A questo proposito, anni fa ho letto la storia di una mamma, la quale raccontava di come, mentre i figli erano da alcuni parenti, si fosse resa conto, improvvisamente, di quanti giocattoli avevano. Aveva anche notato come, spesso, si lamentassero di “non aver nulla da fare”. Spinta da tali riflessioni, aveva dunque raccolto la maggior parte dei giocattoli e li aveva portati in cantina, per darli via.
Aveva tenuto solo alcune cose: i libri, matite, pennarelli e tutto l’occorrente per disegnare, alcuni pupazzi preferiti e quattro o cinque giochi con i quali aveva visto i figli giocare più spesso. Tornati i figli a casa non aveva detto assolutamente nulla. Loro erano entrati nella stanza e, improvvisamente, si erano accorti che molte cose erano sparite.
Poi, raccontava la mamma in questione (la quale li spiava dalla stanza accanto), qualcosa di magico era accaduto. Sorpresi e ammutoliti i bambini non avevano protestato ma avevano cominciato ad aggirarsi per la stanza, straniti e sognanti, e infine, forse improvvisamente felici di aver perso qualcosa per recuperare dello spazio vuoto, avevano iniziato a giocare insieme inventando un nuovo gioco, fatto di cose invisibili.
Del resto, qualunque adulto sa per esperienza cosa può accadere sotto l’albero di Natale, quando la logica iper-inflattiva raggiunge il suo acme: tra i giocattoli ricevuti, spesso il bambino (se ancora piccolo), finisce per scegliere l’oggetto meno sofisticato.
Una mamma aveva raccontato che, in seguito alla crisi finanziaria, la sua famiglia aveva dovuto tagliare alcune spese. Anche i figli ne avevano risentito perché aveva dovuto sospendere tutte le attività extra curriculari che i ragazzi svolgevano ogni giorno. Niente più nuoto o pianoforte, judo o ceramica, hockey e teatro. I ragazzi (ne aveva tre, preadolescenti e adolescenti), dopo un primo momento di libertà e di rilassamento se ne erano lamentati e avevano dovuto imparare a riorganizzarsi i loro pomeriggi.
Poi era successo qualcosa: i ragazzi si erano accorti che alcune delle attività che prima svolgevano non gli mancavano per niente. Tutto sommato era bello farne a meno. Al tempo stesso si erano resi conto che ad alcune cose non volevano rinunciare. Una delle figlie, che non aveva mai fatto volentieri gli esercizi di pianoforte, si mise a suonare tutti i pomeriggi, per non dimenticare quello che aveva imparato sino a a quel momento.
Insomma – raccontava la mamma americana – i suoi figli, privati di tante esperienze, avevano improvvisamente capito ciò che amavano veramente e ciò di cui, invece, potevano forse fare a meno e che, magari, avevano iniziato a fare solo perché lo facevano altri amici.
In entrambe queste storie di vita vissuta l’improvvisa privazione aveva fatto emergere qualcosa di importante nella conoscenza di sé. Nel vuoto, in altre parole, era nata una nuova pienezza, derivante dal riconoscere di avere bisogno – tutto sommato – di poche cose (ma quelle poche… di volerle tanto). Less is more, insomma.
I nostri figli sono diventati le principali prede del consumismo alimentato dalle grandi aziende: basta guardare le pubblicità che fanno in televisione tra un cartone animato e l’altro. Ogni tanto, quindi non mi pare male insegnare loro a fare un po’ di spazio, un po’ di vuoto. Lo psicoanalista Masud Khan affermava l’importanza di lasciare periodicamente la propria mente “come un campo a maggese”. Ecco, mi pare, una buona indicazione da seguire, per i bambini e…per gli adulti.
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