Perché per molte donne la maternità è così coinvolgente, tanto da mutare la percezione del proprio scopo nella vita? E perché per altre, invece, è così difficile farsi coinvolgere dall’idea di diventare mamma tanto da temere i cambiamenti portati da questo nuovo ruolo?
Che cosa succede nella mente di una donna che sta per diventare mamma? Cosa c’è nella testa delle mamme che, in molti casi, fa sembrare l’atto di prendersi cura di un piccolo così naturale ed istintivo?
Alcune risposte a queste domande le ho trovate riscoprendo, sul mio telefono, un podcast che avevo dimenticato di aver scaricato.
E’ la registrazione di una lectio magistralis tenuta all’Auditorium Parco della Musica di Roma nell’ambito del Festival delle Scienze del 2007. In particolare, riassumo qui la prima parte, quella in cui Massimo Ammaniti, noto psichiatra infantile, parla di quello che accade nel cervello delle madri, tema sul quale ha anche scritto un libro.
Afferma Ammaniti che la maternità è talmente importante che, sotto una prospettiva evolutiva, alcuni paleo-antropologi sostengono che la posizione eretta si è evoluta proprio per prendersi maggiore cura dei figli e per avere con loro un migliore contatto occhio-occhio. Questo legame tra madre e figlio (e tra genitore e figlio: riguarda anche i padri) garantisce non solo la sopravvivenza della prole ma anche lo sviluppo della capacità di comunicazione.
I piccoli imparano a comunicare soprattutto attraverso i genitori. Freud diceva che i genitori hanno proiezioni narcisistiche su i figli. Per una madre, fare un figlio è come innamorarsi: un’esperienza che travolge e, dopo, nulla è come prima. Ebbene, questo innamoramento, queste proiezioni narcisistiche, in fondo garantiscono la sopravvivenza e lo sviluppo del bambino. La specie umana, infatti, si caratterizza per una altissima mortalità infantile (beninteso prima dell’avvento medicina moderna). Un puledro appena nato può già camminare. Un bambino ci mette un anno e, nel frattempo (e anche dopo) è totalmente inerme. L’investimento nella maternità, così coinvolgente, quasi totalizzante, si è dunque evoluto in funzione della sopravvivenza del figlio. Dalla cura dei genitori nasce, poi, la sicurezza del bambino e il suo attaccamento.
Ancora prima che nasca il bambino, dunque nel corso della gravidanza, nel cervello della donna c’è una vera e propria riorganizzazione psichica, un cambiamento di priorità, anche se, poi, come sappiamo, ci sono tantissimi modi di essere genitore.
Non tutte le mamme sono uguali, quindi. Ammaniti distingue – senza dare giudizi di valore – quattro tipi di madri:
- Madri integrate: per le quali la maternità è vissuta come parte della loro identità, quelle che sono “prima di tutto mamme”.
- Madri ristrette: quelle che cercano di mantenere l’autocontrollo e una loro vita autonoma. Capita a molte donne che hanno figli molto tardi e, magari, hanno una vita professionale appagante. In questo caso ci tengono a “non farsi condizionare troppo” dalla nascita del bambino.
- Madri ambivalenti: sono combattute tra i due modelli precedenti.
- Madri ansiose o depresse. Una madre su 10, dice Ammaniti, sviluppa un disturbo depressivo, diverso dalla depressione post partum di tipo ormonale (una su dieci, a pensarci bene, mi è parsa una quota altissima).
Patologia a parte, la capacità di provare empatia per il neonato, è per una madre, naturale. La comprensione tra mamma e figlio è tanto profonda che è alla base della comunicazione umana. Vi sono studi sul ritmo di comunicazione madre-figlio, ritmo che assomiglia ad una danza. Nell’allattamento materno, quando il bimbo succhia, la madre lo guarda, mentre, quando si ferma, la madre gli parla e, magari, gli attribuisce uno stato mentale. Gli dice, ad esempio, “oggi hai poca fame?” come se il bambino capisse. Non importa che non capisca: un giorno capirà, intanto è importante questa interpretazione perchè il bambino vede nello sguardo e nei toni materni l’immagine che la madre ha di lui (o di lei). Inoltre, questa alternanza discorso/silenzio é alla base della comunicazione umana e del dialogo, in cui si ascolta e si parla, alternandosi.
Infine, Ammaniti cita alcuni esperimenti fatti su topoline da laboratorio cui viene nascosto del cibo. Quanto tempo ci mette una topolina a trovare il cibo nascosto?
Ebbene, la risposta varia in funzione di un solo fattore: la maternità.
La topolina non madre ci mette 7 giorni; invece – sarà l’empatia o la preoccupazione per i propri piccoli – vuoi sapere quanto ci mette a trovare il cibo la topolina che ha già avuto i piccoli, dunque la topolina – mamma? Tre…minuti!
Va bene che non siamo topi ma, mutatis mutandis, chi ha ancora dubbi sul fatto che essere mamma ti dà una marcia in più?
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Non ho letto questo libro di Ammanniti, padre del noto scrittore, ma è stato il mio prof all’Università (bravissimo) e i suoi libri sono molto ben scritto e comprensibili anche per chi non è un “addetto ai lavori”, a differenza di molti altri testi di psicologia. Ottimo consiglio!
Grazie Lavinia, effettivamente anche nella conferenza, sia pur ascoltata in podcast ad anni di distanza, Ammaniti è molto efficace. Io lo conoscevo solo di nome, prima di averla ascoltata
Elisabetta
volevo dire Ammaniti…nella fretta ho scritto male il nome!