teoria educativa di “apprendimento attivo e critico” voleva superare il vecchio modello scolastico, in cui i bambini, seduti al banco, erano trattati come passivi contenitori e ripetitori di nozioni.
    Nel 1839 la scuola fondata da Bronson Alcott fu la prima ad ammettere un allievo di colore!

    Louisa, nei suoi romanzi, tratteggia il padre (nel personaggio del marito di Jo, il professor Bhaer) come seguace del “metodo di istruzione socratico”, tanto caldamente raccomandato dalla filosofa contemporanea Martha C. Nussbaum, di cui consiglio la lettura (per esempio “Non per profitto. Perchè le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, ed.Il Mulino).

    Barbara

    1. Grazie Barbara, sono contenta di aver trovato un’altra lettrice della Alcott (ma sospetto che siamo in tante). La Alcott tra le altre cose ebbe tra i suoi precettori autorevoli filosofi e scrittori e molto del mondo che narra riprende temi autobiografici.
      Quanto a “Non per profitto”, ricordo di averlo citato già in questo blog, mi pare in un post sui programmi liceali italiani.

  2. Molto bello questo post ed anche le tue riflessioni Elisabetta, molto utili. Io penso che i nostri figli respirino e siano influenzati prima di tutto dal clima famigliare e non possono crescere senza valori e senso del dovere se non hanno l’esempio costante e razionale dei genitori. Anche l’ambiente scolastico in cui crescono è fondamentale e li tempra e li prepara al lavoro. E poi ci sono le compagnie che frequentano o meglio che “scelgono di frequentare” e qui mi viene in mente un vecchio proverbio che ho imparato dai miei genitori: “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”….è sempre attuale… Io penso di essere una mamma fortunata, per ora, i miei figli, un maschio di 21 anni ed una femmina di 19 sono studenti universitari convinti e finora appagati dai risultati ottenuti. Forse è anche la società in cui crescono che li “obbliga” ad essere molto selettivi nelle loro scelte e la necessità di emergere che crea in loro una forza maggiore che io per esempio non avevo alla loro età. E poi bisogna anche avere un po’ di fortuna e tanta forza di volontà per non “deragliare” e per riuscire a rimanere sè stessi anche difronte alle difficoltà e ai dolori che immancabilmente la vita ti riserba.

    1. Ciao Maria Grazia, è vero che i figli sono influenzati dal clima famigliare (e, più tardi, dal gruppo dei pari) ma non dimentichiamo che sono influenzati ancora di più dal corredo genetico che hanno, il quale deriva sì dai genitori, ma nella grande roulette dei geni c’è il capriccio che rimescola anche i geni degli avi… penso che le pagine più soprendenti per un educatore o un genitore sono quelle di The blank slate di Steven Pinker (pubblicato in italiano come Tabula rasa). Ne ho accennato in un post https://www.educazioneglobale.com/2013/12/natura-o-cultura/ che però è molto inferiore al libro di Pinker…
      Dunque noi possiamo certamente influenzare i valori, le idee politiche o atri elementi prettamente culturali (ad es. in quali lingue crescere i figli) ma non abbiamo nessuna assicurazione sul tipo di temperamento che avranno. Quello dipende dai geni. Ed influenza fortemente tanti aspetti. Lo scrivo perchè penso agli amici molto studiosi (magari anche accdemici di professione) con figli dislessici e disgrafici che arrancano nello studio malgrado il sostegno e conoscenti quadrati, onesti e gran lavoratori che hanno almeno un figlio sempre in bilico con la devianza. E’ dura, ci vuole anche un pò di fortuna, specie con i figli adolescenti.

  3. Ciao Elisabetta, sono molto d’accordo con il tuo ultimo post; “la grande roulette dei geni” è davvero determinante. Me ne accorgo con i miei figli, così diversi eppure cresciuti nello stesso modo, nella stessa famiglia e nella stessa scuola. La fortuna è determinante.

  4. “Nondimeno, affinché il nostro libero arbitrio non sia cancellato, reputo che possa essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma anche che lei ci lasci governare l’altra metà, o quasi.”
    Mi sembra che queste parole, del Segretario fiorentino (Il Principe, XXV, 2), siano il migliore dei commenti.

  5. Con grande sorpresa da parte mia, mia figlia ha molto apprezzato il “Libro Cuore” di De Amicis. Testo passato da essere il pilastro della formazione dei fanciulli, ad una demonizzazione estrema. Io invece credo che ci sia ancora molto di buono negli esempi di solidarietà descritti e nella trasmissione di alcuni valori che, forse, dovrebbero essere maggiormente sottolineati ai nostri figli.
    Certo, l’enfasi risorgimentale e romantica dello scrittore spesso è francamente insopportabile, ma comunque vale la pena farne una rilettura critica. La maestrina dalla penna rossa, è un personaggio delizioso, che merita ancora di essere ricordato e l’amicizia di Garrone è commovente.
    Più avanti, passerò a Piccole Donne (letto da me almeno quattro volte!) e ai minori (a mio avviso) Piccole donne crescono e i Figli di Jo. Non so se mia figlia arriverà ad amare Anna Karenina, comunque certamente le proporrò quella che considero una chicca di Tolstoj ossia ” La sonata a Kreutzer”, che per la mia adolescenza fu fondamentale. L’uso delle madri di stringere i corpetti delle figlie per renderle più appetibili ai futuri pretendenti, rincorrendo l’idea miglior matrimonio possibile, il grande scrittore russo lo paragonava alla mercificazione del corpo che facevano le prostitute…un’idea quasi femminista che mi ha molto colpita ;). Insomma i classici sono tutti da scoprire!

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