C’è una frase che sento ripetere spesso dagli adolescenti e che gira in varie versioni sui social network, che riassume bene le difficoltà di fare scuola nel ventunesimo secolo.
La frase è, più o meno, questa: “la geografia non serve perché c’è il GPS, le lingue non servono perché ci sono i traduttori online; la grammatica e l’ortografia non servono perché c’è il correttore automatico e ovviamente la calligrafia non serve perché chi scrive più a mano? Non serve suonare uno strumento perché i computer lo fanno meglio di noi e per la matematica anche i computer fanno meglio di noi i calcoli. Quanto alla storia, alla filosofia, alle scienze e a tutto il resto basta e avanza Wikipedia. A che serve la scuola?”.
Ovviamente si tratta di una provocazione bella e buona: è una frase ad effetto usata anche dalla mia primogenita con l’intento di mettere k.o. le generazioni successive. Se prendessimo sul serio queste parole, butteremmo a mare ogni forma di conoscenza e di cultura e il mondo diventerebbe un luogo molto triste. Tuttavia la provocazione non coglierebbe nel segno se non contenesse elementi di verità.
Ken Robinson, esperto inglese di sistemi di istruzione, afferma che la scuola andrebbe totalmente rivoluzionata: quella di oggi nasce per il mondo industriale di ieri, che è profondamente mutato. Ne ho già scritto nel post Scuola, creatività, educazione: una conferenza TED di Ken Robinson per cambiare il sistema scolastico; secondo Robinson, la scuola, modellata sull’organizzazione tayloristica del lavoro, con orari, produzione, catena di montaggio, non funziona più così bene per la società dell’informazione. D’altro canto, come si accennava, non si può buttar via ogni conoscenza e far leva solo sul “saper fare”, sulle competenze, altrimenti alleveremmo generazioni di consumatori senza tentare di farne anche dei (si spera buoni) cittadini.
Lo sanno bene gli insegnanti, che costantemente lottano con i nativi digitali della generazione Google. Per chi ha il web ai suoi piedi e Google sempre acceso, il problema non è più memorizzare e neanche ricercare l’informazione, ma discriminare una informazione da un’altra. Agli studenti di oggi c’è bisogno, soprattutto, di insegnare un atteggiamento scettico nei confronti della pretesa di conoscenza. Ad esempio l’approccio tradizionale, per cui il libro di testo è un fonte sicura di autorità, è inadeguato al 21° secolo. Ovunque, nei libri e tanto più in rete, vi sono tantissime informazioni: quelle vere e quelle false, quelle approssimative, quelle inattendibili e quelle tendenziose, come distinguerle?
La domanda-chiave, nell’approcciarsi ad una nuova conoscenza, dovrebbe quindi essere “come posso fare a sapere che questo è vero?” “dove andare a controllare?” “è utile confrontare più fonti?”.
Le domande migliori, per gli studenti del 21° secolo, sono quelle alle quali Google non sa rispondere. L’esercizio del pensiero critico è il prisma attraverso il quale osservare le conoscenze.
L’altro elemento importante per gli studenti del 21° secolo – credo – è quello di imparare a concentrarsi. L’ipertrofia informativa sembra progettata a tavolino per creare uno stato di distrazione costante e, a giudicare dalla quantità di persone che vedo scrivere messaggi sullo smartphone mentre guidano, la cosa non riguarda solo i ragazzi, ma anche noi. Essere in grado di rimanere concentrati su qualcosa senza essere facilmente distratti è qualcosa che si può imparare, un muscolo mentale che si può esercitare. Tuttavia, come insegnare a concentrarsi a chi non ha mai sperimentato veramente la concentrazione (ed i frutti che ne conseguono!) è una vera sfida.
Spegnere il telefonino non è sufficiente: bisogna insegnare la resilienza, e che la gioia di apprendere si trova proprio nel lottare con i concetti difficili. Come genitore, talvolta mi pare una sfida impossibile (anche se figli diversi hanno atteggiamenti radicalmente opposti). Costruire la capacità di tollerare la concentrazione, lo sforzo e la frustrazione, sviluppare la pazienza di stare sulle cose, è veramente difficile. Io stessa l’ho imparato solo con gli anni ed è più arduo per una generazione abituata ad avere tutto e subito, a non dover scorrere per ore, con tocco leggero perché non si rovinino, le pagine sottili di vocabolari ed enciclopedie. E’ più difficile per chi ha Google. Questa è la sfida dei genitori e degli insegnanti del 21° secolo e sarebbe meglio se la affrontassimo insieme.
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Cara Elisabetta, ho letto d’un fiato e la penso esattamente come te.
Quando però ho provato ad esprimere in vari contesti la mia preoccupazione nel constatare le difficoltà di cui sopra, non ho trovato grande accoglienza. Ti ringrazio quindi di aver messo a fuoco il problema.
Se sia in corso una mutazione evolutiva non lo so. Quello che so è che da una parte c’è la scuola (italiana) che è veramente un brontosauro come da te giustamente definita, che richiede uno sforzo cerebrale notevole, e dall’altra i ragazzi che per fissare concetti appena complessi vanno in tilt perché vivono negli automatismi e con sempre meno micro problemi da risolvere.
Come capirete, il mio è un punto di vista non giovanissimo, ma credetemi, non sono contro la tecnologia, sono contro il rimbecillimento.
Un caro saluto a tutti.
Spero che riusciamo ad incontrarci, almeno qualcuno di noi a Study in Uk a Milano.
Anche io autorizzo il contatto privato se ce ne fosse bisogno.
Ama