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Viva la scuola pubblica! Intervista ad una Maestra per vocazione

educazioneglobale ABC scuolaNegli anni la scuola pubblica è stata oggetto di tagli di fondi e di organico e, sempre di più, l’insegnamento viene percepito dai docenti come un mestiere difficile, stressante oltre che sottopagato. Eppure vi sono scuole pubbliche che funzionano bene malgrado i tagli e insegnanti che ti dicono: “è una gran fatica, ma non cambierei mai: faccio il mestiere più bello del mondo”.

Di solito, in questo blog, mi rivolgo ai genitori (categoria alla quale appartengo), ma mi fa piacere anche dare spazio a chi nella scuola ci lavora. In particolare, mi piace dare spazio a chi crede nel proprio lavoro.

Insomma, ci sono persone che lavorano nella scuola per vocazione e non per caso. Io ho la fortuna di conoscerne alcune.

Una di queste è Lidia, docente di scuola primaria. Ho quindi colto la palla al balzo: conosco Lidia ormai da una ventina d’anni, so che fa questo lavoro con passione ed è una delle persone più comunicative e più simpatiche che uno si possa immaginare, dunque perché non intervistarla?

Negli anni, alle cene fra amici, Lidia è arrivata sempre con qualche storia sui suoi allievi, divertente o commovente. Del resto Lidia ha deciso deliberatamente di insegnare in una periferia romana, dove arrivano bambini che crescono in un contesto non facile. Lei non insegna loro solo a leggere e scrivere, sottrarre o dividere, ma anche – come vedremo tra poco – a stare al mondo. Insomma, è una Maestra a tutto tondo. Così ho deciso di invitarla un pomeriggio e di ascoltare i suoi racconti. Ecco la sua esperienza, raccolta per i lettori di EducazioneGlobale.

Allora, Lidia, qual’è il tuo background formativo e quando e perché hai deciso di diventare insegnante?

Fare la maestra è stato per me, da sempre, un desiderio forte. E’ qualcosa che ho sempre pensato di volere e di dover fare, sin da bambina. Pertanto, già quando si è trattato di scegliere la scuola superiore, ho optato per le magistrali. Alle magistrali studiavamo, tra le altre cose, filosofia, psicologia e pedagogia, tutte discipline importanti per l’insegnamento.

Oggi, il percorso di un docente è diverso, all’epoca, tuttavia, era questo. Io ho poi proseguito con la Facoltà di Lettere, laureandomi in Italianistica e sostenendo tutti gli esami necessari per l’insegnamento (in quei tempi era necessario sostenere due annualità di storia, di geografia, di italiano e di latino). In questo modo mi sono formata per insegnare Lettere anche nei licei. Vorrei sottolineare che, quando ho iniziato “la professione”, non era richiesto che una maestra fosse laureata, ma io lo ero e, devo dire, che il 90% degli insegnanti che attualmente insegnano con me nella mia scuola, sono laureati.

Quanti anni sono che insegni?

Vent’anni, di cui 17 di ruolo. Oggi ho 45 anni; ho iniziato a fare le mie prime supplenze a 25 e questo lavoro mi piace ancora, molto!

Che cosa insegni esattamente?

Ad ogni ciclo cambio, a seconda di come ci mettiamo d’accordo con le colleghe. In questo ciclo insegno storia, geografia e matematica e i miei allievi, quest’anno, sono in quarta primaria. In altri anni ho insegnato storia ed italiano, dipende.

Come mai hai deciso di insegnare in periferia?

La decisione di optare per la periferia – sobbarcandomi uno spostamento che, all’inizio della mia carriera, comprendeva anche un’ora e mezzo di macchina ad andare e un’ora e mezzo a tornare! – è stata inizialmente casuale ma, successivamente, è diventata una scelta.

Le cose sono andate così: quando ho iniziato mi sono resa conto che nessuno voleva andare in zone periferiche, in particolare a Primavalle, la zona di cui sto parlando.  Sapevo, inoltre, che c’erano varie scuole e che era una zona popolosa, con tanti bambini. Pertanto, avevo più possibilità di lavorare (e io avevo voglia di cominciare il più presto possibile!).

All’epoca il sistema funzionava in questo modo: ti sceglievi 3 – 4 scuole e facevi domanda per le supplenze. Dunque, ho fatto domanda ad un po’ di scuole, dove gli altri non volevano andare, ed ho iniziato lì. Poi sono rimasta, perché insegnare in periferia mi è piaciuto. Insomma, si può dire che ho cominciato per caso ed ho continuato per amore! Oggi la traversata di Roma è anche un po’ più breve per via del nuovo tunnel della tangenziale, dunque si sono ridotti un po’ i tempi di spostamento, anche se la collocazione rimane scomoda.

Come è il quartiere in cui insegni?

La zona non è facile: alcuni bambini hanno (o hanno avuto) i genitori in carcere e, negli ultimi anni, ci sono tanti problemi di disoccupazione. Per altri versi, però, è un quartiere molto eterogeneo: oltre alle situazioni di disagio, ci sono molti stranieri ben integrati e giovani famiglie di condizione economica modesta ma di ampia cultura, che hanno scelto Primavalle per questioni di costi, ma che seguono molto i figli e, nel fine settimana, li portano alle mostre o a visitare i monumenti…

Secondo te, quali sono le caratteristiche necessarie per essere una buona Maestra (o un buon Maestro)?

Oltre alla conoscenza delle materie e alla passione per l’insegnamento, direi la capacità di avere un rapporto empatico con i bambini, di ascoltarli, di intuirne i diversi talenti…. e poi ci vuole il fisico!

In che senso?

Elisabetta, per insegnare nella scuola primaria occorre avere una prestanza fisica non indifferente.  A livello umano e affettivo devi prestare attenzione a tutti i tuoi alunni e, poiché sono piccoli, ti devi anche muovere, girare per i banchi, controllare come impugnano la penna. Devi guardarli negli occhi, per capire se è una buona giornata o c’è qualcosa di storto. Devi parlare a tutti insieme ma anche a ciascuno singolarmente. Non fai lezione seduta in cattedra. Io mi muovo in continuazione. Starò seduta 10 minuti in tutta la giornata. E’ un lavoro usurante: per la voce e per il corpo, però tanto, tanto bello.

Che differenze ci sono tra la situazione di oggi e la situazione di quando hai iniziato a lavorare? In vent’anni come è cambiata la scuola dal tuo punto di vista? In fondo la scuola rispecchia la società…

In vent’anni i cambiamenti sono stati tantissimi: da tutti i punti di vista. Cerco di elencarteli. Dal punto di vista dei bambini, il grosso cambiamento è che la famiglia si è indebolita, ci sono più separazioni “brutte” (con liti, ripicche, avvocati e cause) rispetto a quante non ve ne fossero prima. E’ come se i genitori fossero diventati più narcisisti. Spesso, i genitori che si separano, dicono: “tanto mio figlio non è l’unico, non si sentirà diverso perché in classe ci sono più figli di separati che figli di coppie che funzionano”.  Così facendo si giustificano, ma non si rendono conto che, anche quando c’è una classe intera di figli di separati, al bambino non cambia nulla: soffre comunque.

Anche la società è cambiata. E’ più veloce e non rispetta i tempi dei bambini. Questi bimbi fanno troppe attività, stanno troppo poco a casa loro, non giocano abbastanza tranquilli. Ciò si riverbera nel comportamento in classe, perché sembrano ansiosi di correre.

Mi spiego: a volte un bambino finisce un lavoro in classe per primo, arriva da me o dalla mia collega e dice: “Maestra, ho finito la consegna, ora che faccio?”

A noi viene da ridere, e gli diciamo “non fare nulla, annoiati un po’”.

Poiché i bambini sono le creature più ironiche del mondo, ormai conoscono la risposta, e dicono, con certi occhi maliziosi che te li farei vedere: “ho finito, che faccio, maestra…mi annoio un po’?”.

Insomma, i bambini hanno bisogno di avere tempo per trovare, nella noia, le cose da fare. Per capire, con la noia, chi sono e quello che gli piace fare.

E poi io noto che, oltre al tempo, manca loro l’attenzione. A volte vengono a scuola e mi raccontano le cose più disparate: i litigi con i fratelli, quello che pensano di come cucina la mamma, un fatto accaduto il giorno prima. A volte si tratta di eventi poco rilevanti, ma io noto questo: hanno bisogno di raccontare a me perché non li ha ascoltati nessuno.

I genitori pure sono cambiati perché pretendono molto dai figli, ma, allo stesso tempo, non accettano critiche e non vogliono problemi.

Infine sono cambiati i programmi. A me questi ultimi programmi, per la storia e la geografia non piacciono. Si esce dalle elementari che si sta ancora alla storia romana, o si passano i primi anni di geografia a capire l’orientamento nello spazio. I bambini hanno bisogno di nozioni concrete, non di astrazioni.

Per questo motivo, avvalendomi della libertà di insegnamento, e con l’assenso e la collaborazione dei genitori, io amplio il programma. I genitori sono contenti e collaborano, aiutandomi con le fotocopie o recuperando vecchi sussidiari prima che vadano al macero, perché la parte di storia moderna e contemporanea nei nuovi programmi non c’è!

Che meraviglia, Lidia, quindi non ti fermi a quell’assurdità di studiare il lavoro dello storico o dell’archeologo nel primo biennio, del quale agli alunni non resta nulla?

Esatto. In Geografia si passerebbero i primi anni a studiare la spazialità, orientamento, si ripete – forse troppe volte – cosa è una montagna, cosa è una collina. I bambini arriverebbero alle medie con una conoscenza limitata della materia e pure annoiati per aver ripetuto troppe volte lo stesso concetto. A questo punto preferisco ampliare gli argomenti geografici alle Regioni, all’Italia, all’Europa, anche utilizzando il vissuto dei bambini e la presenza di bambini stranieri, per approfondire ulteriormente.

In storia spiego cosa è un archeologo o cosa è uno storico, affronto quelle nozioni, poi comincio con il big bang, i dinosauri, gli uomini primitivi ma proseguo sino ai nostri giorni, in modo che, in quarta e quinta, posso spiegare un po’ di storia moderna e contemporanea. Insomma, faccio il novecento, la seconda guerra mondiale, li porto in gita alle Fosse Ardeatine…

Le Fosse Ardeatine… li porti molto in giro per Roma?

Noi (io e un paio di colleghe) portiamo i bambini per tutta Roma…e con i mezzi pubblici! Niente pullman. E’ importante, sai? E’ importante stare con gli altri e imparare a comportarti in maniera civile su un autobus. In un ciclo di scuola (dunque nei 5 anni), li ho portati al Foro Romano, al Colosseo, all’Auditorium per le conferenze, alle Fosse Ardeatine, al museo di via Tasso, a visitare la Roma barocca. Al teatro Eliseo, all’Olimpico, al Sistina. E li faccio camminare. A volte facciamo a piedi anche 3 chilometri. La mia quarta primaria, quest’anno, ha visitato la mostra su Cleopatra, e quanto gli è piaciuta!

La scuola primaria è ancora un’epoca in cui dai l’impronta ai bambini, specie a quei bimbi che non hanno possibilità a casa di  avere genitori che li portano alle mostre o li introducono all’arte. Alcuni di loro queste cose le fanno solo a scuola, capisci?

Come è una tua classe tipica? Come affronti i diversi stili di apprendimento degli studenti?

Tipicamente ho 22 bambini. Di questi, non ce ne sono due uguali! Ad esempio, sono tanti i bambini con DSA (n.b. Disturbi specifici dell’apprendimento), certificati dalle ASL che, spesso, non hanno neanche il sostegno, anche se ne avrebbero il diritto.  Noi maestre abbiamo una sensibilità verso i disturbi dell’apprendimento, anche se le diagnosi devono esser fatte da uno specialista.

Poi ci sono bambini che sono un po’ più lenti, ma che risolvono i propri problemi da soli, con il tempo. A volte si tratta solo di una lentezza. Noi maestre parliamo di questi casi facendo riferimento ai “tempi personali” del bambino. Ognuno ha i suoi tempi. Alcuni hanno dei tempi che sfiorano la patologia, eppure non sono patologia, perché si risolvono del tutto e senza intervento esterno.

In media, su 22 bambini, ho 2 bambini con DSA, 2 un po’ lenti, 9 stranieri, 1 rom. A dispetto dei pregiudizi, molti stranieri non hanno alcun problema. Tanti sono nati in Italia, ma magari a casa parlano urdu e io, comunque, devo tener conto che nessuno può aiutarli nei compiti. Non tutti i casi che ho sono così rosei. Ad esempio, la mamma della rom che ho attualmente in classe, per firmare fa una croce: è analfabeta. La figlia è fortemente problematica, è stata bocciata in passato tante volte e penso che abbia un ritardo cognitivo che nessuno ha riconosciuto e diagnosticato. Ma è l’ultimo dei suoi problemi, visto che vive in un campo nomadi e, quando non viene a scuola, è perché la mandano a frugare nei cassonetti. Questi sono i casi più tristi. Più spesso ho bimbi rom sveglissimi, si integrano bene e imparano alla svelta, anche se poi, le termine dei 5 anni, non so cosa succederà di loro alle medie, dove discipline e docenti sono tanti e tutto è più veloce.

Ma ci sono anche i bambini di talento. Su 22 bambini, ci sono quei 4-5 bambini che, in quarta o quinta, potrebbero andare anche alle medie; sono delle eccellenze e io non voglio trascurare neanche loro. Li incoraggio, soprattutto gli consiglio cosa leggere. Ho una bambina di quarta che si è letta l’Eneide e l’Odissea!

Non pensi che questi bimbi di talento dovrebbero andare avanti? Saltare una classe?

No, perché lo scambio che si danno questi bambini così diversi come testa e come preparazione è imprescindibile: è questa è la vera scuola di vita.

La bimba che legge l’Odissea ha bisogno come il pane del suo compagno un po’ rozzo e bulletto che le dice, talvolta, “ahó ma quanno la smetti di studiare?!!. Ne ha bisogno anche lei, perché così torna con i piedi per terra, altrimenti diventerebbe piena di prosopopea e si isolerebbe dai compagni meno colti di lei. E lui ha bisogno di lei, perché, alla fine, diventa curioso: magari non legge, ma si fa raccontare i miti greci, che la bambina già conosce. E lei, nel raccontarli, li fa propri. E’ un circolo virtuoso.

Quale è la cosa più bella della tua scuola (a parte i bambini)?

Che abbiamo un giardino! E nel giardino c’è pure un albero, l’albero della Maestra. Abbiamo fatto un progetto con Legambiente e abbiamo piantato questo albero. L’ho difeso con le unghie e i denti: era uno stecchetto tenuto dritto da tre pali e ora sta crescendo; quando andiamo in giardino i miei bambini mi dicono: “guarda maestra il tuo albero ha messo le gemme!”.

Il momento del giardino è bellissimo. Dico ai bambini: “Potete fare quello che volete, giocare, correre, cantare, ma, se litigate o se qualcuno si fa male, riandate tutti in classe!”. Allora non litigano mai e se, giocando ad acchiapparella, qualcuno spintona un altro è quello che ha spintonato che cura quello caduto.

Una domanda che tutti i genitori si pongono. Qual’è, secondo te, l’orario ideale per un bambino a scuola?

L’orario ideale a scuola sarebbe il modulo, ossia l’orario antimeridiano per tre giorni e due giorni in cui si rimane a scuola anche il pomeriggio, con la mensa. L’esperienza della mensa e del pomeriggio insieme è molto positiva per la socialità, per imparare a mangiare con gli altri o mangiare cose diverse. Anche per imparare un minimo di buone maniere: se lo fai fare a tutti insieme, i bambini le regole di buona educazione le seguono. Il tempo pieno non è ideale perché stanca molto di più, ma capisco che è l’unica alternativa se i genitori entrambi lavorano. Io, comunque, insegno al tempo pieno.

Come vi regolate con i compiti? Quanti ne date?

Nel caso del tempo pieno, li diamo solo il venerdì ed è il consolidamento di quanto fatto in classe. Ci mettiamo d’accordo con la collega per non darne troppi. Però i giorni della settimana sono scanditi dalle diverse materie, dunque chi non fa tutto nel weekend sa che, magari, scienze è per il mercoledì e storia per il giovedì, e si adegua.

Hai mai pensato di cambiare e passare a lavorare alla scuola media o alle superiori?

Quando mi è arrivata la lettera con cui mi hanno comunicato che potevo entrare di ruolo alle superiori sono stata male una settimana. Potevo persino scegliere la scuola, sarei potuta entrare di ruolo in qualsiasi liceo, magari del centro, magari un liceo prestigioso. Sono stata male perché mi rodevo nell’indecisione.

Poi ho pensato alla libertà di inventare le lezioni, alla bellezza di poter risolvere i problemi in modo creativo. Questo capita solo alla scuola primaria, quando i bambini sono piccoli e si affidano a te, con affetto e fiducia. Dove trovo una scuola in cui mi arriva un bambino che mi dice “qui sto bene, questa è come la mia famiglia, qui mi sento protetto”? Questo rapporto con la scuola un adolescente non ce l’ha più. Allora ho deciso: finché mi regge il fisico farò la maestra elementare!

Quale è la cosa più buffa o più commovente che ti è mai capitata nel tuo lavoro? Hai un aneddoto da raccontare?

Anni fa ho avuto un bambino con un handicap grave. Non camminava bene e non parlava per nulla ed era molto ma molto aggressivo, perché era l’aggressività l’unico suo modo di  attirare l’attenzione. A parte lanciare oggetti e tentare di picchiare i compagni, a volte saliva in piedi sul banco in piedi e si buttava all’indietro. Dovevo correre ad acchiapparlo, prima che si facesse male (..capito perché dico che “ci vuole il fisico” per fare questo mestiere?!).

Tra tanti problemi, aveva anche dei comportamenti da autistico, per cui una cosa che lo calmava molto era quella di aprire e chiudere compulsivamente la zip dell’astuccio, oppure tirare fuori tutte le matite una ad una e rimetterle dentro, all’infinito.

Questo bambino aveva un disperato bisogno di comunicare e non ci riusciva. Allora mi è venuta un’idea: d’accordo con i genitori, abbiamo preso una ragazza che gli ha insegnato la LIS, la lingua dei segni, quella che usano i sordomuti. L’ha insegnata anche ai genitori del bambino. L’ha poi insegnata a tutta la classe.

Bene, quel bambino ha smesso di picchiare e ha smesso di mettersi sui banchi in piedi.

Un giorno dovevo correggere un compito, ero così concentrata che non mi sono accorta che in classe c’è stato prima un forte brusio e poi è piombato, improvvisamente, il silenzio più assoluto.

Ad un certo punto ho alzato la testa, di scatto e ho visto questo bambino. Stava al suo banco, ma davanti a lui, sul banco, c’erano gli astucci di tutti gli altri bambini. Ognuno gli aveva dato il proprio. La bambina lettrice si è alzata in piedi e mi ha detto: “Maestra, gli abbiamo dato i nostri astucci, così lo teniamo buono noi, tu correggi pure i compiti”.

Lui ha sorriso e poi, usando la lingua dei segni, ha ringraziato i suoi compagni. Io non ho più corretto i compiti: ero troppo commossa.

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Comments

  1. Sono d’accordo. Bisogna scardinare innanzitutto una mentalità un po’ provinciale che non fa rendere conto a molti che imparare bene una lingua è impegnativo e che non basta un’ora a settimana per farlo. Bisognerebbe far capire che i paesi emergenti, in un contesto di globalizzazione, sono molto più avanti di noi e che per studiare su testi in lingua originale, o seguire delle lezioni in inglese non basta conoscere la lingua come mediamente la conosciamo noi, ma molto, molto meglio! E per far questo, bisogna iniziare a lavorarci su quando i bambini sono piccoli. Anzi, più piccoli sono, meglio è. Sento spesso dire: vabbè poi quando sono grandi li mandi un anno all’estero ed è fatta. Non so se sia vero e mi chiedo come fanno ad andare a seguire le lezioni in inglese all’estero se non sono padroni della lingua. Forse io sono troppo apprensiva (mi è stato detto dal responsabile dell’internazionalizzazione dell’istituto di mia figlia, quando gli ho chiesto di potenziare l’inglese dalla primaria) ma io continuo a pensare che a fronte della mia presunta apprensione c’è un atteggiamento un po’ troppo superficiale.
    Vorrei infine precisare una cosa. A me sinceramente non spaventa della scuola privata internazionale o in generale delle scuole dalle rette elevate l’ambiente “snob”. Non credo che questo possa scardinare i principi che una famiglia trasmette ai propri figli. Dare importanza alla borsa griffata fa parte delle diversità di cui il mondo è ricco e non la giudico. Conosco moltissime mamme con borse di Chanel che sono delle donne in gamba, anche se lavorano part-time o hanno deciso di stare a casa. Non è questo. Io parlo della frustrazione magari di non riuscire a far fare ai propri figli le stesse cose (spesso stimolanti) dei compagni: per chi ha uno stipendio medio, ad esempio, anche andare a teatro con gli amichetti di classe e prenotare una poltronissima ( non è questione di “snobismo”: quando i bimbi sono piccoli, vedono meglio) può essere un problema, se bisogna risparmiare…Insomma non credo che la retta esaurisca le spese “di contorno” correlate, di fatto, al frequentare una scuola costosa.

  2. Ritornando alla bravissima maestra Lidia, sono d’accordo con lei soprattutto sull’importanza della noia per i bambini, che per me è l’habitat naturale della creatività. I bambini hanno bisogno di correre? il gioco libero, la possibilità di scorrazzare in spazi liberi a ricorrersi e/o a fare i cd “giochi di cortile” è sempre più rara. E poi la storia. Quando sono andata all’open day della scuola primaria (pubblica) Lante della Rovere di Roma (una scuola a mio avviso eccellente) la Preside ha detto che lì la storia la facevano iniziare in prima elementare, proprio perché la pensavano come la maestra Lidia. Una volta le maestre hanno costruito insieme ai bambini una mummia!!

  3. Cara Lavinia, permettimi un sorriso: per me il fatto oggettivo di non riuscire a fare, o a far fare ai miei figli, le stesse cose di vicini e compagni è la normalità, e credo sia un dato difficilmente eliminabile. Anche a Malibù –abbastanza lontana, peraltro, da casa mia- ci sarà sempre chi ha la villa più bella, o meglio esposta, o più antica della tua: pare che contino molto le pareti ricoperte di edera… Vederlo come una fonte di frustrazione dipende dai singoli: io, al volante della mia amata Tigra del 1997, mi ricordo sempre il detto attribuito alla upper class inglese, “less is more, better is wrong”. Magari non è vero, ma l’ho ripetuto così tante volte che ci credo.
    Voglio poi aggiungere altro alla risposta, ma il computer mi riceve solo un post breve, così rinvio ai successivi…

  4. Ciò detto, passo a cose meno pinzellaccherose. Quello che tu pensi delle vacanze studio… è la pura verità: in sintesi, sempre politicamente scorrettissima, sono un’esperienza valida, come molte altre, sotto il profilo umano, ma per imparare la lingua servono a nulla. Bisognerebbe tener presente un dato che ho ricavato dalla lettura del Messaggero di Londra, il simpatico Evening Standard (pure gratuito!): in UK, il settore “studio della lingua per stranieri” è un’industria che vale, a spanne, quanto l’IMU italiana, ed è intuitivo che di fronte a simili fatturati si facciano appunto le cose in modo un poco industriale, naturalmente senza nulla voler togliere ai validi artigiani che, ne son certo, esistono anche lì.

  5. Traduzione pratica: durante i nostri vagabondaggi per Londra e dintorni, abbiamo incontrato spesso i gruppi delle vacanze studio, immediatamente riconoscibili perché inquadrano -per evidenti ragioni di comodità dei sorveglianti- francesi con francesi, tedeschi con tedeschi e, appunto, italiani con italiani, o se va bene con spagnoli. Risultato: tanta allegria, pure contagiosa, ma non si sente una parola in inglese che sia una. Avrei poi qualcosa da dire sulle escursioni: trentacinque minuti per vedere Oxford, perché il pullman parte – dato comunicatoci da una gentile accompagnatrice
    (italiana) in fila con noi davanti alla sede dell’università- mi sembrano un po’ pochini, a meno, beninteso, che non si tratti di una corsa campestre.

  6. Un’altra pura verità che tu hai ben compreso. Che “inglese scolastico” significhi “non sa l’inglese” è forse un’esagerazione dei selezionatori di personale -dopotutto, molte scuole fanno conseguire una qualche certificazione ufficiale, e con ciò sono molto più avanti di presunte università italiane di prestigio, che rilasciano “certificazioni di ateneo” di cui nel Paese di pertinenza nulla si sa. E’ però ben vero che per studiare, ovvero per seguire una lezione a livello universitario serve qualcosina di più: per convincersene, basta andare nel sito dell’Università di Oxford e vedere i video dei colloqui preliminari che i professori fanno con gli aspiranti. In teoria, per iscriversi all’università di un qualsiasi Paese europeo basterebbe il B2 della lingua di insegnamento, ma forse quei professori questa teoria non la conoscono, e a dire ad un docente di Oxford di tenersi ad un livello più scolastico, la vedo grigia…

  7. Per essere propositivo, ti suggerisco allora di leggere un bel libro, che meriterebbe una recensione in questo sito: “Fluent in 3 months”, dell’ottimo Benny Lewis. Chi egli sia, te lo lascio scoprire; il testo però è molto economico, oltre che –come si poteva sospettare- mai tradotto in italiano. Ti dico solo che mi ha aiutato a stare vagamente -un po’ come la tartaruga con le lepri- al passo dei miei giovanotti con l’inglese, e a mostrare loro che il vecchio Dad brontola tanto, ma ha ancora qualcosa da dire, magari in qualche altra lingua. Leggilo, portalo al responsabile dei rapporti internazionali, e provate a mettere in pratica –il divertimento, se non il risultato, è garantito- qualcuna delle molte idee che propone. E se avessi bisogno di aiuto per far opera di convincimento, sto qui a disposizione.

  8. Grazie per il consiglio, Francesco! Ho visto il sito di Benny Lewis e mi sembra molto accattivante. Proverò!
    Per il resto, mi sto organizzando con delle aupair quest’estate, speriamo di supplire alle carenze della scuola pubblica, che in altre materie, sta offrendo a mia figlia un ottimo percorso formativo.

  9. Cara Irmar, nella scuola di mio figlio, privata internazionale, seppur costosa, non ci sono solo figli di ricchi che organizzano feste mirabolanti. Ci sono tanti genitori che fanno dei sacrifici per far studiare i figli in una scuola moderna per dare loro maggiori possibilità. Molti dei figli sono consapevoli della cosa e si impegnano molto senza essere o sentirsi dei “principini”. La scuola stessa si impegna nel cercare di creare una comunità basata su atteggiamenti e valori positivi quali: sensibilità verso le necessità ed i sentimenti del prossimo, senso etico, integrità, onestà e senso di giustizia. La scuola è molto impegnata in progetti di volontariato coadiuvata dai ragazzi ecc. Certo il rischio di trovare qualche atteggiamento o persona “snob” c’è sicuramente, ma comunque io l’ho vissuto molto più forte in un normale e statale liceo scientifico.

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