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Bilinguismo a scuola: ma il CLIL è il metodo migliore?

In questo sito scrivo spesso di bilinguismo e di come sarebbe auspicabile un’educazione bilingue per tutti e non solo per chi se lo può permettere. Scrivendo di bilinguismo ho spesso menzionato il CLIL, acronimo che, come sa chi mi legge regolarmente, sta per Content and Language integrated learning. Di che si tratta? Come è attuato in Italia? E’ una buona iniziativa o meno?

Anzitutto traduciamo questo acronimo in italiano. Letteralmente CLIL vuol dire più o meno “apprendimento integrato di lingua e contenuto”, ossia l’apprendimento contemporaneo di una lingua e di una disciplina (o materia) oppure, rovesciando i termini, il fare lezione su una materia (la fisica o il latino, la chimica o la matematica) usando una lingua diversa dall’italiano e quindi, solitamente, l’inglese (ma potrebbe essere il francese, lo spagnolo o il tedesco; non conosco, invece, eventuali casi di utilizzo di lingue extra-europee).

Insomma, come spiegavo in un precedente post (E’ settembre: back to school…quali novità ci aspettano?) il CLIL è l’insegnamento in lingua straniera di “discipline non linguistiche” (in gergo DNL) previsto dall’allora ministro Gelmini per le scuole superiori come strumento per potenziare la conoscenza della lingua inglese.

Come spesso accade in Italia, però, si sono fatte le nozze con i fichi secchi, perché per far si che, ad esempio, un docente che fino a ieri ha insegnato la fisica in italiano la insegni di colpo in un’altra lingua, ci vorrebbero investimenti economici, scuole di formazione e specializzazione, nuovi docenti, procedure certe e una disciplina per gestire la transizione. E invece no. E gli insegnanti, di conseguenza e a ragione, si lamentano. Certo, qualche istituto, grazie ai lettori madrelingua e al programma Cambridge è più avanti (come anche per altri percorsi liceali caratterizzati da un certo grado di internazionalità: vedi il post Scientifico, Linguistico, Classico o Europeo: purché sia un Liceo Internazionale!), ma gli altri?

Ecco, io ho raccolto le lamentele di alcuni insegnanti e vi racconto ciò che loro hanno raccontato a me, sulla normativa, sulle loro difficoltà e le sfide che devono superare.

Per quanto riguarda i Licei Classico e Scientifico, si sollecitano le scuole a insegnare, durante l’ultimo anno circa metà del programma, in inglese.

Da quando i docenti italiani parlano inglese? Infatti, come mi hanno raccontato gli stessi insegnanti, l’inglese non lo sanno. Eppure, dall’anno scolastico passato (2014-2015) sembrava essere obbligatorio aderire al progetto.

Sempre a quanto mi è stato spiegato, le norme indicano che, nel caso (molto probabile) che l’insegnante di ruolo non sia abilitato CLIL, si può ricorrere agli esperti madrelingua oppure immaginare un (non meglio identificato) percorso didattico con l’insegnante di inglese. L’insegnante di ruolo, per essere abilitato, deve aver sostenuto il C1 (o anche un B2 con iscrizione al corso per il C1) e aver frequentato un corso didattico CLIL. Per le scuole statali, il MIUR ha messo a disposizione alcuni fondi per corsi di lingua e partecipazione ai corsi didattici tenuti da diverse università. Naturalmente, i posti sono limitati e ci sono ampie polemiche sulla selezione fatta. Le scuole paritarie non accedono a questi fondi e possono partecipare ai corsi universitari pagando di tasca loro.

La cosa più assurda che mi è stata raccontata dai docenti è che al momento dell’esame di Stato (ossia l’ex esame di “Maturità”), il programma svolto in inglese non può essere sempre (anzi per ora quasi mai) trattato e verificato, dato che è estremamente improbabile trovare un commissario esterno abilitato CLIL.

Come mi ha scritto un insegnante: “si possono ben immaginare le difficoltà riscontrate nel portare avanti un programma con i ragazzi quando questi sanno che non ci sarà mai la verifica all’esame!”.

L’unico caso in cui la trattazione in lingua si può fare è nel caso che la materia sia interna e l’insegnante sia abilitato, caso – per ora –  piuttosto infrequente.

Per gli studenti, quella di imparare una lingua (solo) attraverso il CLIL è una gran fatica. Bisogna avere una buona base, precocemente appresa per immersione (lo argomentava anche la docente di una scuola bilingue su Maestra e mamma).

Insomma:  il CLIL sarebbe una bellissima cosa se rivolto a coorti di studenti che hanno già appreso la lingua straniera “per immersione”, come una prima lingua (tema sul quale ho scritto moltissimo).

Per gli insegnanti, poi, lo sforzo richiesto, oltre che immane, è anche ingiusto (anche se poi le persone intelligenti trasformano l’ostacolo in opportunità di auto-miglioramento).  A parte le questioni “frivole”, ossia chiedersi che razza di accento avrà mai un docente che ha sempre insegnato geografia in italiano e la deve insegnare in inglese, c’è da chiedersi come farà a rendere le lezioni naturali e corrette sotto il profilo sintattico e, soprattutto, come farà a trasmettere le conoscenze tipiche della materia.  Mi pare evidente che è controproducente insegnare una materia in una lingua che non si domina.

La cosa è dunque contorta e densa di contraddizioni: insomma, il CLIL è una gran bella iniziativa ma non è il modo migliore per potenziare l’inglese (e altre lingue) nelle scuole.

Quanto alla formazione dei docenti penso che la prima cosa da fare sia assumere docenti già bilingui. Vorrebbe dire che, in una prima fase, arriverebbero all’insegnamento solo i giovani che hanno fatto una facoltà in inglese.

Sarebbe utile fare come la Finlandia, che ad insegnare nelle scuole manda i migliori laureati in tutte le materie. Come si fa? Assumendo pochi insegnanti, di altissima qualità e pagandoli almeno il doppio. La professione deve tornare ad essere di prestigio o, almeno, non una professione svalutata. Ma qui divago; aspetto i commenti di docenti, studenti e genitori alle prese con il CLIL.

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Comments

  1. Caro Francesco, purtroppo non capisco lo spagnolo :(….comunque grazie!!!
    Io credo che il CLIL sia un fantastico specchio per le allodole. Spero che quando mia figlia avrà l’età per andare al liceo avremo risolto il problema di dover stare al passo con i tempi avvalendoci di una classe di insegnanti preparati e…bilingui. Ma non ci credo molto. Purtroppo, come ho a volte sottolineato, molte mamme sottovalutano la portata della conoscenza della lingua inglese, che alcuni continuano a pensare come ad una lingua “facile”, quando, a mio avviso, non lo è affatto. Chi riesce a comprendere un film in inglese senza sottotitoli con un misero livello medio di conoscenza della lingua? Pochi.
    Chi saprebbe scrivere un articolo in inglese? Non molti.
    Insomma perpetuare l’idea che tanto l’inglese verrà da sé senza coltivarlo, magari con qualche corso in una Inghilterra piena di italiani, rimandando al periodo dell’adolescenza l’investimento temporale è un assurdo.
    Come ho sottolineato anche al Rettore del Convitto Nazionale di Roma, fantastica l’introduzione del CLIL e degli scambi scolastici con altri paesi europei, ma se non si parte da prima con un serio investimento sulla lingua come fa un ragazzo a comprendere una lezione svolta interamente in inglese, sia che si tratti di un trimestre all’estero o di una dissertazione sulle ere geologiche?
    C’è un altro punto da rilevare. Con la crisi dell’editoria e i costi delle traduzioni, a mio parere si tenderà sempre di più a tradurre solo libri che possano avere un ritorno economico adeguato (e quindi “di massa”) evitando i testi “di nicchia” e presumibilmente “di qualità”. Ciò inevitabilmente incrementerà un appiattimento culturale ed un restringimento dell'”elite culturale”.

  2. salve a tutti, il mio intervento non c’entra molto con l’articolo, però volevo un consiglio da tutti voi. Mia figlia di 13 anni a settembre frequenterà la terza media e a breve dovrà scegliere il liceo. Lei è molto brava in italiano, le piace leggere e scrivere, non è così brillante però in maths…io ho frequentato lo scientifico e mi sono trovata benissimo, (io però adoravo la matematica), superai tutti i test di ingresso che provai(odontoiatria, medicina, il DES alla Bocconi)….Cosa devo consigliarle? A me il classico mi sembra un po’ anacronistico. Lei non sa ancora cosa fare all’università però credo che lo scientifico prepari meglio alle università a numero chiuso(quasi tutte ormai!)…cosa consigliarle?
    Nella mia città non ci sono scuole bilingue…ma a Matera (poco distante dalla mia città) da quest’anno il liceo classico è diventato Cambridge. potrebbe essere un’idea?Help me!

    1. Sul classico ho già scritto quello che pensavo in due post denominati “Serve ancora il latino?” che non so se li hai letti. Tieni presente, peraltro, che io ho fatto il classico e mi piaque pure. Quanto ad anacronismo, anche il Liceo Scientifico non scherza, almeno per la tipologia della didattica italiana: troppo teorica e poco esperienziale e laboratoriale. Tuttavia lo scientifico italiano (che, comparato, agli indirizzi scientifici del resto del mondo è sin troppo “letterario” o “umanistico”) è pur sempre un percorso più bilanciato del classico.
      Inoltre, mi azzardo a dire che le motivazioni per la scelta della scuola valgono più della scelta stessa: scegliere il classico perchè si teme la matematica – esattamente come ha fatto la sottoscritta in altra epoca – è una scelta perdente ed è tipica di un certo genere di “autoesclusione femminile”. Moltissime materie oggi implicano una conoscenza quantitativa della realtà, alla quale tende a sfuggire chi è a suo agio solo con la parola ma non con il numero.
      La mia serena analisi è che il classico va bene (con i suoi forti limiti) se hai un figlio che ti dice: voglio fare l’archeologo o niente, oppure che vuole studiare sanscrito. Insomma: per chi ha una vocazione. Negli altri casi è una fuga (specie per le ragazze: rileggi i già citati post sul latino, nei quali citavo autorevoli studiosi e dati concreti).
      La paura non è mai una buona consigliera, mentre la vocazione lo è.
      Detto ciò, cosa fare con tua figlia?
      Il suggerimento migliore sarebbe questo: trova, anche a costo di perderci molto tempo, un bravissimo insegnante di matematica, uomo o donna. Che sia una luminare che insegna all’università o il brillante figlio di amici che fa un dottorato in matematica o fisica o statistica non importa: deve essere qualcuno che ha una scintilla, una personalità.
      Facci un colloquio tu, senza tua figlia e digli quello che vuoi: non “ripetizioni” di matematica ma un ciclo di “lezioni”, che consenta a tua figlia di capire le motivazioni di coloro cui piacciono i numeri, che le consenta, se c’è bisogno, di ricominciare dal perchè serve la matematica, dal cosa mi consente di capire e di creare (per capire l’economia e la demografia servono i numeri, per fare scelte razionali servono i numeri – e chi li conosce il biglietto della lotteria non lo compra etc…). Beninteso, delle lezioni in cui avrà anche l’opportunità di colmare delle lacune (equazioni? trigonometria? you name it).
      Poi parla con tua figlia e dille che questa piccola noia della lezione settimanale di matematica è un’opportunità, l’opportunità di capire se è vero che non è brillante in matematica. E la buona notizia, io credo, è che non è vero. Dateci insegnanti migliori e vi daremo un futuro migliore…
      Detto ciò, quando saranno i primi di dicembre ed andrete in giro per open day, sarebbe bene che fosse lei a scegliere, ma almeno non per paura.
      Elisabetta

  3. Insegno economia in inglese alla laurea di secondo livello a Tor Vergata; questa esperienza mi suggerisce che, per funzionare, l’esperimento CLIL deve aver luogo in classi con un gruppo abbastanza grande (diciamo 8 su 30 minimo) di studenti che non parlano italiano. Nelle prime lezioni del mio corso, c’è sempre lo studente che alza la mano e mi fa una domanda in italiano: mi è sufficiente puntare gli occhi verso i non madrelingua, e al più dire “English”, per farlo passare all’inglese: stentato, lento, con varie false partenze soprattutto per fare una domanda che sarebbe difficile esprimere anche in italiano, ma comprensibile a tutti. L’inglese in classe è una necessità: devono usarlo per comunicare con i compagni stranieri. Dopo qualche settimana di corso diventa naturale associare la lingua inglese agli edifici della facoltà, gli studenti non si vergognanano più dell’inglese, e pensano ai contenuti.
    È quindi concepibile che un liceo in cui tutte le lezioni (e gli esami) fossero condotti in inglese, con insegnanti bilingui/qualificati possa funzionare; probabilmente, se di qualità buona potrebbe attrarre anche studenti non italiani, il che imporrebbe l’inglese anche nelle ricreazioni e nelle amicizie, moltiplicando così l’effetto bilinguismo. Ma è davvero difficile immaginare che utilità possa avere insegnare tre ore settimanali di storia in inglese ad una classe con 30 ragazzi che si conoscono, che parlano sempre e solo italiano fra loro, che seguono tutte le altre lezioni in italiano: non si impara né la storia né l’inglese.

    1. Caro Gianni,
      sono perfettamente d’accordo con quello che affermi.
      E’ abbastanza naturale per qualsiasi essere umano scegliere la strada più facile. Se mi capiscono in italiano, perchè parlare inglese?
      Alla scuola bilingue dei miei figli è un pò così: le cose funzionano meglio nelle classi di quelle docenti madrelingua che non capiscono per niente l’italiano, ma funzionerebbero molto ma molto meglio se ci fossero più stranieri (madrelingua inglese o che capiscono l’inglese).
      Lo vedo persino con il figlio treenne: quando siamo io e lui dopo un pò fa il switch e parla solo inglese. Ma se ricevo una telefonata e mi sente parlare italiano dopo pochi secondi mi si rivolge in italiano. E’ asolutamente naturale.
      Le scuole con programma IGCSE Cambridge più avvedute e quelle che credono nel CLIL prima o poi dovranno arrivarci: dovranno capire che se non hanno un sito web ben fatto ed anche in inglese, gli inglesi e gli americani ma anche i singalesi o i filippini appena arrivati in Italia – che magari hanno figli che ancora non parlano l’italiano ma masticano inglese meglio dei coetanei italiani – non avranno un incentivo ad iscrivere i propri figli proprio in quelle scuole.
      Sull’inglese anche a ricreazione o nelle amicizie, invece, credo poco: anche ipotizzando due americani in una classe contro 25 italiani l’effetto massificante durante l’adolescenza è pazzesco: finiranno tutti con il parlare italiano o capirsi a gesti. Serve una certa “massa critica” di stranieri per fare il switch: parlo per esperienza.
      Quanto alle università italiane, l’offerta in inglese (come nel corso che tieni tu) è ai suoi albori e la questione non è priva di polemiche, come quella che è sorta intorno ai corsi in inglese del Politecnico di Milano – se non ricordo male.
      Qui bisogna pur capire che la posta in gioco non è la rinuncia alla lingua italiana ma il confronto con altre università a livello internazionale anche in termini di “attrattività” del sistema universitario italiano.
      Elisabetta

  4. Scusate, ma voi partite dal presupposto che il CLIL sia condotto da insegnanti che parlino perfettamente l’inglese….io questo non lo darei per scontato. Peraltro il DDL “La buona scuola” da questo punto di vista non offre alcuna garanzia.
    E’ un progetto sostenibile?
    Elisabetta, se ho capito bene tua figlia frequenterà un liceo Cambridge. Aspetto con ansia dei feedback!

    1. Ciao Lavinia, riprendo questo tuo commento di quasi un anno fa per risponderti qui circa il liceo scientifico italiano ma con programma “internazionale” (tra virgolette perchè la definizione vale solo per il sistema scolastico nostrano…) con IGCSE che ha seguito la figlia maggiore quest’anno, al suo primo anno di liceo.
      E’ presto per dare un giudizio complessivo e sicuramente è presto per dare un giudizio “di sistema”, quindi quello che scrivo qui ha scarsa riproducibilità.
      Ciò detto, con tutte le approssimazioni di una sperimentazione, il bilancio almeno di quest’anno è per noi molto positivo.
      Lei va a scuola con entusiasmo (che, al liceo, mi pare già 50% del lavoro…), ha due o tre professori molto “motivanti” (due, in particolare, anche quando vado a parlarci mi paiono persone molto intelligenti) e si è formata una classe molto brillante, in cui mia figlia che non è studiosissima, quando si rilassa arranca un pò.
      Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di ragazzi che sanno già bene l’inglese e, a volte, anche altre lingue. Molti vengono da scuole bilingui (persino dalla bilingue francese!), alcuni da scuole internazionali, altri da scuole con inglese rafforzato, qualcuno ha vissuto negli Stati Uniti.
      In più, c’è un consistente numero di ragazzi studiosi che, al tempo stesso, sono anche popolari tra i coetanei (la parola ‘secchione’ ancora non l’ho sentita pronunciare, il che mi pare bellissimo!).
      La compresenza lettore madrelingua e professore di cattedra è andata bene. Si sono alternati negli argomenti da trattare ma stavano sempre insieme in classe.
      Uno dei lettori, quello di matematica, è molto bravo. Altri meno bravi a spiegare, secondo mia figlia, forse perchè sono giovani e con poca esperienza. Madrelingua sono tutti, tanto è vero che alcuni quasi non parlano italiano. Solo una lettrice è in teoria bilingue ma – avendoci parlato – posso dire che il suo inglese è zeppo di errori, ma ha avuto poche ore in classe di mia figlia.
      Il carico di ore e di compiti è veramente pesante visto che molte materie hanno un doppio programma e certi giorni fanno lezione dalle 8 alle 4 (con due pause in cui smangiucchiano poco e male).
      In altre classi il bilancio è stato – a quanto so – più negativo, anche in termini di variazione di professori. La scuola ha avuto una crescita esponenziale e hanno reclutato tanto personale in più.
      Questo è quello che posso scrivere sinora. Se e quando avrò tempo vorrei mettermi a leggere i libri degli esami IGCSE almeno di materie che conosco per farmi una idea più approfondita e anche più generale (ossia, non legata alla singola scuola, che, quindi, possa essere utile ad altri genitori) ma sinora non ho avuto proprio tempo.
      Se poi mi chiedi a cosa servirà avere una maturità scientifica con qualche IGCSE e due A levels ancora non lo so. Temo possa essere un abbaglio. Nel nostro caso, tuttavia, avendo mia figlia studiato in passato geografia o scienze in inglese posso dire che questa è l’ideale continuazione della scuola sinora fatta.
      Detto ciò, sono sicura che un IB in scuole romane come il St. George’s o il St. Stephen’s sarebbe tutta un’altra musica ma, d’altro canto, quello che perdi di accademico lo guadagni nei rapporti umani: un pò di scuola pubblica per una ragazzina che è cresciuta nella scuola privata è una boccata d’ossigeno

  5. Ciao a Elisabetta e a tutti i frequentori del blog.
    Sono un’insegnante di scienze di un liceo romano e per l’appunto sono alle prese col CLIL. Cosa dire? Da una parte mi sembra apprezzabile l’iniziativa ministeriale volta al potenziamento dell’apprendimento dell’inglese a scuola, d’altra parte ci scontriamo con evidenti difficoltà di traduzione in atto della norma ministeriale.
    Le materie scientifiche e in particolare le scienze naturali, si prestano meglio di altre materie all’insegnamento in inglese ma quanti insegnanti di scienze sono in grado di farlo? Molto pochi, anche quelli più giovani escono da corso di laurea italiana avendo sostenuto un esamino di inglese di nessuna diffcoltà. Come già detto da Elisabetta, il ministero ha messo a disposizione fondi per la formazione degli insegnanti ma come si può pensare che un corsetto di inglese ma anche una certificazione linguistica possa colmare in poco tempo la carenza linguistica? La lingua non si studia con un corso, si apprende lentamente (almeno per gli adulti) e principalmnete atttraverso l’ascolto e la lettura. Il rischio che Il CLIL venga intepretato da insegnanti inadeguati è dunque molto alto.
    D’altra parte, la soluzione di farsi assistere da un cosiddetto esperto madrelingua non è esente da complicazioni, quale sarebbe in questo caso infatti il ruolo dell’insegnante titolare? Non è facile trovare una forma di collaborazione realmente costruttiva, e può accadere che il titolare si metta da parte lasciando gestire la lezione totalmente dall’ “esperto” che l’inglese lo sa ma la materia non sempre.
    La soluzione prospettata da Elisabetta, quella di avere tutti insegnanti bilingui, è senz’altro la migliore ma è molto lontana nel tempo. Sono bilingui due categorie di persone: quelli che hanno un genitore madrelingua (o bilingue a sua volta) e quelli che frequentano le scuole internazionali. Da questo pool ristretto verrebbero poi fuori insegnanti buoni per il CLIL. Quanti? Troppo pochi.
    Mi sembra invece di individuare una grossa pecca nel currciculum che porta nei licei gli insegnanti di inglese. Mi risulta che il corso di laurea in lingue non preveda il conseguimento di alcuna certificazione linguistica dei più famosi percorsi. Spesso escono dagli atenei insegnanti magari appassionati di letteratura ma con un inglese scolastico. Diventati insegnanti liceali, non vedono l’ora di lasciare l’insegnamento del biennio – che prevede il completamento della grammatica – per poter parlare delle emozioni di “Mrs Dalloway” o degli aspetti romantici di Keats.
    A mio parere bisognerebbe che dalla laurea in lingue si uscisse con un livello C2 e bisognerebbe estendere l’insegnamento dell’inglese a tutti e cinque gli anni di liceo con l’obiettivo di far uscire ragazzi competenti linguisticamente, capaci di leggere Virginia Woolf autonomamente nel corso della loro vita. I diplomati liceali che vogliano intraprendere la “carriera” dell’insegnamento nelle scuole, dovrebbero rafforzare la lingua durante il corso universitario che, per tutte le materie, dovrebbe mettere non al primo ma all’ultimo anno un esame d’inglese di livelllo alto.
    Alla fine di questo percorso approderebbero nei licei non proprio dei bilingui ma comunque insegnanti con un ottimo livello linguistico. E ciò ci basterebbe.
    Marina Pescarmona

  6. A quanto sopra, che condivido, perchè lapalissianamente non si può insegnare in una lingua che non si conosce, aggiungo un’osservazione. Quando si parla di certificazioni linguistiche, che gli insegnanti dovrebbero possedere, a me che sono un ingenuo viene scontato pensare che si tratti delle certificazioni ufficiali, Cambridge e simili per la lingua inglese. Vengo però a sapere che da un lato, come dice la prof. Marina, i laureati in lingue -per fare esempi a Venezia Ca Foscari e a Milano Statale- sono invece in possesso di “certificazioni di ateneo” non riconosciute fuori dall’ateneo in questione; dall’altro lato, sono stati attivati corsi, gestiti da non megio identificate cooperative, ONLUS e consimili, che conferiscono certificazioni made in Italy, ovvero riconosciute solo dal MIUR. Il tutto con buona pace del Quadro Comune di Riferimento Europeo: un ente italiano che conferisce una certificazione in lingua inglese, mi crea qualche perplessità di principio, come me la creerebbe un ente inglese che conferisse una certificazione in lingua italiana. Nella pratica, poi, temo che in questo modo i risultati concreti saranno molto modesti. La prof. Marina mi levi un’insana curiosità: in che lingua i docenti di inglese cui lei accenna parlano delle emozioni della buona signora Dalloway?

  7. Grazie Marina per il tuo interessante intervento che condivido pienamente. Purtroppo cresce in me sempre di più la convinzione che il liceo “Cambridge” sia, attualmente, un’operazione suggestiva ma poco realizzabile. L’attuale sistema scolastico non è pronto per dei limiti oggettivi che riguardano sia la preparazione degli studenti che lo affrontano spesso senza avere le basi linguistiche adeguate, sia – e direi soprattutto – per gli insegnanti, che si trovano improvvisamente di fronte a dover affrontare la sopravvenuta necessità di un “bilinguismo” ben difficile da raggiungere da adulti. Questo è il portato del mancato confronto del nostro sistema scolastico con quelli europei e con la globalizzazione, tanto per restare in tema e degli scarsi investimenti economici sul tema dell’istruzione pubblica. Condivido anche il fatto che chi si laurea in lingue, le lingue debba effettivamente padroneggiarle in maniera eccellente.

  8. Vorrei spendere una buona parola sull’insegnamento del curriculum CIE (scuole Cambridge) . Parlo quanto meno delle materie di mia competenza; la biologia e la chimica principalmente. Lasciando per un attimo da parte la questione della lingua, vorrei fare un breve confronto tra la didattica “all’italiana” e quella anglosassone, Materie come la mia sono catalogate storicamente come materie orali, che nella pratica significa che non c’è l’obbligo dello scritto. In verità, noi insegnanti con poche ore a classe, ricorriamo sempre a compiti scritti per arrivare alle scadenze delle pagelle e pagellini con un numero congruo di valutazioni. In ogni caso siamo chiamati a verficare la preparazione dei ragazzi anche e soprattutto oralemente, perchè, si dice, che in questo modo imparerebbero a parlare. Ora, non ci soffermiamo mai sufficientemente a pensare quanto sia ingiusto e poco efficace un sistema che si basa su un’unica figura che prima elabora le domande e poi giudica le risposte, Senza contare che questa figura è anche quella che fa lezione e conosce i ragazzi sotto aspetti che non sono solo della competenza della materia. Ora, nell’insegnare IGCSE Biology mi trovo ad avere con i miei alunni un rappporto diverso da quello tradizionale, ora mi trovo ad essere una sorta di “coach” che li prepara a un esame che mi vede coinvolta solo nella fase della preparazione. I test ci arrivano in busta chiusa da Cambridge e sono gli stessi per tutto il mondo Cambridge. Io, in quanto insegnante della materia in esame, non posso essere presente in aula mentre i ragazzi svolgono i test, Vengono inviati ispettori (e succede davvero) che controllano capillarmente la regolarità delle procedure. I supervisori in aula devono essere insegnanti vigili e non occupati in attività che non siano quelle della sorveglianza. Nelle varie tipologie di test non c’è mai una semplice e diretta domanda, ma piuttosto si richiede sempre un passaggio logico, più meno complicato, per raggiungere la soluzione, Anche se la mia esperienza nel settore è di soli due anni, mi sembra di poter dire che le difficoltà maggiori riscontrate dai ragazzi, non siano da cercare nel versante linguistico, quanto piuttosto nelle scarse capacità deduttive, nella diffcoltà di afferrare le analogie, e naturalmente nella non abitudine alla sintesi. A mio parere, per le mie materie il curriculum anglosassone prepara molto meglio i ragazzi non solo all’acquiszione di competenze specifiche ma anche di quellle generali richieste per esempio nei test di ingresso alle università per qualunque materia.

    1. Marina, tocchi due punti veramente interessanti: la validità del curriculum inglese (e la sua attualità) e il ruolo del docente del futuro quale mediatore del sapere e non più (anche) “controllore”, “verificatore” e “sanzionatore” della preparazione/impreparazione degli studenti. Chapeau!

  9. C’è un terzo punto: prove uguali per tutti, in busta chiusa. Senza “aiutini” e senza l’amico di mio cuggino che ce le dice prima… Food for thought, direi.

  10. Vorrei aggiungere due personali considerazioni.

    Lavorando ora nel mondo anglosassone ho verificato (nel senso che mi è proprio stato detto) che uno dei problemi del sistema scolastico anglosassone è la quasi assente formazione all’esposizione orale.Tanti test, più o meno complicati e completi,a domande aperte o chiuse etc. ma quasi mai “un’ interrogazione davanti ad un pubblico” (quand’anche il pubblico sia solo quello dei compagni e del solito unico insegnante).Risultato: professionisti preparati che poi fanno fare a te non native speaker, con grande piacere e tutto dove possono, presentazioni, telefonate, discorsi etc.E linee guida sull’importanza di “chiamare i clienti” (?!? evidentemente c’è bisogno di dirlo).

    Quindi attenzione ad abbandonare questo aspetto del sistema scolastico italiano (e l’esposizione orale a cui mi riferisco NON è il presentare alla classe con slides un progetto di gruppo elaborato prima a casa).

    Altro aspetto, le prove uguali x tutti.

    Non mi focalizzerei troppo su questo punto alle superiori (intendo,non trascurerei il resto pur di avere questo).Se in qualche modo si è preparati, quello verrà da sé.

    Ho fatto a 27 anni un esame che è unico in tutta Europa, 2000 candidati all’anno che negli stessi giorni, alle stesse ore, fanno le stesse prove sorvegliati da un gruppo di esaminatori che provengono da un’unica commissione di esame che NON si occupa della preparazione dei candidati, e sono, siamo (anche altri colleghi) andati molto meglio di tanti inglesi o tedeschi (da soli sono il 60% dei candidati, il restante 40% sono tutti gli altri europei) che pure sostengono le prove nella loro lingua madre (si può scegliere tra EN, DE o FR).

    Il problema è la preparazione e le competenze, non la forma degli esami.

    E una scuola italiana che abbandona la sua tradizione e una caratteristica importante come l’abitudine al sostenere un esame orale (competenza che poi viene ricercata e pagata proprio da quegli stessi inglesi di cui siamo sempre all’inseguimento) per importare qualche “pezzo” (perché non possiamo certo importare tout court l’intero sistema) di quel sistema anche/solo? per beneficiare di prove uguali x tutti, mi convince poco.

    1. Eppure la cultura che alla fine ha ereditato, conservato e perpetuato la tradizione classica della retorica è proprio quella anglosassone: tanto è vero che i licei italiani ora si affannano a lanciare dei progetti di “debating” in cui viene chiesto a gruppi di studenti di sostenere una tesi (o il suo contrario) portando argomentazioni ragionate e convincenti per sostenere il proprio punto…e che sono copiati proprio dalla scuola inglese e americana!
      Il problema, come sempre, credo, è che le esperienze personali contano relativamente poco, perchè non hanno rilievo statistico: è possibile che tu lavori con persone che hanno ricevuto una formazione inferiore alla media. Anche in Italia, è difficile paragonare lo studente di un diplomificio o uno che ha interrotto gli studi con uno studente della Normale di Pisa e, dalla conoscenza dell’uno o dell’altro, si potrebbero trarre conclusioni assai diverse su tutto il sistema di istruzione.
      Quanto alla questione degli esami qui sono in disaccordo totale. L’esame può essere orale o scritto ma quel che conta è che sia attendibile e standardizzata, per quanto possibile, la valutazione. Quella italiana non lo è (anche se la situazione è molto migliorata) ed il risultato è che un 100/100 all’Esame di Stato della scuola secondaria di secondo grado italiana non ti apre automaticamente le porte delle università come certi risultati del bac francese, degli A levels, degli SATs e degli AP americani e dell’IB, solo per citarne alcuni.
      Comunque fa una bella differenza se, ad un esame scritto, c’è possibilità di copiare o meno: come illustra M. Dei in “Ragazzi, si copia” c’è una correlazione tra la possibilità di ingannare un professore e la scarsa osservanza delle regole dell’italiano medio, che, alla lunga (e scusate se metto troppa carne al fuoco) crea quei fenomeni di sfiducia nello Stato, debolezza delle pubbliche istituzioni e mancanza di senso della collettività che sono tipiche della società italiana.
      Poi, certo, non è tutto da buttar via, come dimostra il fatto che esportiamo persone come te che si fanno valere in un contesto internazionale.

  11. Non intendevo difendere la brutta abitudine italiana di copiare, nè l’altrettanto grave lassismo di certi professori che lo permettono.

    E neppure avevo in mente due estremi così opposti come uno che ha interrotto gli studi e uno della Normale.

    Confrontavo solo due sistemi ipotizzando condizioni al contorno simili e “decorose”: studenti volenterosi, di intelligenza e capacità normali e nella media, corretti nei comportamenti, professori preparati e motivati.

    A parità di tutto questo, non vedo una grande necessità e/o utilità di fare, spot, qualche IGCSE o A level all’interno di una scuola superiore di struttura e organizzazione italiana che poi rilascia (se non ho capito male) comunque un titolo di Esame di Stato Italiano. Piuttosto, meglio una scuola interamente inglese, o americana, o internazionale? Almeno è, in sè, omogenea e organica.

    Lo studente medio, comunque, non otterrà gli ALTI risultati del bac francese, degli A levels, degli SATs o degli AP americani e dell’IB che aprono automaticamente le porte delle università, otterrà un punteggio più basso, e dovrà darsi da fare per entrare nell’università che desidera come tutti gli altri.

    Il diplomato con 100 italiano non entrerà neppure lui automaticamente nell’università, perché il 100 italiano non è considerato pari ad un alto punteggio degli altri esami standardizzati per i molti motivi che tutti sappiamo, e quindi, correrà come tutti. Non vedo il problema.

    Magari io ho solo dei figli normali, e quindi, non sono sufficientemente stimolata a cercare un sistema che gli permetta, comunque solo al top, di entrare automaticamente in un’università inglese o americana.

  12. La questione mi appassiona e dunque intervengo ancora. Certamente ha senso paragonare i due curricula, IGCSE e italiano, se non tocchiamo le variabili studenti e insegnanti. Immaginiamo dunque studenti medi con insegnanti coscienziosi alle prese con le scienze naturali all’inizio delle superiori in Italia e in Inghilterra. Da cinque anni insegno scienze anche al biennio del liceo Classico, bontà loro, a un certo punto è stato ritenuto importante spalmare l’insegnamento nei cinque anni e non più su tre, Non che le ore siano però aumentate di molto, nel vecchio quadro orario avevo infatti nove ore su tre anni (4+3+2) , nel nuovo ne ho dieci su cinque. Mi ritrovo dunque a insegnare in 10 classi. Già questo la dice lunga ma vado avanti,
    PROGRAMMI: nel biennio è previsto dare ai ragazzi un quadro non approfondito ma completo della biologia, della chimica e delle scienze della Terra. Nel curriculum anglosassone queste tre discipline meritano tre insegnamenti diversi e tre esami diversi. In Italia siamo costretti alla selezione degli argomenti (presi dagli enciclopedici manuali che le case editrici ci propongono) perdendo dunque la finalità di proporre un quadro completo.
    ESAME: la valenza didattica dell’esame è altissima. Costringe alla riepilogazione generale, evita la frammentarietà del sapere, è un obiettivo chiaro e oggettivo stimolante e responsabilzzante per alunni e insegnanti.
    LABORATORIO: nei programmi inglesi è praticamente obbligatorio. La pratica sperimentale è centrale nella scienza, la chimica del liceo viene paradossalmente percepita come una disciplina astratta quando si tratta dello studio proprio della materia. Basta mettere una provetta in mano ai ragazzi per far decollare l’interesse.
    VERIFICHE SCRITTE: riuscire a comprimere in poche righe una risposta costringe a capire la domanda (cosa niente affatto scontata), ad andare dritto all’obiettivo, sviluppando sintesi e rigore nel linguaggio. I ragazzi rendono meno nello scritto nella maggior parte dei casi perchè nell’orale l’insegnante inevitabilemente concede di più all’errore, non interrompe continuamente come dovrebbe fare, lascia parlare. Ma così non si impara.
    LINGUA INGLESE: lasciando da parte le competenze linguistiche dell’insegnante , la questione degli esperti esterni eccetera, studiare su un testo inglese è di per sé formativo. Ai ragazzi piace molto ampliare (enormemente) il loro lessico e indubbiamente i risultati ci sono. E poj ne dico un’altra: la difficoltà dello studio in una lingua che non è la propria, aiuta a essere efficaci, a trovare i percorsi mentali più brevi.
    Anche se una A o una B non si prendono così facilmente (almeno negli A Levels) e anche se non si ha l’accesso alle migliori università straniere, credo comunque che la conoscenza delle scienze naturali ci guadagni nel seguire il curriculum anglosassone e alla fine questo è l’obiettivo primario di noi insegnanti. La partita in corso è tutta da giocare, e io intanto mi sono fatta dare un’ora in più di insegnamento a settimana dal mio preside.

  13. Mi sembra, senz’ombra di ironia, un discorso pragmatico. Dalle mie parti si dice: “Piuttosto che niente, meglio il piuttosto”.

    1. Piuttosto che far tanto e male, meglio poco ma bene.

      Non vedo come sia possibile fare bene tutte queste cose (tutti i programmi italiani e un pezzo di quelli agnlossasoni o altro) dato il limite oggettivo del tempo (il tempo-scuola, il tempo-studio, il tempo libero).

      Ai miei tempi era tutto un fiorire di licei e scuole sperimentali; lo scientifico-informatico, il linguistico-scientifico, il classico-scientifico e lo scientifico-classico. Molta aria fritta e studenti con molte lacune in uscita.Mi sembra un approccio simile.

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