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Quante ore deve durare la scuola? E’ meglio più “tempo – scuola” o più tempo libero?

educazioneglobale scuola libriDal post Bilinguismo a scuola: ma il CLIL è il metodo migliore? è nata una discussione interessante. Tra i commenti, qualcuno ha toccato una questione mai veramente risolta, quella del cosiddetto “tempo-scuola” ideale. “Tempo-scuola” è un’espressione di quello strano gergo che potremmo chiamare “scuolese” che, tradotta, significa semplicemente durata della giornata scolastica. Giuridicamente, la quantità del tempo-scuola può essere calcolata da vari punti di vista: come numero annuo di ore d’insegnamento vero e proprio, come numero annuo di ore di permanenza complessiva a scuola, oppure come numero annuo di ore di effettivo apprendimento (a scuola ma anche fuori, in particolare attraverso i compiti a casa). Infine, essa può essere anche considerata come numero annuo di giorni di scuola.

Quanto deve essere lunga la giornata scolastica nella scuola ideale?

Tracciare la durata di una giornata scolastica ottimale non è semplice: ordinamenti scolastici diversi hanno concezioni anche antitetiche del tempo che uno dovrebbe passare a scuola, a volte anche in ragione dei diversi “servizi educativi” che la scuola offriva. Sistemi d’istruzione che hanno scuole dotate di campus con attrezzature sportive, mense e teatri, hanno da sempre concepito la giornata scolastica – anche per i ragazzi della scuola superiore – come qualcosa che tendeva a comprendere anche molte attività che, almeno in Italia, sono state da sempre considerate extra-scolastiche. In generale, poi, le ore passate a scuola dovrebbero essere esaminate congiuntamente alla lunghezza dell’istruzione obbligatoria. In alcuni paesi, la durata della scuola dell’obbligo è più breve e gli studenti hanno un carico di lavoro più pesante; in altri paesi, il carico di lavoro viene distribuito uniformemente su più anni.

L’organizzazione della giornata scolastica nella scuola primaria dei vari Paesi dell’UE presentava storicamente due schemi orari fondamentali (che potevano anche coesistere nello stesso Paese): quello delle lezioni su mezza giornata, generalmente al mattino (orario praticato originariamente in Germania, Grecia, in certe parti d’Italia e in Austria) e quello delle lezioni sia al mattino che al pomeriggio. Quest’ultimo è lo schema del tempo pieno, in uso, pur con tutte le varianti, nella grandissima maggioranza dei Paesi dell’UE. Ormai, quasi ovunque, la tendenza è ad un allungamento della giornata scolastica (sebbene non necessariamente delle lezioni frontali). In questo senso, il tempo-scuola è stato fortemente influenzato, in Italia come in altri paesi, dalla crescente emancipazione femminile e, dunque, dall’incidenza del lavoro extradomestico. L’occupazione femminile ha richiesto un allungamento della giornata scolastica (mai sufficiente, però, a conciliare la “doppia presenza” richiesta alle donne, nel lavoro e nella famiglia). Chi fosse interessato alle comparazioni, può trovare dati aggiornati nella pubblicazione dell’OCSE Education at a Glance, 2015, in particolare nel capitolo D, sull’organizzazione dei sistemi di istruzione.

Il tema delle ore impegnate con la scuola potrebbe sembrare, a prima vista, poco importante di per sé. Si può infatti affermare, con sufficiente margine di sicurezza, che, alla fine, quello che conta è l’apprendimento di conoscenze e di competenze e, come si può immaginare, la qualità non sempre coincide con la quantità, sia per le prime che tanto più per le seconde.

Invece, nel mondo della scuola, il tempo è rilevante ed ha spesso assunto un valore di “credo” pedagogico. Mi piace ricordare, che in un passo di Lettera ad una professoressa, di Don Milani, i ragazzi della scuola di Barbiana affermavano: “ …vi proponiamo tre riforme: I. Non bocciare. II. A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a pieno tempo. III. Agli svogliati basta dargli uno scopo… ”).

Di questa “ideologia” del tempo passato a scuola porto anch’io il ricordo (tutto positivo). Alla fine degli anni ’70, ero una allieva di una grande scuola elementare pubblica in una zona centrale di Roma e noi del “tempo pieno”, prima di pranzo, guardavamo dall’alto in basso gli altri allievi, quelli del tempo solo “normale”, che sciamavano fuori dalla scuola con i loro grembiulini blu. Il nostro senso di superiorità rispetto ai “bambini del tempo normale” – crudele come possono esserlo i pensieri dei bambini – si basava sulla forte connotazione femminista di quegli anni. Quelli che uscivano presto, infatti, erano i figli delle madri casalinghe (o, al massimo, di qualche insegnante che lavorava poche ore). Noi, i duri e puri, i resistenti nelle mura scolastiche tetre e male illuminate, ci ritenevamo una razza a parte: eravamo i figli delle mamme che lavoravano e, dell’impegno delle nostre mamme, portavamo con fierezza i segni, nel nostro stare in classe e in comunità più a lungo degli altri.

Il tempo pieno a me piaceva moltissimo; sebbene tornassi a casa sfinita amavo molto la mia scuola. Noi, all’ora in cui gli altri se ne andavano, il grembiulino ce lo potevamo levare. Invece di tornare a casa con le nostre mamme, andavamo giù alla mensa scolastica che, all’epoca, serviva cibo scongelato di pessima qualità in vaschette d’alluminio piene di olio. Cominciava poi il momento più bello della giornata; in classe i banchi venivano spostati dalla tradizionale posizione ordinata per file, alla posizione a ferro di cavallo e le attività si facevano più varie. Avevamo il coro, la redazione del giornalino della scuola con il ciclostile, le discussioni sull’agricoltura e sull’industria, il laboratorio di falegnameria.

Nel tornare dai ricordi ai concetti, però, non posso fare a meno di notare che il discorso del tempo scuola, ossia quante ore si dovrebbe stare a scuola in un sistema di istruzione ideale, porta con se un tema più interessante, di cui a lungo ho discusso con un paio di persone, senza riuscire a trovare la risposta definitiva.

Il tema in questione era, più o meno, riassumibile come segue: è meglio il tempo libero o il tempo organizzato?

Sino ad ora, infatti, mi sono concentrata solo sulla scuola primaria, ma lasciamo da parte i bambini della scuola primaria (e della scuola dell’infanzia) e concentriamoci, invece, sulla scuola secondaria di primo e di secondo grado, ossia sulla fascia d’età che va dagli 11 ai 19 anni, quando l’eventuale giornata “corta” degli allievi non implica automaticamente un maggior carico per i genitori impegnati con il lavoro.

In questa fase è meglio una scuola che duri poche ore al giorno e demandi allo stesso studente di far sedimentare le proprie conoscenze (studiando autonomamente, svolgendo altre attività come leggere, ad esempio) o è meglio una scuola-campus che “contenga” anche altre cose, oltre alla didattica frontale. Meglio il tradizionale liceo con le lezioni solo al mattino o una scuola che rappresenti anche il contesto organizzato in cui si svolgano, ad esempio, oltre alle lingue straniere (come nelle scuole bilingui) anche lo sport, lo studio individuale, l’arte, la musica etc..? Ovviamente il discorso è anche collegato al novero delle materie di cui dovrebbe essere fatta la scuola superiore ideale, ma non solo.

Insomma, per un adolescente, è meglio il tempo libero o il tempo organizzato (da altri)?

Ci sono sostenitori da entrambe i lati della contesa. Provo, di seguito, ad elencare le ragioni degli uni e quelle degli altri.

1. Le ragioni dei sostenitori del “tempo organizzato” e della scuola che dura tutto il giorno

Secondo una persona con cui dialogavo, coloro che imparano ad organizzarsi in modo autonomo sono, solitamente, coloro che metodici lo erano comunque e che, prima o poi, trovano semplicemente la motivazione per realizzare qualcosa di cui, almeno in potenza, sarebbero stati capaci comunque sin dall’inizio. Solo chi è già una persona che ha autodisciplina se la dare anche da sola.

Secondo questa tesi, per allenare l’autodisciplina è necessario vivere in un ambiente disciplinato. Se non sei disciplinato, un ambiente strutturato ti ‘contiene’ e ti forma.

Una scuola fatta solo di lezioni frontali e che demandi allo studente tutto il resto ti può trasferire nozioni ma non insegnare ad organizzarsi. Con una scuola così, chi non è organizzato autonomamente corre il serio rischio di perdersi, vivacchia perdendo più o meno tempo e conseguendo risultati solo in maniera spesso correlata agli stimoli e agli obblighi imposti dal contesto familiare.

2. Le ragioni dei sostenitori del “tempo libero” come strumento di autodisciplina

I sostenitori del valore del tempo libero come strumento di autoeducazione sono di tutt’altro avviso. Ritengono, ad esempio, che le scuole tipo campus non consentono di imparare ad organizzarsi da solo. Che l’ambiente che ‘eterodisciplina’ finisce per far perdere la capacità di disciplinarsi per proprio conto. Che le cose che si imparano in autonomia sono più importanti e la loro lezione dura più a lungo. Affermano che non si può dare per scontato che ragazzi che sono stati 8-9 ore in una scuola in cui tutto (lo studio, lo sport, la socializzazione) è organizzato, poi imparino l’arte di organizzarsi da soli. Dicono che se ad un adolescente c’è sempre una sovra-struttura ad obbligarlo a studiare (a prescindere che siano i genitori, lo studio assistito a scuola, il precettore ecc.…), imparerà mai, attraverso l’errore (prendere un 3 perché invece di studiare ha guardato la tv, ad esempio), a motivarsi da solo?

I sostenitori del tempo libero credono che motivarsi e darsi un’autodisciplina è una delle lezioni più importanti della vita, così come avere una mentalità di crescita. Qualche ricerca sembra dargli ragione (una in particolare affermava che i ragazzi il cui tempo è stato meno strutturato e scandito in attività decise da altri sanno poi fissare e perseguire meglio i propri obiettivi), ma non saprei valutarne la qualità dei risultati.

C’è una soluzione unica per tutti?

Al termine di questa riflessione non sono sicura che le soluzioni che vanno bene per uno studente vadano bene ad un altro. C’è chi ha bisogno di tempo per dedicarlo ai propri interessi e c’è chi, nel vuoto, non riesce a darsi una regola. Tra questi secondi, c’è chi procrastina il dovere (come, ad esempio, lo studio) e poi se la cava, sia pur con uno sforzo finale assai maggiore, e chi procrastina e poi non combina nulla. Alla fine, non tutti imparano il valore dell’autodisciplina. Qualcuno perde l’anno e si pentirà troppo tardi e nessuno sa dirci con certezza se questo dipenda o meno dalla genetica (o dalla cultura famigliare). Aspetto di sentire l’opinione di chi mi legge!

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