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Bilinguismo: tre cose che non sapevi (e l’ultima è sorprendente)

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Ricordate il mio recente post: insegnare l’inglese (o altre lingue) a tuo figlio: a che età iniziare? 

In quel post affrontavo la domanda tipica dei genitori sull’età del primo approccio alla lingua, sulla base di quanto appreso in un corso sul “cervello bilingue”.

Il corso – per chi non mi ha seguito sino a qua – si chiama(va) The Bilingual Brain e, in realtà, è anche un libro. Ne consiglio la lettura a chi fosse interessato al cervello bilingue sotto un profilo scientifico; si chiama The Bilingual Brain, l’autore è Arturo E. Hernandez, il docente di cui ho seguito le lezioni.

Con questo corso ho scoperto altre interessanti questioni; se il bilinguismo vi appassiona, seguitemi sino in fondo.

Oggi affronto altri due temi trattati dal corso: la questione dell’accento nella lingua 2, ossia nella lingua minoritaria e la questione delle competenze linguistiche nella seconda lingua, ossia del “livello” al quale si è arrivati in quella lingua.

La questione dell’accento: miti e realtà

 

Come sappiamo tutti per esperienza empirica, se una lingua si apprende nella vita adulta, si conserva un forte accento della lingua d’origine. Conosco persone che hanno vissuto venti o trenta anni in Francia o negli Stati Uniti arrivandoci da adulti e il loro francese o il loro inglese è spontaneo e fluente, ma vi si riconosce con chiarezza un forte accento italiano (anzi, addirittura romano o milanese).

Chi è diventato bilingue presto, invece, acquisisce l’accento del luogo (o della scuola internazionale…o della persona con cui ha parlato per anni quella lingua) e, spesso, non si distingue da un madrelingua.

Ho scritto “chi è diventato bilingue presto”, già, ma quanto presto? E perché chi impara prima ha un accento migliore? Cosa dice la ricerca scientifica?

Pilar Archila-Suerte, una linguista dell’Università di Houston, ha condotto uno studio su due gruppi di bambini. Il primo gruppo era formato da bimbi che erano diventati bilingui prima dei 5 anni (chiamiamoli “bilingui precoci”), mentre il secondo era formato da ragazzini tra gli 11 e i 13 anni (per brevità: “bilingui tardivi”). Sebbene entrambi i gruppi avessero nella seconda lingua un accento che sembrava nativo, i bilingui precoci percepivano, nella seconda lingua, lievi differenze di accento che i bilingui tardivi non sentivano.

Archila-Suerte ne concluse che anche i bilingui tardivi hanno un buon accento e un buon orecchio per l’accento, ma un orecchio relativo: possono sentire la differenza di un suono solo attraverso il confronto di un altro suono. I bilingui precoci, invece, hanno qualcosa che in musica potrebbe essere paragonato all’orecchio assoluto (perfect pitch): la capacità di percepire un suono senza doverlo comparare ad un altro.

Insomma, i bilingui tardivi si basano sempre sulla prima lingua. Ciò è tanto più vero per chi tenta di acquisire una lingua da adulto: in questo caso, la seconda lingua è sempre parassita della prima.

Ma, allora, è sempre meglio essere esposti ad una lingua da piccoli? La risposta è, ancora una volta, si.

Però attenzione, qui viene il punto interessante: la costanza di esposizione nel tempo è l’elemento cruciale, sia per l’accento sia per la lingua.

Anche gli accenti si possono perdere…

 

Non so se è chiaro a tutti, ma gli accenti così come si acquisiscono si possono anche perdere!

Ho conosciuto persone che, per principio, sceglievano per i figli tate inglesi piuttosto che, magari, canadesi e spesso non consideravano due importanti fattori. Il primo è che anche nel Regno Unito molti sono gli accenti (chi ancora non lo conosce si veda questo video The English Language in 24 accents…) e dipendono sia dalla zona, sia dal livello culturale delle persone (e qui entriamo nel discorso delle competenze… ci arriverò).

In secondo luogo, non consideravano che gli accenti, specie nei bambini piccoli, sono liquidi.

La prima docente madrelingua delle mie figlie a scuola era australiana ma la nostra prima au pair era una inglese del Kent. Il risultato, dopo 5 mesi con lei in casa, era che entrambe le figlie avevano un accento non nativo, ma molto British.

Qualche anno dopo, abbiamo avuto una serie di americane e la figlia maggiore ha passato due settimane in Canada, in un summer camp, con altre ragazzine candesi e americane. Età: nove anni e mezzo. Al ritorno non le venivano le parole in italiano e aveva uno spiccato accento nordamericano. Quell’imprinting lo ha conservato, ma, in lei come nella sorella, l’inglese si sta lentamente “condendo” di suoni italiani. E’ normale. Di tanto in tanto, servirebbe un “refresh” di immersione totale.

Del resto accadde anche a me. Tornata a 12 anni dopo sei mesi in California avevo il classico accento da valley girl, (per la cronaca, l’equivalente maschile di questo accento è il surfer dude accent). Il Valley girl accent è un accento americano della costa ovest che ha un’intonazione crescente alla fine di ogni frase, quasi a mo’ di interrogativo e le larghe vocali americane, miste di “a” e di “e”.

Il mio accento mi piaceva tantissimo, era la mia identità. Eppure, malgrado un successivo periodo californiano a 17 anni, nel tempo quell’accento si è corrotto, per necessità. Del resto era naturale: non si può parlare tutta la vita con i toni e le cadenze di una ragazzina appena uscita dalla high school. L’Inghilterra, prima, e l’Italia, poi, mi hanno indotto a parlare in un altro modo, tanto che, una volta, una persona molto cortese e molto colta, mi fece notare: “you have a middle-Atlantic accent”. Il Middle – Atlantic accent è l’accento degli expat anglofoni. In retrospettiva era un bel complimento, che per ignoranza a lungo non compresi.

Tutta questa mutevolezza d’accenti non deve sorprendere: gli accenti si perdono anche nella prima lingua. Da bambina, d’estate, andavo a dei corsi di tennis vicino Modena. Il tennis non l’ho imparato (nello sport sono un’inetta) ma, al ritorno, parlavo benissimo con accento modenese. Scommetto che sarà capitato anche a chi mi legge!

Dunque per avere un buon accento bisogna cominciare da piccolo, ma anche continuare nel tempo, perchè gli accenti (un po’) si perdono.

Ma torniamo alla ricerca scientifica. Se si perde l’accento, può capitare di perdere anche una intera lingua?

La risposta, purtroppo, è sì. Esiste in letteratura il concetto di “lingua orfana”. Una lingua che si sente e si parla quando si è piccoli e che si cessa di sentire improvvisamente e per sempre. E’ quanto capita ai minori adottati da altri paesi. Arturo Hernandez, durante il corso, nella lezione su language loss racconta di quando frequentò un micronido di una signora iraniana che parlava farsi e lui imparò perfettamente il farsi. A distanza di anni, non essendo mai stato più esposto alla lingua, non è in grado di comprenderlo. Insomma, una lingua si può perdere in modo totale, quando non ci è più necessaria (o se è collegata ad un evento traumatico).

Perché accade? Lo si deve alla plasticità del cervello. E’ questa plasticità che consente di dimenticare unalingua, anche sino agli 8 anni.

La questione della competenza. A che livello parli la seconda lingua?

 

I nostri cervelli hanno capacità di adattarsi ed incorporare una nuova lingua anche in un secondo momento della vita (accento a parte).

Il grado di competenza (proficiency) in una lingua è dato non tanto dall’età di prima acquisizione della lingua ma dalla lunga durata complessiva di apprendimento (e di uso della lingua!). La competenza in una lingua, in questo senso, somiglia alla competenza in altri campi (dal giocare a scacchi al giocare a golf). Maggiore è il grado di competenza, maggiori sono gli automatismi nella seconda lingua, la  memoria diventa procedurale/esecutiva e non esplicita e si fa meno fatica a parlare.

Attenzione: c’è modo e modo di parlare una lingua, che sia una seconda o una terza lingua o la propria madrelingua!

 

La cultura conta. Chi è meno colto e non legge, conosce meno parole!

Qui viene in mente un famoso studio sui bambini americani, condotto nel 1995, che rilevò come i bambini di background più disagiati erano esposti ad una quantità minore di parole già negli anni precedenti alla scuola e questo, a sua volta, generava una disparità crescente nei risultati scolastici.

Ma il divario culturale tra le persone influenza il modo in cui queste si esprimono, anche da adulti.

Nella letteratura scientifica sul bilinguismo, si distingue tra due acronimi: BICS e CALP.

BICS sta per basic intercommunication skills, si riferisce alle competenze linguistiche di base che servono a comunicare. Un bilingue può sembrare un nativo se è stato esposto alla lingua 2 precocemente, ma non è detto che raggiunga un livello di competenza alta, se non acquisisce, oltre al BICS, anche il CALP.

CALP sta per cognitive and academic language.

Per spiegare di cosa parlo, facciamo un esempio, quello di Joseph Conrad. Conrad è stato uno dei più grandi autori della letteratura inglese. Il suo inglese scritto era perfetto, eppure la gente non riusciva a sopportarlo quando parlava, perché il grande scrittore era, in realtà, polacco.

Conrad aveva un fortissimo accento polacco nel parlato, perché aveva appreso l’inglese solo a 20 anni (pare leggendo il Times e Shakespeare). Malgrado l’accento, aveva raggiunto il più alto livello possibile nella sua conoscenza della lingua. Insomma, aveva certamente raggiunto il CALP, ossia il linguaggio accademico, e forse lo aveva raggiunto prima del BICS. Eppure, malgrado questi traguardi, non aveva mai raggiunto quello dell’accento nativo. All’orecchio di un native speaker “suonava” straniero e basta.

Se ne potrebbe dedurre, ad un giudizio affrettato, che Conrad avesse, semplicemente, un pessimo orecchio per gli accenti, come quelle persone che affermano “sono negato per le lingue”. Ed invece non è vero: Joseph Conrad parlava un ottimo francese. Lo aveva appreso a quindici anni, dunque solo 5 anni prima dell’inglese, e lo parlava bene, con un buon accento che, stando alle testimonianze, era quasi nativo.

Per concludere….

Cosa ci insegna questa storia, così come tutti i concetti che ho passato in rassegna?

Che se si vuole avere un accento nativo occorre iniziare presto, il più presto possibile (per molte persone a 20 anni è già tardi); che nessuno è “negato per le lingue” se è stato esposto a più lingue sin da piccolo; che le lingue se non si usano si arrugginiscono e, in alcuni casi, si perdono pure; che per raggiungere un livello di competenza “alta” conta la cultura individuale.

Dimenticavo…tutto questo vale per la seconda lingua, ma anche per la prima!

 

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