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Perché studiare è faticoso?

educazioneglobale studiareCome ben sappiamo, nel mondo moderno non si impara solo imitando, come si è sempre fatto, ma anche in modo strutturato. Studiare è il nostro modo – formalizzato – di apprendere. Non è il solo, ovviamente: si apprende anche attraverso altre attività diverse dallo studio, ma lo studio è quella principale, tanto che abbiamo creato luoghi e tempi per l’apprendimento (scuola, università, formazione professionale), ed impariamo principalmente attraverso un’attività organizzata (volontaria o coatta): quella dello studio.

Nella nostra cultura, quindi, saper studiare è una capacità cruciale.

Ci sono molte cose che le scienze cognitive e comportamentali possono insegnarci su come bisognerebbe studiare. Rimane, però, una domanda di fondo: perché studiare è per molti ragazzi (e per molti adulti) così faticoso?

La risposta si trova in un libro che si chiama proprio “perché agli studenti non piace la scuola?” (D.T. Willingham, Why don’t students like school?). L’autore, psicologo cognitivo, afferma che il motivo principale per il quale agli studenti non piace la scuola è che essa, come del resto ogni forma di studio, richiede di pensare in modo astratto.

Ebbene, magari la cosa sorprenderà i più studiosi, ma gli esseri umani non sono stati programmati per pensare in modo astratto, in realtà l’intelligenza umana è funzionale ad uno scopo molto concreto: sopravvivere. Insomma, il cervello umano non si è sviluppato per favorire la riflessione su Hegel o sul teorema di Pitagora, ma, al contrario, allo scopo di impedirci di pensare.

Mi spiego meglio: il cervello umano, poiché finalizza l’uso dell’intelligenza alla sopravvivenza in un ambiente ostile (la savana, da cui tutto trasse origine milioni di anni fa), mira a trasformare ogni nuova informazione in uno strumento che faciliti lo svolgimento di azioni esecutive ed automatiche.

Nel nostro mondo moderno, sono azioni esecutive o automatiche quelle di mettere in moto l’automobile o fare una telefonata; in questi casi facciamo una serie di gesti senza dovervi prestare attenzione. Certe attività le abbiamo imparate così bene che, quando le svolgiamo, possiamo apparentemente “spegnere” una parte del cervello, ossia svolgerle senza pensarci.

Tuttavia, se, da un lato, svolgere un’azione senza doverci pensare ci rilassa, dall’altro non ci consente di migliorare le nostre conoscenze. Per migliorare le nostre conoscenze, dobbiamo concentrarci e questa concentrazione richiede uno sforzo volontario. Lo studio richiede questo sforzo volontario.

Quando dobbiamo svolgere un compito che ci richiede uno sforzo mentale è importante che il compito sia, da un lato, complesso quel tanto da non consentirci di svolgerlo in modo totalmente automatico, mantenendo desta la nostra attenzione, ma non così difficile da implicare troppo sforzo e, quindi, da frustrarci.

Quando si raggiunge questo delicato equilibrio, la mente prova piacere a concentrarsi, e si raggiunge quello stato che gli artisti chiamano ispirazione, gli sportivi chiamano concentrazione, i religiosi chiamano chiaroveggenza e che potremmo chiamare anche “stato di flusso” (flow).

L’impegno scolastico solo in alcuni casi ha questa caratteristica, perché non è facile per gli insegnanti trovare il punto di equilibrio tra le loro più vaste conoscenze e le conoscenze più limitate dei propri alunni o studenti. Inoltre, non è facile raggiungere l’equilibrio tra facilità di comprensione e sforzo di astrazione spiegando nuovi concetti a tutta una classe contemporaneamente.

L’autore del libro spiega inoltre che gli esperimenti di psicologia cognitiva dimostrano che è vero che la pratica consente di diventare migliori studenti. Le ricerche dimostrano che solo con la pratica si può perfezionare una capacità. Insomma, se si vogliono conoscere bene le tabelline, bisogna studiarle e ristudiarle. Così, se non ci vengono le divisioni a due cifre non ci sono santi: bisogna farne tante.

Sempre sulla base degli esprimenti di psicologia cognitiva, Willingham fa osservare che gli studenti non possono esercitare il cosiddetto “pensiero critico” (altro concetto in voga) se non conoscono bene l’oggetto sul quale esercitarlo: la conoscenza fattuale deve precedere l’esercizio di abilità.

In definitiva la psicologia cognitiva dimostra scientificamente qualcosa che si era sempre saputo: un po’ di memorizzazione delle nozioni di una disciplina, che si tratti di storia o di scienze non importa, è necessaria allo studio della stessa. Più conoscenze si hanno circa una materia o un argomento e più rapidamente si possono acquisire altre conoscenze, con poca fatica. Dunque un po’ di sforzo per ragionare in modo astratto serve sempre e non c’è scampo: imparare a memoria qualche data o qualche teorema è necessario per avere dei “puntelli” cui appendere nuove conoscenze.

Il mondo del web ci spinge oggi ad una forma di amnesia diffusa: qualsiasi nozione è a portata di mano, in qualsiasi momento. Ma le nozioni che non sono “nostre”, che non portiamo dietro con noi, sono spesso niente più che informazioni transitorie: cessano di esistere quando smettono di servirci. Il web è sempre a portata di mano, ma potrebbe andare via la corrente…

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