consigli e risorse per essere cosmopoliti

Il libro che può cambiare la tua visione del mondo (e i programmi scolastici di storia)

Ognuno di noi vive in un determinato contesto e lo dà per scontato. Ritiene che nulla potrà mai cambiare. E, invece, tutto è potenzialmente mutevole. Chi osserva il mondo con lo sguardo dello storico non dimentica mai che ogni cosa creata dagli uomini è una finzione. Gli usi e i costumi, i diritti e gli ideali ma anche le più comuni istituzioni (dal matrimonio allo Stato) sono tutte finzioni collettive.

Anche lo storico, tuttavia, può diventare miope. Si specializza in un periodo di poche centinaia di anni, oppure si concentra su un solo aspetto, trasversale alle epoche. Abbiamo così, da un lato, gli esperti del 1700 o i medievalisti; dall’altro, gli storici militari o gli storici della tecnologia.

Cosa accadrebbe invece, se lo storico allargasse ancora lo sguardo e, invece di esaminare un periodo – diciamo così – al microscopio, potesse abbracciare con un grandangolo e un lungo piano-sequenza non centinaia, non migliaia, ma milioni di anni di evoluzione umana?

Ebbene, scoprirebbe cose che l’osservatore dell’infinitamente piccolo non è in grado di vedere. La risposta a questa domanda è in un nuovo campo d’indagine nel quale storia, antropologia, biologia, genetica, archeologia e paleontologia si fondono in una disciplina che all’estero si chiama “Big History” e, forse, da noi, macrostoria (ma non ne sono certa, se lo sapete scrivetemi nei commenti!).

L’espressione Big History è stata coniata dallo storico David Christian della Macquarie University of Sidney, nel suo libro Maps of Time: An Introduction to Big History (su questo tema, dello stesso studioso, c’era anche un MOOC su Coursera).

Tuttavia la Big History è stata resa famosa negli ultimi anni in tutto il mondo grazie ad un giovane e brillante studioso israeliano, Yuval Noah Harari, che si è ispirato anche al grande geografo e talento multidisciplinare Jared Diamond.

Ricordatevi il nome di Yuval Harari, perché, se non ne avete sentito ancora parlare, prima o poi inciamperete in qualcuno che menziona uno dei suoi due libri: Sapiens e Homo Deus.

A dispetto dei titoli in latino, i suoi libri sono saggi che si leggono come romanzi. Ti avvolgono in un turbinio di pensieri e di scoperte dal quale è veramente arduo staccarsi. Sapiens e Homo Deus sono state le mie letture della scorsa estate e hanno probabilmente, cambiato per sempre il mio sguardo sul mondo.

Sapiens è la storia dell’umanità, dal Big Bang ai giorni nostri. Homo Deus è ancora più ardito: è una storia (una storia possibile) del futuro dell’umanità. I libri di Harari sono diventati famosissimi anche grazie all’endorsement di mezza Silicon Valley: Bill Gates ne consigliava la lettura nelle sue Gates Notes, Marc Zuckerberg li aveva inseriti tra i libri da leggere del suo club del libro A Year of Books. E rientravano anche tra i consigli di lettura dati da Barack Obama in diretta televisiva.

Yuval Noah Harari, lo storico israeliano neanche quarantenne che ha studiato ad Oxford ed insegna all’Università di Gerusalemme, vive in un kibbutz nella campagna che separa Gerusalemme da Tel Aviv ed è un intellettuale anticonformista e disincantato. Ebreo per nascita e ateo per convinzione (ma vicino al buddismo), omosessuale e quasi vegano, pensava di essere solo un accademico un po’ nerd. Fatto sta che si è ritrovato a essere una star intellettuale: i suoi libri sono stati tradotti in 40 lingue, è stato invitato dalle Università di mezzo mondo ed è stato intervistato da giornali, radio e televisioni di moltissimi paesi.

Oggi ha un sito e una newsletter dove informa periodicamente i suoi numerosi fans (c’è bisogno di aggiungere che io sono tra questi?) delle sue conferenze e interviste. E ora ve lo dico chiaramente: se in Italia se ne è parlato relativamente poco, forse è un segnale di quanto siamo diventati periferici.

Quello che segue è il mio indegno racconto di Sapiens. Non è facile riassumere in italiano più di 400 pagine di un libro letto molti mesi fa in inglese, che narra la storia umana servendosi di tante discipline diverse. Il mio è dunque più un racconto che una recensione; ma è certamente anche un invito a leggere questo libro, che merita di essere conosciuto.

Agli albori della Storia

Sapiens parte da un presupposto, quello di rimettere in discussione tutto, partendo, maieuticamente, da una serie di domande.

Quando inizia la storia? Se la faccio iniziare dalla scrittura, perdo una parte grandissima di sapere. Nuovi strumenti di analisi e test di laboratorio, consentono oggi di ampliare l’orizzonte storico a un mondo che precede le fonti scritte e lo studio degli utensili di pietra. Iniziare a studiare la storia dal Big Bang o dalle prime forme di vita sulla terra pone tutto in una luce nuova: soprattutto rimette in gioco il nostro ruolo di esseri umani, ossia di appartenenti al genere Homo, specie Sapiens.

C’erano altri Homo sulla terra (ma probabilmente li abbiamo “fatti fuori” tutti)

L’Homo Sapiens non era l’unico uomo sulla terra, come un alano o un dobermann non sono gli unici cani sulla terra. Altre specie di Homo sono state coeve ai Sapiens come l’Homo erectus, l’Homo floresiensis (l’ultimo ad estinguersi) e il Neanderthal. L’Homo Sapiens ha avuto più successo di altri ed è rimasto l’unico. Tuttavia oggi che è stato mappato anche il genoma dei Neanderthal e questo libro ci racconta che noi Sapiens abbiamo un po’ di Neanderthal nel nostro DNA.

Ci siamo evoluti per essere cacciatori-raccoglitori

Vi ricordate le prime lezioni di storia della scuola elementare? Cominciavano più o meno dal 4.000 a.c.: si esaminavano vari popoli: sumeri, fenici, assiro-babilonesi, egizi, etruschi, poi il mondo greco e romano. La parte che chiamiamo “preistoria” (che si differenzia dalla storia per la mancanza di fonti scritte) veniva liquidata rapidamente perché se ne sa(peva) poco.

Tutta la realtà che chiamiamo “Storia”, infatti, ha che fare con poche migliaia di anni e invece noi Sapiens ne abbiamo alle spalle 200.000. Se poi consideriamo non solo l’Homo Sapiens, ma la specie Homo, allora possiamo dire che siamo in giro da circa 2.5. milioni di anni. Mica poco!

Per molto tempo non si è dato troppo peso alla preistoria proprio per via della mancanza di fonti scritte, eppure, afferma Harari, le tracce non mancano. Non sono anfore, né tavolette d’argilla, né antiche pergamene, né memorie di cortigiani: le tracce della nostra evoluzione sono scritte sul nostro corpo, nel nostro DNA. Pertanto, afferma Harari e ci insegna la Big History, oggi si può studiare la storia in un modo nuovo e diverso se la si associa alla biologia.

Per moltissimi aspetti – nota Harari – noi umani siamo ancora in qualche modo “adattati” all’ambiente dei nostri antenati; anche se oggi siamo insegnanti, giornalisti o muratori, il nostro DNA è sempre quello di un cacciatore-raccoglitore. Una delle prove più banali di ciò è il nostro atteggiamento verso il cibo, specialmente quello dolce e grasso. Come siamo vissuti per milioni di anni? Harari ci ricorda che il genere Homo non ha vissuto mangiando cereali. Eravamo nomadi e raccoglitori e ci siamo nutriti di tutto quello che siamo riusciti a trovare: piante, frutta fresca, roditori, noci, qualche più rara gazzella e poi midollo osseo di altri animali, magari uccisi da predatori più forti di noi. Oggi, anche nelle economie avanzate, di fronte a cibi grassi e dolci ci ingozziamo ben bene, pur non avendo veramente fame e ben sapendo che magari quegli eccessi ci fanno male. E’ perché nella savana che abitavano i primi Homo, la battaglia per il cibo era incessante e tutte le cose dolci e/o ad alto contenuto calorico erano estremamente rare (né vi era modo di conservarle per il giorno dopo…). Dunque mangiare in abbondanza e, semmai, condividere quanto trovato con altri Homo, era l’unica strada per soddisfare il bisogno calorico, magari sperando che altri restituissero il favore in un domani.

Ogni caratteristica umana, dai frequenti conflitti alla sessualità, si è evoluta in funzione delle società tradizionali di cacciatori-raccoglitori. Prendiamo, per esempio, lo sforzo che dobbiamo fare quando siamo costretti a memorizzare nozioni astratte o formule matematiche. Il cervello degli esseri umani si è adattato per processare e memorizzare solo certi tipi d’informazione. Per sopravvivere, gli antichi cacciatori-raccoglitori dovevano ricordare forme, qualità, colori, odori e altre caratteristiche di piante e animali, non avevano certo necessità di ricordare concetti astratti o matematici. Anzi, quando è sorta la necessità di memorizzare tali concetti è stata sviluppata la scrittura e la matematica. In breve, anche se oggi viviamo in megalopoli o usiamo computer e aeroplani, ci vorranno migliaia o milioni di anni per evolverci e adattarci a questo nuovo contesto.

A questo punto potreste pensare: e che ce ne importa? E invece il fatto interessante è questo: ogni volta che siamo di fronte ad un problema apparentemente difficile da risolvere, dobbiamo sempre pensare che il motivo della difficoltà ha radici molto lontane, nel nostro DNA e nella vita delle tribù di cacciatori-raccoglitori.

Abbiamo portato all’estinzione un sacco di specie animali e vegetali. Anche prima della rivoluzione industriale!

Ho sempre pensato che l’estinzione di tanti animali sia arrivata in tempi moderni, con la rivoluzione industriale, ma non è vero. La maggior parte della varietà animale era già estinta prima che iniziasse quella che noi chiamiamo “Storia”.

Homo Sapiens ha praticamente portato all’estinzione metà dei più grandi animali del pianeta molto prima che gli esseri umani inventassero la ruota o la scrittura. Due sono state le grandi estinzioni: la prima ha accompagnato la diffusione dei cacciatori-raccoglitori; la seconda, ha accompagnato la diffusione dell’agricoltura. Queste due ci danno una prospettiva importante sulla terza ondata di estinzioni, quella causata oggi dall’attività industriale.

Sapiens è un libro pieno di curiosità che non conoscevo. La «megafauna» del Pleistocene comprendeva molti animali che pesavano oltre i 44 chili. Quando 45.000 anni fa, nel corso del Pleistocene, i primi Sapiens sono arrivati in Australia, hanno trovato un paese di strane e sconosciute creature e hanno lasciato distruzione e morte. L’Australia era molto isolata quindi e l’evoluzione degli animali aveva preso tutto una piega particolare. Vi erano canguri alti 2 metri che pesavano 200 kg, un leone marsupiale grande come una tigre (molti animali australiani erano marsupiali), koala molto più grossi di quelli che conosciamo oggi, uccelli incapaci di volare grandi il doppio dei moderni struzzi, serpenti lunghi 5 metri e il famoso diprotodonte, il mammifero marsupiale imparentato con i vombati, lungo 4 metri e paragonabile come forma e dimensioni ai moderni rinoceronti. In circa 2000 anni tutti questi giganti si estinsero a causa dell’uomo. Stesso destino ebbero, in altre epoche, gli enormi mammuth e varie specie di roditori di grandi dimensioni che vivevano tra Canada e Stati Uniti dell’Ovest.

In sostanza fu una guerra-lampo quella che l’Homo Sapiens fece contro gli animali di grossa taglia (tipo i mammuth) e ai predatori (come le tigri con i denti a sciabola), uccidendoli direttamente o distruggendo il loro habitat.

Se gli animali potessero giudicarci, direbbero di noi che siamo crudeli: i Sapiens sistematicamente hanno fatto fuori tutti gli animali che erano più grandi o più feroci di loro. Oltre che crudeli siamo però anche ipocriti: mentre leggevo questa parte di Sapiens mi veniva in mente l’allegro mondo animale del cartone animato Dreamworks “L’era glaciale”, in cui sono tratteggiati con ironia e talento proprio molti animali estinti (per colpa nostra…).

Tra i giganti, praticamente l’hanno scampata solo gli animali delle isole Galapagos perché, grazie al cielo, a un certo punto la cultura umana ha cominciato a credere nella conservazione delle specie diverse dalla propria. Gli altri giganti sopravvissuti sono quelli dei mari e degli oceani, assai più difficili da cacciare sino all’estinzione almeno per gran parte della storia. Oggi è però lecito pensare che, con lo sfruttamento delle risorse marine e il sempre maggiore inquinamento dei mari, animali come balene, squali, tonni e delfini finiranno per seguire lo stesso destino della megafauna australiana.

Harari è molto chiaro su questo: dobbiamo essere contenti che abbiamo ancora elefanti e giraffe. Fa anche notare quanto sia paradossale il modo in cui presentiamo ai bambini il mondo animale, perché i cavalli, le giraffe, i leoni o gli elefanti che mostriamo ai nostri figli nei libri o negli zoo sono una minoranza rispetto agli animali della fattoria. Abbiamo fatto moltiplicare a dismisura gli animali che ci sono più utili e che non ci mettono in pericolo (come le mucche) o quelli che si sono rivelati buoni compagni di vita (come i cani).

Il mondo pre-agricoltura non era poi così male

Harari, provocatoriamente (e ispirandosi a Jared Diamond…) ci apre gli occhi: il mondo pre-agricoltura non era così male. Riteniamo spesso che la vita dei cacciatori-raccoglitori fosse faticosa, breve e brutale. Lo è stata più della vita moderna delle economie sviluppate, ma sicuramente era più premiante e più piacevole della vita degli agricoltori medievali o dei lavoratori della catena di montaggio della prima epoca industriale. I cacciatori-raccoglitori che vivono oggi in alcune delle zone più inospitali del pianeta come il deserto del Kalahari, lavorano o faticano in media solo 35 ore a settimana. I contadini medievali facevano una vita assai più faticosa.

Noi riteniamo, inoltre, che la cultura moderna sia più sofisticata delle culture antiche, soprattutto di quelle preistoriche; effettivamente nelle società moderne l’intelligenza collettiva è molto maggiore che nelle società tradizionali, ma ciò non è vero se consideriamo il singolo individuo. Noi viviamo in società caratterizzate da un fortissimo grado di specializzazione, ma nessuno di noi da solo o in un piccolo gruppo sarebbe in grado di fare tutte le cose che gli consentirebbero di sopravvivere in un mondo ostile (da cui, mi viene da pensare, il grande successo di film catastrofici del genere “The day after”).

I nostri antenati sapevano fare più cose di noi, conoscevano piante e animali, sapevano creare da soli i propri vestiti, cacciare, trasformare in armi le pietre, costruirsi un rifugio. Basta pensare a quante competenze si mettono in gioco per andare a caccia del proprio pasto quotidiano a mani nude: c’era bisogno di avere buoni riflessi, una certa forza, saper collaborare efficacemente con un gruppo di propri simili ma anche camminare molto e correre velocemente (i nostri antenati percorrevano circa 19 chilometri al giorno, come ho spiegato qui).

L’agricoltura è stata una fregatura?

Sono ormai migliaia di anni che abbiamo coltivato e addomesticato tutto ciò che si poteva coltivare e addomesticare.

Quando ero a scuola mi è stato spiegato che, con la nascita dell’agricoltura, è nata la necessità di delimitare i campi e si sono così sviluppati alcuni elementi cruciali della nostra cultura: la scrittura, la matematica, la proprietà privata. I libri di storia connettono dunque lo sviluppo dell’agricoltura con quello della civiltà. Da un lato è vero, dall’altro, ci ricorda Harari, uno dei primi risultati della domesticazione di piante e animali è stato il contrarre malattie infettive che sono originate proprio dalla promiscuità tra uomo e animale. In secondo luogo, è nata una dipendenza sostanziale da una forma di cibo: il cereale. Noi abbiamo addomesticato il grano ma il grano alla fine ha addomesticato noi. Riso, grano, mais, colza, a seconda delle epoche e dei luoghi, sono i veri vincitori, non noi che ce ne nutriamo.

Inoltre, con la rivoluzione agricola non nascono solo la scrittura, la matematica o la proprietà privata L’agricoltura ha portato fasi di ricchezza ma anche di grande privazione: in tempi di buoni raccolti la popolazione si moltiplicava troppo e in tempi di raccolti cattivi si soffriva la fame, morivano i bambini, c’erano carestie terribili, come ve ne sono ancor oggi in varie parti del mondo. Si aggiunga che il corpo umano non si era evoluto coltivare i campi. Era ed è adatto per camminare e correre su lunghi tratti cacciando animali o arrampicarsi sugli alberi di mele per cogliere i frutti, non per portare l’acqua o per coltivare i campi di grano. La spina dorsale, le ginocchia e gli archi plantari degli essere umani hanno pagato il prezzo della fatica dell’agricoltura. Gli studi di antichi scheletri indicano che, nella transizione dalla caccia all’agricoltura, sono nati problemi come lo spostamento dei dischi della spina dorsale, l’artrite e le ernie, senza contare le conseguenze di una dieta basata solo su un cereale e povera in minerali e vitamine.

Per concludere, afferma Harari, sebbene la rivoluzione agricola sia stata il grande balzo in avanti dell’umanità, che ha consentito all’Homo Sapiens di moltiplicarsi, l’agricoltura non ha offerto niente alle persone come individui. E provocatoriamente ripropone un concetto già esposto da Jared Diamond ne “Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo Sapiens”: forse la rivoluzione agricola è stata una grande fregatura.

Siamo più infelici perché non sappiamo più vivere nel presente

L’agricoltura ha mutato per sempre anche il nostro rapporto con il tempo. Il cacciatore-raccoglitore viveva, in un certo senso, in un eterno presente. Con lo sviluppo dell’agricoltura, invece, gli esseri umani hanno iniziato a vivere proiettati nel futuro, a pensare con preoccupazione al raccolto di domani, a pianificare per quanto possibile, il futuro, come fanno i lavoratori delle moderne società industriali.

L’agricoltura e l’allevamento ci hanno reso crudeli

Noi Sapiens non ci siamo limitati a provocare l’estinzione di tanti animali selvaggi. Abbiamo addomesticato piante ed animali a nostro piacimento e, così facendo, abbiamo sovvertito le leggi biologiche dell’evoluzione.

Con lo sviluppo dell’agricoltura, infatti, è cambiato anche il rapporto tra uomo e altri animali. I cacciatori-raccoglitori cacciavano e uccidevano animali per sostentarsi e ricavarne utensili e pelli per coprirsi, però li vedevano come loro equivalenti. In altre parole, il fatto che l’uomo cacciasse la tigre non implicava che la tigre fosse inferiore all’uomo, perché anche le tigri cacciavano l’uomo.

In contrasto con questa visione, i primi agricoltori hanno cominciato a manipolare piante e animali, addomesticandoli e trasformandoli in oggetti di loro proprietà. In breve, i primi effetti della rivoluzione agricola sono stati quelli di considerare piante e animali come proprietà privata (una cosa che si è poi ripetuta nei secoli nei confronti di altri esseri umani ridotti in schiavitù).

Il problema morale, afferma Harari, non è (tanto) come facciamo morire gli altri animali, ma come li facciamo vivere. Dalla rivoluzione agricola agli allevamenti intensivi di oggi il passo è stato più breve di quanto pensiamo.

Ma perché i Sapiens hanno dominato il mondo?

Com’è possibile che gli umani, questi animali senza zanne e senza artigli, siano riusciti a conquistare e dominare il mondo, addomesticando, sottomettendo o distruggendo, a seconda dei casi, tutte le altre specie, di animali e di vegetali?

Il tema centrale del libro è che, presi singolarmente o in piccoli gruppi noi esseri umani non siamo in fondo così lontani dagli scimpanzé; l’ha scritto anche Jared Diamond nel libro Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo Sapiens, che Harari ben conosce e cui spesso s’ispira.

Siamo usi affermare che la vera differenza dei Sapiens è l’intelligenza, ma non è proprio così: recenti studi dimostrano che i Neanderthal avevano crani più grossi, cervelli più pesanti e maggiori connessioni neurali dei Sapiens. Non è quindi l’intelligenza la nostra forza, dato che, peraltro, sappiamo misurare solo quella umana. Le differenze significative tra il potere di noi Sapiens e gli altri animali cominciano ad apparire solo quando superiamo la soglia dei 150 individui (il libro inizia infatti con la citazione del numero di Dunbar) quando cominciamo ad essere mille, diecimila, o milioni di persone.

Afferma Harari che la forza dell’Homo Sapiens è tutta qui, e fa un esempio suggestivo: mettete insieme migliaia di scimpanzé in una grande piazza e si crea il pandemonio; invece i Sapiens sono gli unici animali che possono riunirsi in migliaia in una piazza e mantenere l’ordine. Come? Attraverso le finzioni collettive.

La forza dei Sapiens è stata quella dello storytelling, che ha consentito di creare finzioni collettive e società complesse

Noi controlliamo il mondo fondamentalmente perché siamo gli unici animali che possono collaborare in modo flessibile in gran numero” è il punto cruciale di Harari. E il segreto di questa collaborazione è tutto in una serie di complesse costruzioni mentali, che siamo in grado di rendere collettive e di condividere con gli altri. E’ solo attraverso l’introduzione di narrazioni comuni (che l’autore chiama fiction, finzioni, dunque) che le persone, anche senza conoscersi, possono aggregarsi; gruppo, nazione, lingua, famiglia, Stato, impero, partito…molte sono le articolazioni cui la comune narrazione è riuscita a dar luogo.

E’ questa invenzione della narrazione, della finzione, che trasforma le società tradizionali di raccoglitori cacciatori in società organizzate. La grande invenzione dell’essere umano è la narrazione di storie, così abbiamo creato tutti gli imperi, gli Stati, le religioni, il diritto e abbiamo fatto sì che un solo uomo potesse dominarne migliaia.

Cos’è naturale?

Se tutta la nostra cultura umana è formata da finzioni collettive anche la religione è una finzione, anche se chi è credente la ritiene come l’ordine “naturale” delle cose.

Una buona regola di base per distinguere natura e cultura, afferma Harari, è quella secondo la quale la biologia ci mette in condizione di fare cose che la cultura ci vieta di fare.

E’ naturale che le donne procreino (la biologia rende le donne capaci di procreare), ma è naturale anche che persone dello stesso sesso possano decidere di accoppiarsi (la natura lo consente, anche se la cultura, in certe società, lo vieta). La cultura spesso vieta un comportamento affermando che “non è naturale”, ma, afferma Harari, se una cosa non è naturale non è semplicemente possibile. Dunque possiamo dire che non è naturale per un essere umano volare, dal momento che un essere umano, allo stato dell’evoluzione umana in cui siamo ora, non può fisicamente volare.

Invece, nelle diverse culture, gran parte di ciò che è considerato “naturale” proviene dalle religioni, in particolare dalla teologia cristiana: in questo senso viene considerato “naturale” ciò che sarebbe stato creato da Dio. Così, la religione ha scalzato la biologia nel distinguere ciò che è “naturale” da ciò che non lo è. Così come la religione, anche il diritto ha per così dire, declinato la sua nozione di ciò che è “naturale”. A questo proposito, c’è una parte del libro che consiglio ai giuristi, in cui l’autore cita le parole più famose della dichiarazione americana d’indipendenza e prova a ritradurle in termini biologici, con risultati esilaranti.

La direzione della Storia: verso l’unificazione delle culture e il mondo globale

Ma la storia ha un senso? Ha una direzione? La risposta a questa domanda è ardua per lo storico tradizionale, ma meno ardua in una prospettiva di Big History. Percepire la direzione della storia è veramente difficile, afferma l’autore, se guardiamo le cose in termini di secoli è difficile vedere la direzione in cui si muove la storia; se invece adottiamo il punto di vista di un satellite cosmico, che osserva guarda i millenni o i milioni di anni invece che i secoli, allora diventa chiaro che la storia si sta muovendo assolutamente verso una maggiore unità.

Nel corso dei millenni, infatti, da culture più piccole e più semplici si sono man man venute a formare più grandi e più complesse civilizzazioni. Si va verso un mondo globale.

Diecimila anni prima di Cristo sostanzialmente le società umane erano tante e molto differenziate. Oggi quasi tutti gli esseri umani condividono, innanzitutto, lo stesso sistema geopolitico: l’intero pianeta è organizzato in stati internazionalmente riconosciuti. Condividono poi lo stesso sistema economico: il capitalismo si è spinto fino alle zone più remote del globo. Condividono lo stesso sistema legale, pur con differenze sui diritti umani. Condividono lo stesso sistema scientifico: gli esperti di Israele o dell’Argentina hanno le stesse opinioni di circa la struttura degli atomi o il trattamento della tubercolosi e, persino nelle guerre, le parti in conflitto combattono ormai con le stesse armi.

I grandi elementi unificatori: la moneta, gli imperi e la religione

Quali sono stati i grandi elementi unificatori della cultura? Harari ne individua tre: la moneta, gli imperi, le grandi religioni. Mi soffermo solo sul primo di essi. Il primo ordine universale ad apparire è stato quello economico, attraverso l’ordine monetario. La moneta è la più grande finzione della storia umana, il più universale e più efficiente sistema di fiducia reciproca che sia stato mai inventato. Per quanto filosofi, profeti e religiosi abbiano visto nel danaro la radice di tutti i mali, Harari fa notare che è proprio la moneta a costituire l’apice della tolleranza umana. Più internazionale della lingua, più onnicomprensiva del diritto, più tollerante di tanti codici culturali, dei credi religiosi e delle abitudini sociali! Ne è prova il fatto che persino persone che non credono nello stesso Dio o non obbediscono agli stessi valori sono più che desiderose di utilizzare lo stesso denaro.

I terroristi islamici che oggi uccidono in odio alla civiltà occidentale non hanno mai pensato di bruciare il danaro, neanche i dollari statunitensi.

Il nuovo ordine globale

Entrati come siamo nell’epoca globale, malgrado esistano ancora gli Stati nazionali, vi sono problemi che questi ultimi non possono gestire. Per nessuno degli Stati nazionali sarà possibile da solo risolvere il problema del riscaldamento globale, così come quasi nessuno Stato nazionale è veramente in grado di condurre politiche economiche totalmente indipendenti.

Ogni cosa è interconnessa e quindi si comincia a pensare che ci deve essere un nuovo ordine globale. La differenza, rispetto ai grandi imperi del passato, è che questo “impero globale”, che si sta creando davanti i nostri occhi, non è governato da un particolare Stato ma, come il tardo romano impero, da un élite multietnica che è tenuta insieme da una comune cultura e da interessi comuni. Purtroppo, come ben sappiamo, si tratta spesso di interessi economici.

Harari non lo scrive, perché Sapiens fu pubblicato in Israele nel 2011 e in inglese nel 2014, ma oggi quegli interessi economici stanno principalmente in mano ad una triade, composta da Google, Amazon e Facebook. Altri poteri globali certamente esistono, ma il peso dei tre citati avanza ogni giorno (anche se potrebbe cambiare con l’arrivo di nuovi attori).

Creiamo e disfiamo credi religiosi e politici a nostro piacimento

Arrivati a questo punto, Sapiens ha messo in discussione quasi tutto. Tutto il mondo in cui viviamo è formato da finzioni che sono la nostra forza collettiva, ma anche la nostra gabbia individuale.

Nel mondo occidentale, insegnanti, dirigenti scolastici e genitori ci insegnano che ognuno ha diritto di essere se stesso e non deve essere giudicato; un nobile medievale, invece, non aveva questa visione individualista ma credeva che il valore di qualcuno dipendesse dal suo posto nella gerarchia sociale.

Oggi riteniamo anche di essere più evoluti di un nobile medievale; eppure il nostro ordine morale e giuridico è fittizio quanto quello medievale. L’idolo del momento può essere la cristianità, oppure la democrazia o il capitalismo, non importa, ci dice Harari, la cosa più importante è come far credere le persone in un ordine immaginario come, appunto, la cristianità, la democrazia o il capitalismo. Il meccanismo, afferma Harari, è invisibile a chi guarda solo il presente, ma se si guarda all’evoluzione storica, esso si ripresenta sempre uguale. Innanzitutto, occorre non ammettere mai che l’ordine che caratterizza una certa epoca, sia immaginario, ma affermare sempre che è un ordine “naturale”, anche se in realtà non lo è. Inoltre, per sentirlo come naturale, basta educare le persone, dal momento in cui sono nate, a concepirlo come “naturale”.

Tutto è relativo

Sono passati milioni di anni di evoluzione umana e noi viviamo in una società che consideriamo naturale ma che è “fittizia” in funzione delle narrazioni collettive che ci facciamo oggi. Ciò non vuol dire che la moderna società occidentale (democratica, capitalistica, che riconosce i diritti umani etc..) sia intrinsecamente “sbagliata”. Semplicemente l’autore ci invita a guardarla con gli occhi dello studioso di Big History, non come un punto di arrivo ma come uno dei tanti momenti di passaggio.

Nel descrivere milioni di anni di evoluzione animale e umana Harari ci invita a un relativismo che non è solo culturale ma è anche “cultural-diacronico”. Ci invita a non giudicare con gli occhi di un europeo moderno sia l’abitante di una società tradizionale della Nuova Guinea, sia il monaco medievale, perché le nostre creazioni culturali sono fittizie quanto le loro.

Anche se non ce ne rendiamo conto, le nostre narrazioni collettive creano una realtà intersoggettiva che arriva a influenzare o addirittura a creare i nostri desideri più profondi, quelli che crediamo essere assolutamente privati e personali. I nostri desideri sono quindi programmati, non da noi e non da un’intelligenza superiore e senziente, ma dallo storytelling collettivo della propria epoca.

Prendiamo, dice Harari, il desiderio molto in voga di fare una vacanza all’estero, magari un po’ esotica. Io, per esempio, vorrei andare vedere il Taj Majal in India, la fioritura dei ciliegi in Giappone, Tel Aviv e i grattacieli di Shangai. Ritengo che questi siano miei desideri ‘spontanei’. E invece no, non c’è niente di spontaneo o di naturale in questo! E’ che sono figlia del mio tempo, come voi che leggete. Fossi nata in un’altra epoca, avrei avuto altri pensieri.

L’élite dell’antico Egitto (anche a prescindere dall’arretratezza dei trasporti dell’epoca) non avrebbe mai speso una fortuna per una vacanza esotica o per esplorare un altro paese! L’élite spendeva le sue fortune per costruire piramidi altissime e avere il proprio corpo mummificato dopo la morte, un pensiero che assolutamente non tocca la maggior parte delle persone moderne, che preferiscono spendere per fare shopping a Dubai o organizzare una vacanza sugli sci. Dubai non mi attira molto, ma preferirei andare lì che pensare alla mia tomba! Quindi oggi spendiamo una certa quantità di soldi in vacanze perché ciò risponde alla narrazione dei nostri tempi e incarna il sogno di quello che Harari chiama efficacemente “consumismo romantico” che ben fa il paio con l’umanesimo liberale della nostra epoca.

Noi ci sentiamo privi di ideologie, ma in realtà il consumismo romantico è l’ideologia del momento, che ci dice che per sviluppare al massimo il nostro “potenziale umano” dobbiamo accumulare diverse esperienze. Da qui la ricerca di diverse emozioni, da perseguire in ogni modo. E’ il consumismo romantico che ci porta, ad esempio, a visitare musei, incontrare persone diverse, imparare altre lingue, visitare luoghi esotici o remoti. E’ il consumismo romantico che ci fa affermare che Parigi non è solo una città e l’India non è solo un paese ma che sono tutte “esperienze” (sapientemente impacchettate per noi dagli esperti di marketing del viaggio…).

Insomma, noi sorridiamo alle astruse e vincolanti credenze e finzioni collettive del passato, mentre siamo ben immersi nelle nostre. Come ci spiega l’autore anche nel libro successivo (Homo Deus) che inizia laddove Sapiens finisce, è troppo facile considerare mere credenze il mito di Zeus o di Minerva, i poteri divini dei faraoni egizi o il fatto che il Dio dei cristiani potesse ricompensare con la vita eterna i crociati che andavano a trucidare gli infedeli musulmani durante le crociate. Molto più difficile ammettere che i miracoli, la Madonna di Medjugorje o gli oroscopi siano altrettante finzioni collettive.

Uscire fuori dal proprio tempo? Impossibile

E se uno tentasse di liberarsi dalla gabbia delle finzioni del proprio tempo? Harari non ci invita a provare. Anche se uno facesse lo sforzo sovrumano di uscire fuori da questa specie di griglia di riferimenti culturali e cercasse di rivoltare l’ordine immaginario, dovrebbe comunque convincere milioni di persone a cooperare: uno sforzo impossibile per i più. Ma non è solo questo il problema.

Non c’è modo per uscire dall’ordine immaginario: quando rompiamo le mura del nostre prigioni – dice Harari – e pensiamo di andare verso la libertà, andiamo in realtà in una regione ancora più ampia, perché sostituiamo un’ideologia vecchia con una nuova.

Dall’Antropocene al Tecnocene

Con l’aiuto di nuove tecnologie, entro qualche secolo i Sapiens potrebbero diventare. esseri completamente diversi con qualità e abilità pari agli dei (“la storia è nata quando gli uomini inventarono gli dei e finirà quando gli uomini diventeranno dei”, afferma Harari).

Se l’uomo di domani, forse non più Homo Sapiens ma androide, uomo bionico o intelligenza artificiale (perché è ovvio che siamo alla fine dell’Antropocene e dell’inizio del Tecnocene), guardasse alle nostre credenze e ci ridacchiasse sopra? Se un domani quest’uomo–macchina, nostro discendente, pensasse quanto siamo stati fessi, così come quei faraoni che si facevano imbalsamare per risorgere con il proprio corpo nell’aldilà?

Questi interrogativi apre Harari; ne apre così tanti che Bill Gates, anche attraverso la Bill e Melinda Gates Foundation, sta finanziando un progetto per portare la Big History nelle scuole americane (chissà se arriverà mai nelle nostre!) e per rendere la Big History accessibile a tutti.

E se il parziale resoconto che ne ho fatto vi ha interessato e volete vedere veramente il mondo con occhi diversi, una volta letto Sapiens vi consiglio di leggere anche la storia del futuro narrata in Homo Deus. Ma ne parliamo un’altra volta…

 

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Comments

  1. Avevo già inserito Harari nella mia lista degli autori da leggere. Dopo la tua presentazione entusiasmante credo che sicuramente troverò il tempo di approfondire. Apprezzo molto, in ambito storico, le visioni di insieme ad ampio respiro, i tentativi di abbracciare con un unico sguardo passato, presente e futuro.
    A questo proposito fornisco il mio piccolo contributo suggerendo l’interpretazione filosofica che Michel Serres dà della storia in “Darwin, Napoleone e il samaritano”.

    1. Grazie. Spero che ti piaccia e comunque il suo stile è chiarissimo e molto piacevole. Pur toccando temi importanti, è una “lettura da poltrona” e non (solo) una “lettura da tavolino”, non so se rendo l’idea…

  2. Avevo già inserito Harari nella mia lista degli autori da leggere. Dopo la tua presentazione entusiasmante credo che sicuramente troverò il tempo di approfondire. Apprezzo molto, in ambito storico, le visioni di insieme ad ampio respiro, i tentativi di abbracciare con un unico sguardo passato, presente e futuro.
    A questo proposito fornisco il mio piccolo contributo suggerendo l’interpretazione filosofica che Michel Serres dà della storia in “Darwin, Napoleone e il samaritano”.

    1. Grazie. Spero che ti piaccia e comunque il suo stile è chiarissimo e molto piacevole. Pur toccando temi importanti, è una “lettura da poltrona” e non (solo) una “lettura da tavolino”, non so se rendo l’idea…

  3. Questo è il mio personale campo d’azione.

    Il concetto di Big History è quanto mai rivoluzionario, non solamente per lo studio della storia in sé, ma soprattutto per l’approccio degli storici alla loro stessa mente: per questo motivo sottolineo ogni singola parola di Harari che ha un posto speciale nella mia biblioteca personale.

    Potrei scrivere un saggio lungo quanto quello della Signora Cassese, ma preferisco fare un banalissimo esempio. Oggi è stato trasmesso su Focus un passabile documentario sul parallelismo tra le grandi arene del passato, nel particolare l’anfiteatro Flavio di Roma (generalmente detto Colosseo; a Pozzuoli c’è un secondo Anfiteatro Flavio), e quelle moderne per raccontare un pò di sana cultura da una parte insieme e fare qualche occhiolino ad un certo mondo economico dall’altra come al solito in certi documentari (lasciamo perdere questa polemica, però)

    Nel documentario si è giunti all’arcano, e a quanto pare interessantissimo per un certo tipo di telespettatore, dei tentaggi che riparavano dal sole solamente le file più in alto lasciando “inspiegabilmente” scoperte le file più vicine all’arena. Quelle più in basso erano destinate alle classi più alte, quelle più in alto al popolo.
    Del Velarium si conosce perfettamente l’esistenza, ma non il suo funzionamento che ha creato non pochi problemi in passato riguardo alla sua effettiva struttura.
    Copriva tutti o è possibile che lasciasse scoperti gli aristocratici e la nobilitas (in periodo imperiale erano differenti)?
    Una simile complessa impalcatura non era troppo pesante? E così via.

    Per farla breve, quando uno storico si trova di fronte ad una mancanza, come ad esempio succedeva nel documentario, deve riempire il vuoto con qualcosa che fino a ieri era il presupposto plausibile: se in seguito ad un attentissimo studio delle fonti, siamo pressocché certi che i romani erano riusciti in una simile opera, allora doveva essere così. Questo portava ad una quasi ossessiva ricerca delle fonti, che ha causato la specializzazione nei diversi periodi senza badare alla reale veridicità delle “apodosi” della ricerca. Più dettagli hai, più sei vicino al vero.

    Big History, invece, entra a gamba tesa e dice:
    “Se chiamassi un architetto e dimostrassi che il sistema del velarium, come tutti pensano funzioni, non può essere scientificamente (Ingegneria) attuato, allora le fonti storiche sono sbagliate o tu, storico, ti sei sbagliato!”
    “Se io non chiarisco il rapporto che esisteva tra la nobilitas e l’aristocrazia romana con il popolo, dando per scontato che sia un rapporto simile a quello moderno (come si faceva nel suddetto documentario), non posso sperare di capire perchè una certa struttura era costruita in una certa maniera (Sociologia)””

    Questo è incredibile!
    La storia, oggi, può essere studiata come ieri, ma va indagata in squadra e questo rende la materia solamente più eccitante.

    1. Torno molto raramente a rileggere i miei post, ma forse avrei dovuto farlo più spesso, in precedenza.

      Quando cerco di condensare in quattro-cinque frasi ciò che di solito necessita di una trattazione decisamente più lunga, scrivo dei veri e propri abbrobbri poco degni di me.

      Sembra che stia scrivendo “a braccio”…

      1. Sono lieta che tu te ne sia reso conto da solo. Nessuno qui è l’Accademia della Crusca, a cominciare dalla sottoscritta (i miei post pullulano di errori), tuttavia un minimo rispetto delle regole sintattiche e della punteggiatura è necessario per essere compresi dagli altri.
        Non è, comunque, questione di lunghezza. Si può condensare in quattro o cinque righe anche il pensiero Hegel, ma senza punteggiatura tutto è impossibile.
        I periodi lunghi lasciamoli a Proust, l’unico che poteva permetterseli.
        Elisabetta

        1. Mi scuso per questa mancanza di rispetto nei confronti di chi legge.
          Di solito sono il primo a far notare mancanze simili agli altri eppure stavolta sono io a dovermi correggere. Non è una gran figura.

          Non posso che dare la colpa alla mia ritrosia verso questi tipi di “scambi social”: un problema totalmente mio.

          Cercherò di stare più attento.

  4. Questo è il mio personale campo d’azione.

    Il concetto di Big History è quanto mai rivoluzionario, non solamente per lo studio della storia in sé, ma soprattutto per l’approccio degli storici alla loro stessa mente: per questo motivo sottolineo ogni singola parola di Harari che ha un posto speciale nella mia biblioteca personale.

    Potrei scrivere un saggio lungo quanto quello della Signora Cassese, ma preferisco fare un banalissimo esempio. Oggi è stato trasmesso su Focus un passabile documentario sul parallelismo tra le grandi arene del passato, nel particolare l’anfiteatro Flavio di Roma (generalmente detto Colosseo; a Pozzuoli c’è un secondo Anfiteatro Flavio), e quelle moderne per raccontare un pò di sana cultura da una parte insieme e fare qualche occhiolino ad un certo mondo economico dall’altra come al solito in certi documentari (lasciamo perdere questa polemica, però)

    Nel documentario si è giunti all’arcano, e a quanto pare interessantissimo per un certo tipo di telespettatore, dei tentaggi che riparavano dal sole solamente le file più in alto lasciando “inspiegabilmente” scoperte le file più vicine all’arena. Quelle più in basso erano destinate alle classi più alte, quelle più in alto al popolo.
    Del Velarium si conosce perfettamente l’esistenza, ma non il suo funzionamento che ha creato non pochi problemi in passato riguardo alla sua effettiva struttura.
    Copriva tutti o è possibile che lasciasse scoperti gli aristocratici e la nobilitas (in periodo imperiale erano differenti)?
    Una simile complessa impalcatura non era troppo pesante? E così via.

    Per farla breve, quando uno storico si trova di fronte ad una mancanza, come ad esempio succedeva nel documentario, deve riempire il vuoto con qualcosa che fino a ieri era il presupposto plausibile: se in seguito ad un attentissimo studio delle fonti, siamo pressocché certi che i romani erano riusciti in una simile opera, allora doveva essere così. Questo portava ad una quasi ossessiva ricerca delle fonti, che ha causato la specializzazione nei diversi periodi senza badare alla reale veridicità delle “apodosi” della ricerca. Più dettagli hai, più sei vicino al vero.

    Big History, invece, entra a gamba tesa e dice:
    “Se chiamassi un architetto e dimostrassi che il sistema del velarium, come tutti pensano funzioni, non può essere scientificamente (Ingegneria) attuato, allora le fonti storiche sono sbagliate o tu, storico, ti sei sbagliato!”
    “Se io non chiarisco il rapporto che esisteva tra la nobilitas e l’aristocrazia romana con il popolo, dando per scontato che sia un rapporto simile a quello moderno (come si faceva nel suddetto documentario), non posso sperare di capire perchè una certa struttura era costruita in una certa maniera (Sociologia)””

    Questo è incredibile!
    La storia, oggi, può essere studiata come ieri, ma va indagata in squadra e questo rende la materia solamente più eccitante.

    1. Torno molto raramente a rileggere i miei post, ma forse avrei dovuto farlo più spesso, in precedenza.

      Quando cerco di condensare in quattro-cinque frasi ciò che di solito necessita di una trattazione decisamente più lunga, scrivo dei veri e propri abbrobbri poco degni di me.

      Sembra che stia scrivendo “a braccio”…

      1. Sono lieta che tu te ne sia reso conto da solo. Nessuno qui è l’Accademia della Crusca, a cominciare dalla sottoscritta (i miei post pullulano di errori), tuttavia un minimo rispetto delle regole sintattiche e della punteggiatura è necessario per essere compresi dagli altri.
        Non è, comunque, questione di lunghezza. Si può condensare in quattro o cinque righe anche il pensiero Hegel, ma senza punteggiatura tutto è impossibile.
        I periodi lunghi lasciamoli a Proust, l’unico che poteva permetterseli.
        Elisabetta

        1. Mi scuso per questa mancanza di rispetto nei confronti di chi legge.
          Di solito sono il primo a far notare mancanze simili agli altri eppure stavolta sono io a dovermi correggere. Non è una gran figura.

          Non posso che dare la colpa alla mia ritrosia verso questi tipi di “scambi social”: un problema totalmente mio.

          Cercherò di stare più attento.

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