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Scuola internazionale: un papà racconta

Cosa è una scuola internazionale? In cosa si distingue da una scuola bilingue (come quelle di cui si è parlato in un altro post)?

I genitori interessati al tema spesso fanno fatica a distinguere tra i due modelli, ma non hanno tutti i torti: spesso districarsi in questo nuovo lessico è complicato.

Il modo più semplice per capire meglio cosa è una scuola internazionale è andarlo a chiedere a chi ci manda i propri figli.

Ho chiesto allora aiuto a Francesco S. che ha due gemelli che frequentano la third primary a Venezia, presso una scuola internazionale inglese.

Ecco, dunque, il racconto di Francesco S.

La scuola che abbiamo scelto ha programmi modellati su quelli del Regno Unito, e già qui è necessaria qualche precisazione. Intanto, in termini del tutto generali, la scuola internazionale è un poco come il “misto seta”: non ne esiste una definizione ufficiale, che vincoli a determinati contenuti minimi, come fa la DOP per i prodotti alimentari. All’interno della categoria – per continuare con la metafora – ci può essere il foulard quasi tutta seta e una minima percentuale di spandex per elasticizzarlo come pure il tutto spandex. Fuor di metafora, c’è la scuola internazionale che segue effettivamente il sistema di istruzione di un paese:  che sia Regno Unito (come nel nostro caso) oppure Francia (per la scuola francese) o Stati Uniti (per la scuola americana) e la scuola ha solo gli adattamenti strettamente necessari al fatto che opera in territorio italiano. Poi ci sono i modelli misti, ossia quelle che, a forza di prendere una cosa da un sistema di istruzione e una cosa da un altro, sono così internazionali da fare storia sé e, infine, ci sono quelle che di internazionale hanno solo il nome.

Prima regola, quindi: informatevi. Una buona scuola internazionale, e, aggiungerei, qualunque buona scuola, è trasparente: non ha problemi a ricevervi e a darvi tutte le informazioni che chiedete anche quando, come, nel caso del mio primo contatto, vi presentate con due bambini di due anni all’open day pensato per i soli genitori.

Corollario a questa regola: perché il discorso serva a qualcosa, un poco di interesse per la cultura di riferimento ce lo dovete avere.

Curiosità: le scuole internazionali di cultura anglosassone sono – nella quasi totalità dei casi – scuole private (e purtroppo molto costose), ma paesi più lungimiranti del nostro, la cui lingua non gode della “rendita di posizione” dell’inglese, mantengono una rete di proprie scuole pubbliche all’estero. Chi è di Roma, ad esempio, conosce lo Chateubriand, liceo francese che dipende dal relativo Ministero, come il londinese Charles De Gaulle. L’Italia –anche in questo caso all’avanguardia della retroguardia-  le ha invece chiuse tutte: nel momento in cui parliamo, per esempio, a Londra esiste una sola scuola internazionale italiana, gestita però da una fondazione privata.

La nostra scuola internazionale, ove i gemellini hanno finora svolto tutto il corso di studi, prevede due anni di nursery, uno di reception, cinque di primary e tre di middle, e arriva quindi sino all’equivalente della nostra terza media (che poi ormai si chiama “secondaria di primo grado”). Il corso di studi, rispetto al modello UK non è, a rigore,  completo: mancano i primi due anni di nursery. Per i piccolissimi, infatti, la scuola non è attrezzata; viceversa, il corso completo c’è, ad esempio, a Padova.

Ma quali sono le particolarità rispetto al sistema italiano?  Per i primi due anni, la differenza c’è ma non si vede: le maestre  – ogni classe alla nursery e alla reception ne ha due, più quelle delle attività speciali, come la musica – sono madrelingua, parlano solo in inglese… e i pupi assorbono.

Potete gratificarvi alle recite; potete inoltre notare che vedono con interesse, ma non sempre e non comunque, i cartoni in inglese, ma potreste pensare che non ne sia valsa la pena: in fondo, la filastrocca in inglese la cantano anche alla recita del più disastrato asilo pubblico. Un osservatore attento però noterà qualcosa: la pronuncia non è il solito disastro, anzi ricorda in modo sospetto quella degli annunciatori televisivi. E’ solo l’inizio: la differenza cominciate a sentirla in reception, ed è come – alla scuola di volo – passare dall’aliante al jet.

Nel sistema inglese, la reception non è, come per noi, l’ultimo anno di scuola per l’infanzia, ma è il primo della primaria, e quindi ha un programma strutturato. Mica da poco: lettura, numeri fino al venti, addizione, sottrazione… Nel nostro caso, poi, la prima maestra l’italiano non lo capiva proprio, e quindi l’immersione nell’inglese era davvero totale.

E la lingua si studia davvero: in reception si impara a leggere con quella che, per i bambini inglesi, è una presenza quasi di famiglia, ovvero la serie dei libretti dell’Oxford Reading Tree (ORT). In sintesi, è una serie graduata di storie, da quelle semplicissime a quelle strutturate, che accompagna i bambini sino alla fine della primary, ed è imperniata sulle avventure di tre loro simili, i famosi Chip, Biff e Kipper. E’però il caso di notare che una buona insegnante non si limita all’ORT: esistono molte altre serie similari, anche di “non-fiction”, altrettanto valide, anche se meno note. Nel caso della nostra scuola, abbiamo assegnato in media un libro alla settimana, e dobbiamo far esercitare i bambini nella lettura, annotando i risultati sull’apposito Reading Report, ovvero una sorta di registrino a ciò dedicato.

Così si scopre perché l’inglese si è imposto come lingua mondiale: in inglese, con le figure e le parole di una o due sillabe, si racconta una storia. In italiano, con monosillabi e bisillabi non si va neanche dietro l’angolo. Si scopre poi, osservando i materiali di matematica, che la scuola non usa libri di testo, ma schede preparate di volta in volta dall’insegnante. E’ un sistema non migliore né peggiore del nostro, dipende dall’insegnante stesso: bisogna solo abituarsi. Intanto, il pupo lo ha già fatto, e ci ha sopravanzato.

Alla fine della reception, c’è la prima crisi di identità. Intendo del genitore, non dei pupi. In genere comincia con una domanda: e l’italiano?

Le risposte possibili sono due, e dirò quale è stata la nostra. Prendetela però con beneficio di inventario: non mi stanco di ripetere che parlare di questi argomenti con me è come discutere della sharia con il mullah Omar…

Se siete come me, ritenete realistica la seguente considerazione. I nostri pupi, dopotutto, parlano italiano per la gran parte del giorno e quindi l’italiano – questo sì, non l’inglese – lo possono sempre imparare. Naturalmente, è necessario qualche piccolo sforzo: ad esempio, a casa da noi il dialetto non si usa, salva la citazione caricaturale, alla quale il veneto particolarmente si presta. Potete quindi fidarvi dell’italiano che insegna la scuola – sul quale più avanti i dettagli. A questo punto, vi prende il “sacro fuoco”: realizzate che l’editoria inglese produce un universo di ottimi materiali per bambini, moderni, ben fatti ed intelligenti, e cominciate ad acquistarlo per casa vostra, su Internet o con incursioni a Londra (attenti all’eccedenza bagagli!). Dell’ORT, e di altre collane, c’è anche la guida per i genitori, e c’è una guida ulteriore per ogni aspetto della vita scolastica… avete solo l’imbarazzo della scelta.

In rete poi, del tutto gratis, potete seguire qualche forum di genitori UK, e scoprire con piacere che la vostra classe, fatta di bambini bilingui, è al passo con una corrispondente classe monolingue  inglese. Quanto ai contenuti, un solo esempio: mia figlia si è appassionata alla tematica dei pregiudizi razziali –che giudica semplicemente stupidi– con una minibiografia di Rosa Parks. Non ho potuto non confrontarla con il mesto libriccino di una autrice per bambini che in Italia va per la maggiore, ove le famiglie decidono di finanziare la scuola per l’acquisto della carta igienica, e l’isolato genitore che obietta “ma allora, le tasse cosa le paghiamo a fare?” viene seccamente zittito con l’accusa di “buttare tutto in politica”.

Altri invece sono stati di parere diverso: la paura che i figlioli “non sappiano più parlare italiano” ha preso il sopravvento, e i miei giovani hanno perduto tanti compagni, rientrati nel rassicurante (?) alveo della scuola “convenzionale”.

Siete allora arrivati alla primary vera e propria, ove si svolge un programma ampio, con più di un insegnante. La squadra comprende l’insegnante di madrelingua, che svolge le materie fondamentali in lingua inglese, l’insegnante di musica, quello di PE (educazione fisica) e quello di IT (tecnologia informatica), che pure insegnano in inglese, e l’insegnante di italiano, che lo insegna come lingua straniera, e ha le sei ore settimanali che nella scuola pubblica sono dedicate alla lingua propriamente detta. Nel nostro caso, finora sono state più che sufficienti. Ricordo ancora l’emozione nel rivedere, sul quaderno di italiano, la filastrocca che era sul sussidiario della mia prima elementare… al di là dei sentimentalismi, però, è richiesto un serio lavoro a casa, più accentuato per l’italiano, ove i compiti si devono fare, e nel caso nostro occupano il sabato mattina, con qualche aggiunta se necessario.

I compiti di inglese, per parte loro, nei primi due anni comprendono soprattutto lo spelling, che per noi italiani, la cui lingua si scrive come si pronuncia, è un oggetto misterioso. Funziona così: ogni lunedì l’insegnante assegna una lista di parole, sulle quali ci sarà la prova di dettatura il venerdì successivo. Giorno per giorno, vi eserciterete: se non vi fidate della vostra pronuncia, in rete c’è, gratuito, il dizionario Oxford Paravia, con i files relativi, quindi non avete scuse. I miei giovani hanno un punto di onore nel completare la prova senza errori, perché così il papà fa loro un piccolo regalo.

Ma – direte voi – il rientro nella scuola italiana è possibile? Un serio aiuto per far bene anche l’italiano, viene, nel caso nostro, dalla veste giuridica della scuola, che non è paritaria. La direzione ha inteso rimediare facendo sostenere, ogni anno della primary e alla fine della middle, l’esame “da privatista” davanti alla commissione statale esterna, che si reca a scuola. Di conseguenza, specie nelle ultime settimane di scuola, l’insegnante di italiano fa un certo numero di ore integrative, per abituare alla metodologia italiana. In pratica, fanno tante di quelle prove d’esame che il grande giorno la paura è già passata, e l’esperienza viene vissuta come uno stimolo ulteriore a fare bene, con uno spirito di corpo che non guasta: si tratta di far fare bella figura alla scuola, e ci si impegna molto.

Fin qui la mia esperienza personale, che è tutta positiva. Ma chi la scuola internazionale la sta ancora scegliendo – e magari ha più alternative – ha un problema: come fare a valutare la qualità?

Molti guardano esclusivamente alla percentuale di madrelingua, ma attenzione. Un’elevata percentuale di allievi stranieri, inglesi e americani, può essere positiva, ma non guardate solo quella. Si, perché, quello che conta, non è (solo) la percentuale di madrelingua ma la qualità della scuola. E allora, se gli stranieri presenti sono tutti di famiglie “in transito”, ossia che si trasferiscono di frequente per lavoro, la cosa non è necessariamente positiva. Una persona che conosco mi ha raccontato l’esperienza di suo figlio ad una scuola internazionale di Praga: confezione di super lusso, con bodyguard alla porta e ristorante tre stelle Michelin o giù di lì, insegnanti sicuramente di madrelingua… peccato che una di costoro insegni in dialetto scozzese. Chi se ne intende, mi dice che è come se si insegnasse in bergamasco stretto. Le famiglie protestano, la scuola promette interessamento… intanto, l’anno finisce, e buona parte dei protestatari si trasferisce. Risultato: l’insegnante continua a fare quello che faceva. L’utenza “stanziale”, certo, può essere a volte più ruspante – perché comprende anche famiglie che l’inglese non lo masticano così bene – ma, se è una utenza bene informata (ossia, se si studia i programmi scolastici del Regno Unito) ed è fidelizzata è, in teoria, in miglior posizione per chiedere qualità.

Che poi questa qualità come si misura? Intanto vedendo se le competenze dei ragazzini sono al livello di quelle dei loro coetanei inglesi. Come si fa, direte? Ebbene qui ci viene in aiuto l’ORT. Cosa è? Ma è l’Oxford Reading Tree che ho già menzionato più sopra. Qui (https://global.oup.com/education/content/primary/series/oxford-reading-tree/?region=uk), trovate la corrispondenza tra i libri e l’età che devono avere i bambini che li leggono. Così potete comparare i vostri figli con i loro coetanei inglesi, almeno per livello di literacy.

E per i ragazzi più grandi? Io ci devo ancora passare, ma vi anticipo che è importante mettere a confronto i risultati degli esami standardizzati – che hanno strani nomi come GCSE e IGCSE A-levels e IB – e vedere il ventaglio delle materie insegnate per sostenere quegli esami. Ma più oltre non posso andare, avendo figli di 7 anni. Per me posso dire che, fin qui, i risultati ci sono. Per il futuro, ci sono tante idee, il resto, come dice la canzone, lo scopriremo solo vivendo.

E io ringrazio Francesco S. per la sua testimonianza, che spero sia utile a molti. 

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