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Bilinguismo a scuola: ma il CLIL è il metodo migliore?

In questo sito scrivo spesso di bilinguismo e di come sarebbe auspicabile un’educazione bilingue per tutti e non solo per chi se lo può permettere. Scrivendo di bilinguismo ho spesso menzionato il CLIL, acronimo che, come sa chi mi legge regolarmente, sta per Content and Language integrated learning. Di che si tratta? Come è attuato in Italia? E’ una buona iniziativa o meno?

Anzitutto traduciamo questo acronimo in italiano. Letteralmente CLIL vuol dire più o meno “apprendimento integrato di lingua e contenuto”, ossia l’apprendimento contemporaneo di una lingua e di una disciplina (o materia) oppure, rovesciando i termini, il fare lezione su una materia (la fisica o il latino, la chimica o la matematica) usando una lingua diversa dall’italiano e quindi, solitamente, l’inglese (ma potrebbe essere il francese, lo spagnolo o il tedesco; non conosco, invece, eventuali casi di utilizzo di lingue extra-europee).

Insomma, come spiegavo in un precedente post (E’ settembre: back to school…quali novità ci aspettano?) il CLIL è l’insegnamento in lingua straniera di “discipline non linguistiche” (in gergo DNL) previsto dall’allora ministro Gelmini per le scuole superiori come strumento per potenziare la conoscenza della lingua inglese.

Come spesso accade in Italia, però, si sono fatte le nozze con i fichi secchi, perché per far si che, ad esempio, un docente che fino a ieri ha insegnato la fisica in italiano la insegni di colpo in un’altra lingua, ci vorrebbero investimenti economici, scuole di formazione e specializzazione, nuovi docenti, procedure certe e una disciplina per gestire la transizione. E invece no. E gli insegnanti, di conseguenza e a ragione, si lamentano. Certo, qualche istituto, grazie ai lettori madrelingua e al programma Cambridge è più avanti (come anche per altri percorsi liceali caratterizzati da un certo grado di internazionalità: vedi il post Scientifico, Linguistico, Classico o Europeo: purché sia un Liceo Internazionale!), ma gli altri?

Ecco, io ho raccolto le lamentele di alcuni insegnanti e vi racconto ciò che loro hanno raccontato a me, sulla normativa, sulle loro difficoltà e le sfide che devono superare.

Per quanto riguarda i Licei Classico e Scientifico, si sollecitano le scuole a insegnare, durante l’ultimo anno circa metà del programma, in inglese.

Da quando i docenti italiani parlano inglese? Infatti, come mi hanno raccontato gli stessi insegnanti, l’inglese non lo sanno. Eppure, dall’anno scolastico passato (2014-2015) sembrava essere obbligatorio aderire al progetto.

Sempre a quanto mi è stato spiegato, le norme indicano che, nel caso (molto probabile) che l’insegnante di ruolo non sia abilitato CLIL, si può ricorrere agli esperti madrelingua oppure immaginare un (non meglio identificato) percorso didattico con l’insegnante di inglese. L’insegnante di ruolo, per essere abilitato, deve aver sostenuto il C1 (o anche un B2 con iscrizione al corso per il C1) e aver frequentato un corso didattico CLIL. Per le scuole statali, il MIUR ha messo a disposizione alcuni fondi per corsi di lingua e partecipazione ai corsi didattici tenuti da diverse università. Naturalmente, i posti sono limitati e ci sono ampie polemiche sulla selezione fatta. Le scuole paritarie non accedono a questi fondi e possono partecipare ai corsi universitari pagando di tasca loro.

La cosa più assurda che mi è stata raccontata dai docenti è che al momento dell’esame di Stato (ossia l’ex esame di “Maturità”), il programma svolto in inglese non può essere sempre (anzi per ora quasi mai) trattato e verificato, dato che è estremamente improbabile trovare un commissario esterno abilitato CLIL.

Come mi ha scritto un insegnante: “si possono ben immaginare le difficoltà riscontrate nel portare avanti un programma con i ragazzi quando questi sanno che non ci sarà mai la verifica all’esame!”.

L’unico caso in cui la trattazione in lingua si può fare è nel caso che la materia sia interna e l’insegnante sia abilitato, caso – per ora –  piuttosto infrequente.

Per gli studenti, quella di imparare una lingua (solo) attraverso il CLIL è una gran fatica. Bisogna avere una buona base, precocemente appresa per immersione (lo argomentava anche la docente di una scuola bilingue su Maestra e mamma).

Insomma:  il CLIL sarebbe una bellissima cosa se rivolto a coorti di studenti che hanno già appreso la lingua straniera “per immersione”, come una prima lingua (tema sul quale ho scritto moltissimo).

Per gli insegnanti, poi, lo sforzo richiesto, oltre che immane, è anche ingiusto (anche se poi le persone intelligenti trasformano l’ostacolo in opportunità di auto-miglioramento).  A parte le questioni “frivole”, ossia chiedersi che razza di accento avrà mai un docente che ha sempre insegnato geografia in italiano e la deve insegnare in inglese, c’è da chiedersi come farà a rendere le lezioni naturali e corrette sotto il profilo sintattico e, soprattutto, come farà a trasmettere le conoscenze tipiche della materia.  Mi pare evidente che è controproducente insegnare una materia in una lingua che non si domina.

La cosa è dunque contorta e densa di contraddizioni: insomma, il CLIL è una gran bella iniziativa ma non è il modo migliore per potenziare l’inglese (e altre lingue) nelle scuole.

Quanto alla formazione dei docenti penso che la prima cosa da fare sia assumere docenti già bilingui. Vorrebbe dire che, in una prima fase, arriverebbero all’insegnamento solo i giovani che hanno fatto una facoltà in inglese.

Sarebbe utile fare come la Finlandia, che ad insegnare nelle scuole manda i migliori laureati in tutte le materie. Come si fa? Assumendo pochi insegnanti, di altissima qualità e pagandoli almeno il doppio. La professione deve tornare ad essere di prestigio o, almeno, non una professione svalutata. Ma qui divago; aspetto i commenti di docenti, studenti e genitori alle prese con il CLIL.

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Comments

  1. Sentite, nel fermo panorama della scuola, dove per anni il paragone con gli altri stati europei è stato prevalentemente fatto dal punto di vista della maggiore o minore pesantezza della busta paga piuttosto che da quello della qualità dei programmi mi sembra si che sta finalmente muovendo qualche cosa. E’ un punto di partenza, non di arrivo, ma mi permetto di ripetere che andrebbe scosso anche il pregiudizio che il sistema italiano sia sempre e comunque il migliore e che le lingue si imparino con qualche viaggetto-studio d’estate, da adolescenti (se così fosse non ci sarebbero così tanti problemi a trovare insegnanti che conoscono bene le lingue). Se non si scardina questo paradigma, partendo dalla mentalità di tutti, genitori e insegnanti non saremo mai competitivi. Adeguarsi ai tempi non significa copiare pedissequamente un sistema scolastico straniero, ma di migliorarci facendo nostre le loro buone pratiche. Purtroppo, nel caso delle scienze, credo che la carenza di laboratori sia correlata agli scarsi finanziamenti di cui dispone la scuola pubblica. Ciò detto, è anche vero che tutte le ragazze alla pari (inglesi e americane) che ho ospitato, studentesse universitarie (di cui una vincitrice di una borsa di studio a Oxford) si sono meravigliate per la mia “cultura”, che non si può certo definire vasta e che deriva principalmente dall’aver fatto il liceo classico (e neanche tanto bene a dire il vero). Io, d’altra parte, mi sono meravigliata del fatto che loro non conoscessero neanche chi fosse Dante. Insomma è come non sapere chi è Shakespeare o sbaglio? Ergo, manteniamo il buono del nostro sistema scolastico, ma miglioriamolo, adeguandolo ai tempi per renderci competitivi. Cerchiamo di far interessare maggiormente i giovani alle materie scientifiche (possibile che in Italia si odi tanto la matematica? Non ci sarà un modo più interessante di insegnarla?).

  2. Vorrei allora capire, senza intenzione polemica, quale sia in positivo la proposta di Vale. Mi pare infatti arduo dire che tutto va bene e che basta lasciare le cose come stanno. Possibile che fra la scuola internazionale – alla quale, se non ricordo male i precedenti suoi interventi, Vale comunque non crede molto- e il programma ministeriale tardo gentiliano non esistano gradi intermedi?

  3. Io sono più a favore di una scuola con meno ore obbligatorie in generale, in cui si facciano, bene, poche materie (per la primaria, ad esempio, ne trovassi una che fa “solo” 24 ore la sceglierei di corsa…purtroppo non ne esistono più, a quanto ne so, e quindi io sono “obbligata” a lasciare mio figlio a fare l’ora di inglese in più o il laboratorio di informatica o quello di arte) in modo che rimanga tempo, al pomeriggio, per integrare con lezioni/corsi più mirati quello che interessa all’allievo/famiglia.

    A scuola per tutti poco, concentrato e fatto bene; non è così indispensabile che tutti facciano il laboratorio di pittura, o il corso per il FIRST o l’approfondimento IGCSE di Chimica, anche perché, dai ricordi che ho, 20-25 bambini/adolescenti messi insieme in una classe, dopo molte ore, diventano tutti meno produttivi e concentrati.

    Preferirei poter portare a casa prima i miei bambini in modo da fargli fare qualcosa che semplicemente preferisco, piuttosto che essere “obbligata” a lasciarli a scuola a fare, ad esempio, un’ora in più collettiva di conversazione EN (che, ad esempio, credo non serva assolutamente a nulla fatta in una classe di 20-25 perché parlano, se va bene, 5 minuti a testa. Il resto, disturbano i compagni).

    Farei più volentieri una battaglia a favore della riduzione di orario, dell’aggiornamento dei programmi insegnati in quelle “poche” ore e dell’aumento salariale degli insegnanti (sarebbero più motivati e la professione attirerebbe di più persone preparate) piuttosto che una battaglia per aggiungere corsi o materie da fare tutti insieme appassionatamente.

  4. Mi sembra comunque una proposta seria ed argomentata. Purtroppo c’è anche un lato, per così dire, sociale da considerare. Il tempo scuola prolungato, a torto o a ragione, è considerato positivo per due ragioni. Primo, è ormai normale e necessario che in una famiglia media entrambi i genitori lavorino, sì che la possibilità di gestire in prima persona l’istruzione dei figli è per forza di cose assai limitata. Secondo , spesso chi ha il tempo, perché c’è un genitore che non lavora, non ha il denaro. In un mondo ideale la scuola pubblica, in tesi tendenzialmente gratuita, dovrebbe servire anche a far fare date esperienze a chi di suo non se le potrebbe permettere.
    Detto questo, non sarebbe assurdo consentire di frequentare solo una sorta di “corso base”, così come è consentita l’istruzione solo familiare, fermo che le altre attività dovrebbero esserci.

  5. Grazie.

    L’educazione parentale (che pure confesso di aver considerato in un momento di disperazione) mi sembra comunque dannosa e pericolosa.

    Dannosa perché i bambini hanno comunque bisogno di instaurare relazioni con coetanei, legate all’apprendimento, vivere esperienze sociali e confrontarsi, insomma, stare in una classe.Pericolosa perché, pur credendo di avere capacità e mezzi per curare l’istruzione dei miei figli, non ho la presunzione di credere di poter fare tutto bene da sola, quindi, la scuola in sé mi sembra fondamentale.

    Purtoppo non si possono combinare le due scelte: mando il bimbo a scuola al mattino e al pomeriggio lasciatemelo portare via, faccio da sola l’educazione parentale di inglese, musica o fisica quantistica.Semplicemente, non è legale.

    E quindi, ahimè! , mi devo adattare.

    La scuola è cambiata a partire dagli anni ’80, quando è iniziato a sembrare ai più che “essere solo scuola” non fosse più abbastanza.

    Prima è arrivata la moda dell’informatica (con tutte le sperimentazioni fallimentari che ne sono seguite, finché è stato chiaro che non serviva insegnare un linguaggio di programmazione che diventava obsoleto prima che gli studenti finissero il percorso. Meglio dare delle basi di matematica e logica, con carta e penna, e poi ognuno imparerà il codice che servirà al bisogno).

    Poi è stata la volta delle lingue, come se si potessero sfornare a scuola dei poliglotti.

    Ora è il tempo delle certificazioni straniere, e poco importa se scuole private credo costose offrano, alla resa dei conti, solo 4-5 IGCSE, di cui sempre almeno due in Inglese/Letteratura Inglese. A che serve?

    Ma finché la domanda dei genitori sarà di avere sempre di più e di nuovo, il sistema andrà in quella direzione.E continueremo ad avere programmi tardo gentiliani accoppiati alle cose più strampalate, senza che ci sia il tempo, il modo e la voglia di aggiornare bene i primi e creare qualità.

    E in tutto questo a me, che ora chiederei meno, viene negata la possibilità di rifiutare insegnamenti che non mi interessano, togliendo oltretutto un posto a scuola a chi, magari, avrebbe più necessità di lasciarci il figlio.

  6. Personalmente, credo nella libertà di scelta, e credo appunto che, fin quando sarà lecita l’educazione familiare, su cui condivido peraltro qualche perplessità , dovrebbe essere permesso anche quanto proponi tu. Detto questo, mi pare che sì debba distinguere, e dire che taluni progetti sono meno peregrini di altri. I diplomi Cambridge , soprattutto perché prevedono una verifica esterna e seria, mi sembrano comunque cosa buona in una scuola pubblica in cui, nella media, l’insegnamento delle lingue è disastroso. Né sì dica che la scuola non può sfornare dei poliglotti: in assoluto è vero, ma spendendo bene il tempo a disposizione finire le superiori con un B2 in inglese ovvero in spagnolo non è un obiettivo impossibile, e farebbe risparmiare i non pochi soldi di un corso privato. E anche un modesto A2 è meglio di nulla. Parlando invece di scuole private sono d’accordo con te: se devo pagare per qualcosa che reputo migliore, scelgo una scuola internazionale piuttosto che quello che può rivelarsi un ibrido allo stesso prezzo.

  7. Avete toccato un punto sul quale è molto che sto pensando di scrivere: quello del “tempo – scuola” ideale. Ordinamenti scolastici diversi hanno regimi diversi e concezioni anche antitetiche del tempo che uno dovrebbe passare a scuola, a volte in ragione dei diversi ‘servizi educativi’ che la scuola offre. Ne riparleremo!

  8. Ottima idea. Mi permetto però di dire che il problema è più vasto, o meglio orbita in forma di sistema (un poco come Plutone con Caronte) assieme ad un problema di pari rango, ovvero la gestione complessiva di lavoro e famiglia. Chi volesse approfondire può leggere un paio di opere di una dei miei santi patroni, ovvero Arlie Hochschild, soprattutto “The second switch”. Purtroppo, non mi risulta siano disponibili in italiano.

  9. Mi permetto di contraddire (parzialmente) il buon Francesco. Dalla mia esperienza le mamme con più tempo a disposizione per i figli, che non lavorano o lavorano “part time” o fanno lavori poco impegnativi non derivano dalle famiglie meno abbienti ma al contrario, da quelle più ricche. E’ un lusso. Generalmente sono mogli di papà manager con stipendi che possono abbondantemente soddisfare le esigenze di tutta la famiglia.

    1. Concordo in pieno.

      Certo ci sono anche, come dice Francesco, le situazioni opposte, ma forse non sono famiglie così interessate a IB, IGCSE e simili?

      Vi racconto un fenomeno sociale interessante legato al mondo della scuola.

      So, da persone che conosco di persona, di una zona molto ricca di una grande città in cui il 90% delle famiglie manda i figli alla scuola pubblica (che forse non ha molto in comune con la scuola pubblica del resto d’Italia, ho il sospetto) perché sostengono che la preparazione sia sì più tradizionale e meno “nuova” o “sperimentale”, ma in generale migliore, e soprattutto con una migliore gestione del tempo-scuola, e quindi non frequentano nessuna delle scuole private di ogni categoria che pure abbondano nella città.

      E parlo di persone per il cui il fattore “retta” sarebbe letteralmente inesistente. Nulla. Niente. Irrilevante.

      E ho anche altri esempi su almeno un paio di altre grosse città. Sono pochi numeri, ma è tutto cià di cui dispongo.

      Ebbene, le mamme effettivamente, come dice Lavinia, seguono i figli in tutto il resto extra-scuola, e non riesco a credere che queste persone non investano nella formazione dei propri figli.

      Non riesco a credere che queste persone (comunque, tutti professionisti laureati che lavorano, non calciatori o attori, per capirci) non manderebbero i propri figli altrove se ci fosse anche solo una chance di avere un’istruzione migliore. Oppure non se ne interessano perché forse pensano che i propri figli non ne avranno poi così bisogno? Però sono tutte persone (quelle poche che conosco) che han fatto fior fiore di università, master e corsi, con almeno un passaggio obbligato in UK e spesso anche uno in USA (Harvard, London school of economics, etc., non università minori, di qualità medio-bassa). Non persone che vivono (solo) di rendita.

      Non ho ancora trovato una risposta convincente a questo.

      Intanto però la scuola pubblica è gratis anche per me. Se fosse dappertutto buona, quand’anche un po’ più basic, forse non sarebbe così male. E nel dubbio, preferirei comunque, hic et nunc, poter fare come loro, ovvero impegnare il pomeriggio dei miei bambini in qualcosa che sia “altro dalla scuola”.

  10. Interessante analisi delle potenzialità del metodo CLIL Elisabetta.
    Io sono una bilingue italiana inglese, traduttrice, ho insegnato l’anno scorso in una scuola privata elementare con metodo Clil, i bambini hanno fatto dei salti da giganti, non nella fluency, immediatamente, ma come interesse e passione, hanno fatto germogliare un seme, che crescerà nel tempo. Credo che in Italia ci sia molto da fare, per trovare metodi più snelli di assumere insegnanti che la lingua la sanno per davvero, non per 3 esami conseguiti, e un concorso vinto. E poi la passione, è un ingrediente che sprona la persona a crescere sempre di più, ma come la misuriamo in un concorso la passione?

    1. Intanto se nei concorsi pubblici si misurasse la conoscenza della lingua sarebbe un passo avanti. Per misurare almeno la capacità di insegnare – se non la passione – di potrebbe fare come i concorsi da professore associato all’università: far tenere ad un aspirante docente una lezione…

  11. Cara Elisabetta, tua figlia frequenta una scuola pubblica che ha adottato il CLIL…per adesso che impressioni hai? Funziona? Luci ed ombre? grazie e buon anno a te e a tutti i lettori di educazioneglobale!

    1. Che ne dici se ti rispondo a fine anno?
      Ora è presto e l’unica cosa certa che ti posso dire è che il percorso di “Liceo internazionale opzione italo – inglese” cui la primogenita è iscritta ha attirato una utenza più internazionale della media; se è vero che non ci sono stranieri è vero che sono tanti che vengono da scuola internazionali/ scuole bilingui oppure che ritornano in Italia dall’estero e quindi lei in classe si è trovata benissimo umanamente.
      Ha anche alcuni professori decisamente carismatici ed altri molto alla mano e quando è in vacanza non vede l’ora di andare a scuola. Nel suo caso è più amore per le persone che amore per il sapere, ma intanto è un bel risultato.
      La compresenza tra docenti e lettori madrelingua funziona bene in alcuni casi e meno bene in altri, direi più a seconda delle persone che delle materie, dunque è arduo al momento fornire un giudizio di sintesi valido per altre esperienze (any advice would be only autobiography!) ma ne riparliamo senz’altro.

  12. Mi pare che senza risorse si possa fare poco. Un insegnante il quale intenda spendere il (non poco) tempo e il (non poco) denaro necessari per una certificazione linguistica ha solo il modesto contributo del bonus docenti, che non copre neanche la metà dei costi vivi di un B2 Cambridge, considerato che nella quasi totalità dei casi affrontarlo richiede un corso privato, e a fronte di ciò non ricava alcun vantaggio di carriera, né in termini di retribuzione né in termini di titoli di servizio. Forse fare di meglio non è possibile, ma bisognerebbe provarci.

  13. In questo periodo siamo per open day per scegliere il liceo. abitando in un piccole centro non abbiamo purtroppo vicino licei bilingui o internazionali quindi purtroppo cercheremo di rafforzAre l’inglese in altre maniere e nella speranza di un 4 liceo all’estero. Agli open Day dunque, io appassionata da sempre di lingue, concentro ovviamente le mie domande sull’inglese, viaggi di studio, inglese extra e Clil. Devo dire che tutti i licei lo fanno e tutti hanno insegnanti che hanno la qualifica Clil. Ma personalmente penso che anche se fatto il corso per Clil, non sia semplice insegnare una materia in inglese. Non solo per i termini tecnici ma anche per quella sicurezza e capacità di interessare che ritengo ti venga solo se sei fluent in una lingua straniera. Lo dico anche a ragion veduta…..io sono bilingue parlo dunque un perfetto inglese (anche tecnico) ma quando ho avuto la possibilità di insegnare alcune lezioni alla facoltà di ingegneria ma in lingua inglese non é stato semplice all’inizio. Vuoi perché non sono un’insegnante, vuoi perché ho dovuto creare il materiale e le dispense. Questo per dire che nessuno si può improvvisare. Non ritengo che in generale il Clil venga fatto bene (vedendo cosa hanno fatto i figli di amici), ma inserirlo nel programma ministeriale ovviamente non vuol dire saperlo fare bene automaticamente ed immediatamente. Meglio lasciarlo perdere che farlo male? Non so….ritengo di no perchè da qualche parte bisogna cominciare. Renderlo facoltativo temo sia come cancellarlo. Ed è un peccato perchè vi assicuro che qualcosa sta cambiando. Agli open day (considerate che noi abbiamo fatto quello dei licei scientifici e non linguistici) moltissime domande dei genitori erano proprio sulle lingue straniere. Purtroppo i nostri figli, in generale, non hanno troppo esposizione alle lingue, basta pensare ai programmi TV tutti doppiati, in molti paesi europei sono tutti il lingua originale. Dunque anche il Clil è un piccolo passo in questa direzione…..

    1. Se il CLIL non prevede anche i lettori madrelingua lo eviterei a piè pari. Ovviamente ci sarà qualche caso fortunato di docente già bilingue ma, come hai giustamente notato, anche noi bilingui facciamo fatica a fare il switch. Io fatico molto a parlare in italiano dei libri che leggo – anche solo per mio interesse – in inglese e a descrivere in inglese alcune cose lette o vissute in italiano. Intendiamoci, si può fare, ma la verità è che la lingua è un’abitudine e uno tende a specializzarsi. Persino la propria voce interiore parla una lingua o un’altra a seconda dei diversi “oggetti mentali” che pensa. Ed infine, aggiungo, che ho studiato e cantato il jazz per anni e che se qualcuno mi proponesse di cantare un pezzo di Cole Porter in italiano, anche se con una traduzione confacente alla metrica richiesta dal singolo pezzo, mi si rivolterebbe lo stomaco (ragione per la quale amo il musical ma non vado mai a teatro a vederne/sentirne in Italia…). Ho divagato, ma penso che siamo d’accordo sui fondamentali!

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