Mio figlio quattrenne sta facendo la “sua” valigia per un fine settimana fuori città. Parla da solo, dice: “Here is Frankfurt. But I also need Cambridge. Where is Cambridge?”.
Ad ascoltarlo, si potrebbe pensare che possiede un talento precoce per la geografia e che si stia preparando per un grand tour europeo.
La realtà è molto diversa. “Frankfurt” è un cagnolino nero di peluche acquistato dalla mamma dopo un viaggio di lavoro nell’omonima città tedesca, mentre “Cambridge” è una scimmia che viene dalla nota università inglese e che, in realtà, è la mascotte di Cambridge international Examination.
L’esotismo dei nomi ha una sua spiegazione: il quattrenne è la povera vittima di una mamma con aspirazioni cosmopolite, che tiene un blog in cui sfoga le sue smisurate ambizioni di un’educazione e, quindi, formazione “globale”. Per questo motivo, i peluche di casa seguono il capriccio geografico materno e mirano a far sentire il mondo intero parte di casa propria.
La verità è che questa mamma che scrive, sin da quand’era solo una bambina è sempre stata curiosa degli altri, delle vite degli altri e attratta da quanto le era straniero. Attratta – beninteso – come possono esserlo gli scrittori o i timidi, che osservano gli altri senza far domande, in silenzio, memorizzando espressioni, parole e gesti che suonano come ‘diversi’ dai propri. “Non vi è alcuna necessità di restare intrappolati nel proprio tempo e nel proprio spazio. Accostare vite diverse modifica la comprensione che se ne ha” così scrive uno studioso oxoniense, Theodore Zeldin, in un libro da poco tradotto in italiano (Ventotto domande per affrontare il futuro, p. 45).
Quando ho cominciato ad aver l’età della ragione questa curiosità si è incarnata in modo simbolico e feticistico in quello strumento di libertà che è il passaporto.
Sin dall’infanzia ero fiera di avere un passaporto. Areoporti e passaporti erano il viatico per il mondo, fonte di delizia assoluta. E’ cosa nota che, nella vita psichica di ognuno, piacere e terrore si inseguono e si sfiorano. Uno dei miei terrori ricorrenti da bambina (e da adulta, mi viene da aggiungere) era quello della guerra, di dover improvvisamente fuggire. Ecco che, allora, il passaporto era veramente il simbolo di libertà. Da ragazzina, la seconda guerra mondiale pareva incredibilmente vicina, l’olocausto era un terrore infantile ricorrente quanto le domande che generava: perché gli ebrei non erano fuggiti quando le cose stavano per mettersi male per loro? Perché non andarsene prima di essere privati dei propri diritti civili, del passaporto e poi della dignità e della vita? Come era stato possibile non capire l’enormità della tragedia che stava per abbattersi su di loro? Le mie erano le domande ingenue di una ragazzina impressionabile, che parla con il senno del poi. Oggi la stessa cosa si potrebbe chiedere delle famiglie e delle persone in fuga dalla Siria distrutta, i cui racconti sono tanto più strazianti quanto più vicini.
Per questo, forse, per questo habitus mentale che connette curiosità verso l’estero e timore di dover fuggire, il passaporto ha assunto ai miei occhi un potentissimo valore simbolico. Quando la prima figlia era appena nata, nella mia tag cloud di neomamma (ogni mamma ha una tag cloud, una nuvola di parole che le si para innanzi, in cui, confusamente, emergono i propri desideri e i propri demoni e quella tumultuoso mescolanza di sentimenti che la maternità mette in moto) c’erano, in sequenza, l’attribuzione del nome di battesimo, la dichiarazione di nascita, il codice fiscale e, finalmente – culmine della libertà ed importante quanto il bilinguismo – il passaporto.
Insomma, mentre le altre mamme pensavano all’omogeneizzato biologico io pensavo al bilinguismo, e quando le altre mamme pensavano al marsupio e al passeggino io mi preoccupavo del passaporto.
A ben pensarci mi preoccupavo dell’identità italiana di mia figlia, del suo status di cittadina europea e della sua possibile cittadinanza globale. Ed è strano scriverne in questi giorni, a pochi mesi dal referendum inglese che agita l’incubo di una Brexit, che porrebbe le basi per un nuovo caos europeo.
Eppure il passaporto – come la carta di identità, del resto – non è stato sempre un simbolo di libertà. Il già citato Theodore Zeldin (p. 52) ci ricorda che “Il passaporto nazionale obbligatorio, una reliquia del dispotismo monarchico, fu abolito come un insulto alla libertà dalla Rivoluzione francese e in seguito in molti altri paesi, in modo tale che nel XIX secolo la gente potesse vantarsi di non avere alcun certificato rilasciato da un burocrate che fosse considerato, se occorreva dimostrare chi si era, una prova migliore della propria parola”.
Ma se il mondo ha vissuto, anche in epoche relativamente moderne, senza passaporto, questo non vuol dire che la circolazione delle persone fosse libera. Se si leggono i Mémoires d’outre-tombe di Chateaubriand si può notare come, per muoversi negli Stati europei durante la Restaurazione, c’era bisogno di autorizzazioni date di volta in volta. Insomma, anche lì c’erano carte e visti. Allora meglio avere una sorta di carta di identità internazionale, anche se – ricorda ancora Zeldin – persino Napoleone III dichiarò che il passaporto non serviva a fermare i criminali, ma semplicemente a ostacolare il libero transito degli innocenti.
Fu la paranoia per le spie al tempo della Prima Guerra mondiale a riportare in vita il passaporto, che gradualmente tornò a svolgere il proprio ruolo di strumento di controllo prima che fonte d’informazioni (la Gran Bretagna, ad esempio, ha avuto una politica di “porte aperte” sino al 1905, anno della prima normativa che limitava l’immigrazione).
Strumento di controllo o fonte d’informazione che sia, a me va benissimo: il passaporto rimane uno dei miei taccuini preferiti. Tuttavia non tutti i passaporti sono uguali: alcuni hanno decisamente maggiore potere, chi si volesse divertire a vedere quali, può scoprirlo su un ranking assai poco istituzionale che compara i passaporti per il numero di paesi cui danno accesso, il Passport index, dove si scopre che con un passaporto italiano si può entrare, senza visto, in 144 paesi.
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