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Inglese americano e inglese britannico: la storia (curiosa) di quello che accade ad una lingua condivisa

L’inglese – la seconda lingua parlata al mondo – è ormai la lingua franca per eccellenza. Secondo Wikipedia, il numero di coloro che usano l’inglese come seconda lingua o come lingua straniera supera quello di coloro che lo parlano dalla nascita.  Per via di questa funzione di lingua franca, l’inglese è una delle più aperte a modificazioni di pronuncia, di lessico e sintattiche.

 

Inglese? Quale inglese?

Sorge allora un quesito: qual’è l’inglese “vero”? Molte persone non esiterebbero a rispondere: ma l’inglese britannico, of course!

Dal punto di vista storico avrebbero ragione: l’inglese deve buona parte della sua diffusione all’impero britannico (…e altra parte al potere economico e politico degli Stati Uniti, dopo il secondo conflitto mondiale). Eppure avrebbero ragione solo in parte: perché? Perché – come affermava Tullio De Mauro, le lingue si evolvono con l’uso che ne fanno i parlanti. Nessuna lingua è immutabile. Più in generale, le lingue si evolvono sotto impulsi diversi: spazio (limiti geografici), tempo (evoluzione della storia), innovazioni (nuove esigenze), contatti e scambi (con altre lingue).

Tra le tante declinazioni della lingua inglese, è opinione diffusa che l’inglese americano altro non sia che una storpiatura di quello britannico, che rappresenterebbe il modello ‘puro’ della lingua (come se le lingue fossero immobili nel tempo). Un divertente e accessibile libro spiega come questo non sia del tutto vero. Si tratta di The Prodigal Tongue: The Love-Hate Relationship Between British and American English.

L’autrice si chiama Lynne Murphy, ed insegna linguistica all’Università del Sussex. Murphy è americana, ma è residente nel Regno Unito da molto tempo, ha marito e figli inglesi e, dal suo angolo visuale privilegiato, si occupa da anni del rapporto tra inglese americano ed inglese britannico. Ha un blog che si chiama Separated by a Common Language, dove analizza in modo ironico da un lato, l’antipatia dei sudditi di Sua maestà verso gli americanismi e, dall’altro, il patologico complesso di inferiorità americano verso il British English.

The Prodigal Tongue: The Love-Hate Relationship Between British and American English è un libro spiritoso (per chi si diverte con un certo tipo di giochi linguistici e intellettuali) ma è anche un testo molto erudito.

Questa mia non è una né una recensione né una sintesi, piuttosto uno spin off che parte dai passi del libro che mi hanno colpito di più.

 

Le lingue sono vive (e non smettono di evolversi)  

Muovendo dalla circostanza che gli intellettuali britannici, così come i linguisti, hanno da sempre definito l’inglese americano come corruttore, la Murphy inanella alcuni ragionamenti e concetti interessanti dimostrando che l’inglese americano, sia nella grammatica che nella pronuncia, si rifà spesso spesso alla tradizione, talvolta di più dell’inglese britannico. Ad esempio, il suono americano della “r” finale in river (fiume), per esempio, è più vicino alla pronuncia inglese del tempo di Shakespeare che a quella di gran parte dell’Inghilterra di oggi, dove la “r” dopo una vocale è praticamente silente (sebbene rimanga nell’accento scozzese).

Inoltre, contrariamente a quanto si pensa, non è (solo) l’americano che si è andato via via differenziando dall’inglese “standard” di derivazione britannica ma anche l’inglese britannico che si è andato differenziando dal suo modello originale. Basta pensare che l’inglese dei coloni britannici che fondarono le colonie americane era l’Early Modern English (quello di Shakeaspeare, per intenderci). Tempo che però furono fondati gli Stati Uniti, la lingua inglese era nel suo Late Modern period (era diventata, insomma, la lingua di Dickens o di Twain).

Il confine tra i due modelli cade pressappoco nel 1750. A questo punto, però, non accade solo che l’americano comincia ad evolversi per conto suo ma anche che l’inglese britannico continua a cambiare.

Quanto ai mutamenti dell’inglese americano dal 1750 in poi, essi partono dall’importazione di tantissimi vocaboli dai nativi americani (Algonquian). Ai coloni tali vocaboli servivano per definire animali mai o poco visti in Europa (skunk, racoon, chipmunk, moose, opossum) e piante autoctone (pecan, persimmon). Altri vocaboli furono importati da altre lingue europee e usati per descrivere la geografia locale: mesa, dallo spagnolo, per altopiano; praire, dal francese, per prateria. Per non dire di tanti altri vocaboli che, due secoli dopo, specie dopo la seconda guerra mondiale, l’americano della costa est prende dalle comunità ebraiche dopo l’olocausto. Oggi l’americano è pieno di yiddish, e fa uso di lemmi come schmaltz o schmuck (termini che io trovo meravigliosi).

Nel frattempo, l’inglese britannico non si è però fermato a quello del 1750 o del 1800. Se Dickens o Twain si leggono con relativo agio anche oggi (a differenza del più ostico inglese Shakespeariano), i britannici hanno cominciato ad usare parole come bookshop solo nel 1762, bank holiday nel 1778 e duvets (le trapunte per il letto) nel 1759. Con il risultato che solo alcuni di questi vocaboli li si ritrova nell’inglese americano. Un texano capisce e usa bookshop ma non chiedetegli un duvet, piuttosto un comforter.

Senza contare, poi, che la vita di tutti dal 1750 è cambiata un sacco. Aerei, automobili, lavastoviglie, risonanze magnetiche nucleari, computer, scanner, web e tante altre invenzioni – così come usi e abitudini – hanno richiesto lo sviluppo di nuove parole, più spesso simili e a volte diverse.

L’evoluzione ovviamente la si sente anche dagli accenti. Basta provare a vedere un vecchio film americano, di quelli della Hollywood degli anni ’40. Vero è che gli attori parlano lingue sempre leggermente impostate, ma si colgono comunque dei segnali che rappresentavano la società dell’epoca. L’inglese americano degli anni ‘40 – ascoltato oggi – è meno lontano dall’inglese britannico.

Ci sono – è vero – le vocali più aperte e le “t” tra due vocali che suonano leggermente come “d” (es. nella parola butter), ma la prosodia della frase è meno lontana da un inglese britannico perché (almeno a me pare) contiene meno il classico upward swing che è tipicamente americana. L’upward swing è proprio ciò che turba tanti inglesi: al loro orecchio gli americani pronuncerebbero anche le affermazioni come fossero delle domande.

Inoltre, l’americano degli anni ’40 suonava meno rotico di quello attuale (nell’americano attuale la “r” della parola car si sente forte e chiara; nell’inglese britannico diventa come una ghost note nel jazz, ossia non si sente).

Con un mondo globalizzato le barriere geografiche sono meno insormontabili: basta accendere televisioni, radio o internet per sentire parlanti di altre lingue o della propria lingua come è parlata in un’altra regione o in una parte di un altro paese. Dunque la spinta alla convergenza linguistica è  più forte.

 

Il rapporto tra inglese americano e inglese britannico: l’evoluzione degli aggettivi

 

Una parte molto interessante del libro è quella che riguarda l’evoluzione degli aggettivi.

Prendiamo, ad esempio, la parola “smart”. All’inizio si usava il termine solo nell’accezione di “something that smarts” nel senso di “qualcosa che taglia”. Quindi l’aggettivo smart significava “tagliente” o “doloroso”. Tuttavia, poiché le parole intelligenti sono spesso ‘taglienti’, l’aggettivo smart da “tagliente” finì per significare “intelligente”.

Quando iniziò la colonizzazione americana, dunque, il termine smart aveva questo significato. Pertanto, nella cultura statunitense, si andarono contrapponendo il termine “intelligent” (riferito all’intelligenza speculativa) e il termine “smart” (come indicazione di una intelligenza pratica); insomma, intelligente, da un lato, “in gamba”, dall’altro. Una parola più elitaria o intellettuale e l’altra più democratica, alla portata di tutti. Inutile ricordare che la seconda diventò presto più utilizzata della prima.

Nel frattempo, tuttavia, anche nel Regno Unito la lingua inglese si è andata trasformando, con la parola clever che – sempre di più – ha preso il posto del termine smart. In realtà clever aveva all’inizio un altro significato: voleva dire “agile”. Clever dunque si è trasformato: da agile fisicamente ad agile intellettualmente.

Nel frattempo e per complicare la questione, non è che nel Regno Unito si è smesso di usare smart, ma lo si è applicato non più all’intelligenza ma all’abbigliamento: abbiamo così smart suit o smart look, fino all’apparente ossimoro di smart casual.

E in America, alla fine, ha ripreso altri significati se applicato alla tecnologia: smartcards, smartphone e altre smart tehcnologies. Grazie alla Silicon Valley, quindi, il termine smart è stato reintrodotto anche nel Regno Unito. Dunque, anche l’intelligenza artificiale è smart. Ma – comicamente – se su territorio britannico si accetta che la tecnologia e l’intelligenza artificiale siano smart, non si accetta ancora che possa essere smart (piuttosto che clever) l’intelligenza umana! Ce lo ricorda l’Economist Style Guide, ossia il “Manuale di stile” del famoso settimanale The Economist, che dissuade i suoi autori dal utilizzare il termine smart se applicato all’intelligenza umana, in quanto si tratterebbe di un americanismo.

Insomma, la storia della trasformazione degli aggettivi dalle due parti dell’atlantico è molto interessante. Il libro contiene innumerevoli esempi di questo genere, che vi lascio scoprire da soli (se lo leggerete).

Una nota finale la dedico, però, al cibo. L’autrice evidenzia come l’inglese americano – per via dell’immigrazione nel Paese – abbia molti più “prestiti” di parole dall’italiano e dallo spagnolo, mentre l’inglese britannico ne ha più dal francese (per via del rapporto di odio/amore che lega “la perfida albione” ai “cugini d’oltralpe”).

Ne consegue che americani e inglesi – anche quando mangiano le stesse cose – le chiamano in modo diverso. Per quanto concerne, ad esempio, cibi come la rucola, le zucchine e il coriandolo, i britannici ingeriscono rocket (o roquette), courgette e coriander; mentre gli americani mangiano arugola (di derivazione italiana), zucchini (sempre nostre) e cilantro (spagnolo per coriandolo).

Insomma The Prodigal Tongue lo conferma: inglesi e americani non saranno mai d’accordo, neanche a tavola!

 

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Comments

  1. Invece quello australiano con i suoi slang dove si colloca? Viaggia parallelamente a quello britannico e americano, un altro inglese ancora?

    1. Ciao Maria, il libro in questione riguardava il rapporto tra inglese UK e USA e basta. L’australiano lo capisco bene ma non mi piace molto, devo dire. Ho una cara amica di Adelaide che studiò con me ad Oxford e che ora vive a New York e mi ha sempre fatto specie quello che succedeva alle sue vocali….:)
      Di base l’australiano è un accento britannico, non rotico, con alcune “t” strane. La cosa che veramente cambia sono le vocali, almeno al mio orecchio. “Today” ad esempio, suona come “To die” (su questo ci sono varie barzellette). Poi ci sono tantissime parole di slang che però non conosco. Purtroppo non sono stata mai in Australia, dunque la mia esperienza si rifà ai pochi parlanti con cui ho parlato.
      Spero che qualcuno che legge ne sappia di più…..

  2. Elisabetta, articolo divertente e soprattutto interessante. La differenza di parole tra i “due inglesi” devo dire che mi ha sempre affascinata….e a volte anche innervosito quando, ad esempio, mia figlia era piccola e mi correggeva le parole dicendo che la maestra ha detto che si dice cosi…e non come dici tu. 🙂 Vai a spiegare ad una bambina di 5-6 anni….
    Credo che prendero’ il libro e lo leggero’ quest’estate con mia figlia…
    Grazie.
    PS anche al mio orecchio l’accendo australiano risulta stranissimo e poco piacevole.

      1. Si si Elisabetta lo volevo leggere io, mi sono spiegata male. Matilde è di altri gusti Grazie comunque per la precisazione.

  3. C’e’ qualcuno che ha dedicato uno studio scientifico all’inglese nigeriano?
    Se aguzzate lo sguardo, potete leggerne qualche esempio negli annunci multilingue dedicati agli stranieri (fra gli immigrati in Italia, gli anglofoni sono di solito nigeriani) ed e’ molto diverso da ogni altra forma di quella lingua che io conosca, se pur sempre riconoscibile come inglese.
    Parlato, lo trovano sostanzialmente incomprensibile anche i miei figli, che sono bilingui e hanno avuto docenti inglesi, gallesi, scozzesi, canadesi, newyorkesi, californiani e di un altro paio di provenienze che ora non ricordo.

    1. Francesco, sicuramente uno studio sull’inglese migeriano ci sarà. Io sto leggendo Sto leggendo “Americanah” di
      Chimamanda Ngozi Adichie. Lei è una scrittrice nigeriana bravissima, che è cresciuta parlando inglese (lingua ufficiale) e igbo (una delle tante lingue nigeriane). La sua divertente e commovente TED talk è qui:https://www.ted.com/talks/chimamanda_adichie_the_danger_of_a_single_story?language=en
      e io la trovo comprensibilissima. Ha delle “o” molto strette, tutto lì.
      Ma lei viene da una famiglia di accademici e certamente parlerà in modo più raffinato di altri nigeriani, dunque forse non fa testo. Mi indichi una fonte (link) che i tuoi figli trovano incomprensibile? Sono curiosa.

      1. Non mi e’ possibile, parlavo di conversazioni ascoltate per la strada o nei negozi!

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