A che serve l’analisi logica? Se lo chiedono migliaia di studenti e cominciano a chiederlo anche tanti genitori, che pure la studiavano con profitto. A giudicare dai forum di discussione degli insegnanti, se lo chiedono persino gli addetti ai lavori. Forse è solo al MIUR che non se lo chiede nessuno, per timore di smantellare insegnamenti tradizionali e sostituirli con chissà che cosa.
A metà anno scolastico la mia secondogenita ha scagliato il libro di analisi logica all’altro angolo della stanza e ha urlato “bastaaaa!”. Nell’arrabbiarmi con lei per la reazione (e per i danni riportati al volumetto lanciato per aria), non potevo non constatare che il famigerato e vetusto “Tantucci”, il libro celeste e blu di analisi logica usato da almeno tre generazioni di studenti, era venuto a noia anche a me.
C’è il fatto, incontrovertibile, che, alla secondogenita, l’analisi logica non entra proprio in mente; la ragazza è brillante – dicono – ma ha una “memoria di lavoro” breve. Sarà questo il problema? O è forse il senso d’inutilità ingenerato dall’esercizio dell’analisi logica in sé?
Vorrei chiarire subito – qualora queste riflessioni fossero lette da qualche insegnante in un particolare momento di malumore – che non ho conti in sospeso con la materia. Se sono ignorante, insomma, è un’ignoranza di ritorno: molto ricordo e altrettanto ho dimenticato, ma io in analisi logica andavo bene. Avevo imparato la ritualità delle domande (A chi? A che cosa?, Di chi, di che cosa?), i complementi di base (complemento di specificazione, complemento oggetto etc…), quelli che consideravo bizzarre variazioni di complementi già noti (come il complemento di argomento o quello di unione), i relativi casi in latino (accusativo, genitivo, l’onnipresente ablativo e così via). In realtà ero brava – lo capisco solo ora – per tre motivi. In primo luogo ero il classico genere di studentessa che aveva facilità con le parole e tale abilità si estendeva a tutte le materie che utilizzassero, appunto, solo parole; in secondo luogo, ero aiutata da un’ottima memoria; infine, non mettevo in discussione mai nulla di quanto mi veniva insegnato a scuola. In breve, studiavo bovinamente e con profitto qualsiasi concetto che mi fosse presentato sotto forma di “cultura” e che non implicasse segni matematici, soluzione di problemi complessi o logiche quantitative.
Dunque, se ce l’ho con l’analisi logica (e anche con quella grammaticale) non è per qualche conto in sospeso che ho con la materia in sé ma per il fatto che, sempre più, mi pare un esercizio fine a se stesso.
Ora, non dico che non serva un minimo (ripetete con me: un minimo!!) di consapevolezza grammaticale…forse un po’ di riflessione sulla lingua è effettivamente utile. Sapere cosa è un verbo o un aggettivo può renderci più consapevoli di come usiamo la lingua (o le lingue) che parliamo. Ma studiare il “complemento di età” mi pare superfluo. Allora perché si insiste con tutta questa analisi logica? Alcuni affermano che serve genericamente per “esercitare la mente”. Sono le stesse argomentazioni che si sono utilizzate per generazioni sullo studio del latino!! Come materia che “forma la mente” (mentre è scientificamente provato che è un’altra la materia che insegna a ragionare).
Qualcuno entra più in dettaglio e afferma, meccanicamente, che aiuta a sviluppare il “ragionamento logico”. La pretesa è quanto mai peregrina. Copio da una discussione trovata su Internet il parere di un docente: “A dispetto di quel ‘logica’ di logico nell’analisi logica c’è poco. Pretende di analizzare elementi logico-sintattici con un approccio semantico. Con uno strumento del genere, si capirà sempre ben poco della struttura di una lingua e del modo in cui le parti del discorso si legano tra loro”.
Il peso dato alla materia, in realtà, deriva dall’esigenza di far poi digerire lo studio del latino ed, in particolare, di somministrare agli studenti quella particolare forma di sadismo che è la traduzione dall’italiano al latino. Del mio stesso avviso sono anche alcuni docenti. Copio da un forum di discussione quanto scrive un insegnante: “il punto è che l‘analisi logica nasce come attività propedeutica allo studio di lingue flessive (direi soprattutto del latino) ….. Per studiare queste lingue (tedesco compreso), però basta uno zoccolo duro: soggetto, predicato verbale e nominale e poco altro”.
Oggi non si fa più latino alle medie – almeno non è obbligatorio farlo – dunque, esauritasi la finalità pratica della versione dall’italiano al latino, l’analisi logica rimane un elenco meccanico di complementi. Se l’analisi logica serve solo alla traduzione dall’italiano al latino e se non è neanche logica perché la si insegna?
Il senso d’inutilità mi pare lo stesso anche per l’analisi grammaticale o la ripetizione dei verbi a memoria. Qual’è il trapassato prossimo del verbo “baciare”? Non lo so, ma immagino di saperlo usare, non sbagliavo i verbi neanche da bambina. Ormai, non faccio più differenze: forse è un mio limite ma mi pare che nella scuola italiana domini una sorta di accanimento grammaticale.
Abbiamo detto che l’analisi logica è stata utilizzata da una lunga serie di generazioni di insegnanti per una finalità eminentemente pratica: la versione dall’italiano al latino; ma ha ugualmente preteso di essere una descrizione esauriente della lingua italiana. Serve forse per scrivere meglio in italiano? In realtà tutti i linguisti concordano sul fatto che l’insegnamento della grammatica e dell’analisi logica non servono per migliorare la capacità di esprimersi o di usare correttamente la lingua.
Temo che la scuola italiana abbia con la lingua italiana lo stesso problema che ha con le lingue straniere. Prendiamo queste ultime. Generazioni di studenti italiani hanno studiato inglese e poi un po’ di francese o spagnolo a scuola. Imparano i rudimenti grammaticali della lingua, a dire e chiedere che ore sono, com’è il tempo, cosa è il genitivo sassone o il subjonctif in francese. Poi vanno all’estero e hanno bisogno dell’interprete! E questo perché non imparano con un metodo comunicativo, per immersione (come si fa per la madrelingua e si dovrebbe fare con le lingue straniere), ma con un insegnamento grammaticale – traduttivo, fine a se stesso.
Si è applicato quindi alla lingua viva quello che serve per lo studio della lingua morta.
E lo stesso vale anche per l’italiano. Chi di voi prima di parlare o prima di scrivere pensa a quello che vuole dire e verifica se sia corretto dal punto di vista dell’analisi logica (o grammaticale o del periodo)? A parlare e a scrivere bene non s’impara sapendo cosa è il complemento di argomento!
Non lo dico solo io. In una intervista al quotidiano La Repubblica, Luca Serianni, storico della lingua e autore di saggi sull’insegnamento dell’italiano nelle scuole (L’ora d’italiano e Leggere scrivere argomentare, entrambi pubblicati da Laterza), diceva: “si insiste troppo sulla teoria grammaticale, specie nella scuola media e nel biennio. Talvolta si sfiora l’ossessione su nozioni di analisi logica del tutto inutili: è davvero fondamentale distinguere il complemento di compagnia dal complemento d’unione? Bisognerebbe soffermarsi di più sulla componente semantica, permettendo in questo modo di affinare la padronanza lessicale. E poi scrivere bene implica leggere bene”.
Insomma, lo afferma anche un italianista: molte nozioni di analisi logica sono “del tutto inutili” e, certamente, non servono a scrivere bene. Per quello serve leggere. Ma il tema della lettura richiede un post a parte! Alla prossima settimana, dunque!
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Sono completamente d’accordo
Ricordo un brano di uno scrittore oggi dimenticato, Andrea Cavalli Dall’Ara, che nel gustoso romanzo per ragazzi “Lalla Lolli studentessa” rappresenta la secchiona Lalla che cerca di suggerire alla compagna Cecchina la soluzione del compito in classe di analisi logica, in cui si tratta di analizzare la frase “la volpe e la faina sono bestie dannose all’uomo”. E il risultato e’ il seguente.
La volpe : sorcetto;
e la faina: altro sorcetto;
sono bestie: predicato animale;
dannose: altro imbuto (mispelling di attributo);
all’uomo: termine, cioe’ fine del compito.
Gia’ qualche decennio or sono, Cavalli Dall’Ara, che era un docente, aveva capito che non era una cosa seria…
Io ne so poco. Il mio prof di italiano alle medie non ci ha mai fatto studiare l’analisi logica o la grammatica che considerava fasciste…..a me è pesato molto al ginnasio. Ma sono d’accordo che bisognerebbe focalizzarsi anche su altri aspetti. A me per esempio ha sempre affascinato la storia delle parole, l’etimologia. La trasformazione della lingua nel tempo.
Alla scuola primaria però vedo che danno molta importanza ad altri temi rispetto a quelli “in auge” quando ero piccola: la capacità di comprendere un testo, le parole più “difficili” e saperlo riassumere, rielaborare in maniera coerente e logica. In classe di mia figlia poi hanno formato una biblioteca e i bimbi leggono ogni due settimane un libro per poi riferirne il contenuto in classe. Queste cose io non le ho mai fatte.
In classe di mia figlia comunque la grammatica è piuttosto divertente. Il soggetto viene chiamato “protagonista”, il verbo “azione” (passata, presente o futura), gli articoli “aiutanti”. Così come le maiuscole vengono definite i “vestiti speciali “delle lettere. Insomma mi sembra un modo carino di insegnare. Non so se è un metodo che usano anche tutte le altre maestre.
Mi piace la tassonomia usata da queste insegnanti…ed è la prima volta che la sento.
Sono completamente d’accordo.
Però. Quando mio figlio era alle elementari, nel corso della riunione di classe sul finire dell’anno scolastico, volevo tirare fuori l’argomento e chiedere se era possibile concentrarsi di più sulla scrittura ergo sulla struttura del pensiero ecc.
I due genitori che hanno parlato prima di me lo hanno fatto per dire quanto erano contenti dell’analisi grammaticale e logica (pagine e pagine fin dai primi anni) che in questa classe si faceva. Che “finalmente” si mettevano le basi e che i ragazzi non erano angosciati dai temi. Tutti gli altri entusiasti.
A quel punto mi è venuto lo sconforto e non ho più detto niente. Il problema della scrittura creativa è rimasto, e le analisi ci hanno accompagnato per il resto degli anni.
Mi chiedevo e mi chiedo quali dinamiche prevalgano nell’educazione. Quelle dei docenti mi sono addirittura più chiare di quelle delle famiglie: spiegare come si formula un testo e correggere ogni volta 25-30 elaborati scritti è più impegnativo che spiegare le regole, che poi si trovano nei libri di grammatica, e dare gli esercizi. Non tutti gli insegnanti (ce ne sono anche di fantastici) ci mettono l’anima.
Mi rimane il dubbio delle famiglie che si accontentano, o non si preoccupano più di tanto, o dicono che così saranno avvantaggiati con il latino o non si accorgono che scrivere un testo decente è ormai un privilegio di pochi. Poi all’esame di terza media e di maturità i temi da svolgere non sono semplicissimi e le competenze testuali servono e come.
Totalmente d’accordo. Purtroppo faccio notare che di recente la scrittrice e già insegnante di lettere Paola Mastrocola ha elogiato l’analisi logica nel seguente articolo del Sole 24 Ore:
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-06-24/fine-complementi-163015.shtml?uuid=ADCefXf
Segnalo anche il seguente articolo di Gabriele Pallotti al riguardo:
http://www.giscel.it/sites/default/files/gruppi/emilia_romagna/2016/2016_07.Pallotti_RiflessioneLinguaPub-2.pdf
“…l’assegnazione di un fatto linguistico a una categoria o un’altra deve essere il prodotto di un ragionamento su somiglianze e differenze, che può anche portare alla conclusione che esso si trova al confine tra due o più categorie, e non la meccanica applicazione di uno schema, con l’implicito assunto che debba esistere una e una sola risposta giusta.
La tradizionale analisi logica porta questo atteggiamento a livelli parossistici: dovendo a tutti i costi segmentare una frase in soggetto, predicato e complementi, si sono inventati i complementi più stravaganti per dare a tutti i costi un nome a una parte della frase, mischiando sintassi e semantica, scienza e senso comune, logica e illogicità.
@ Provate a definire i complementi del verbo in queste frasi.
1. Marcello va a Roma
2. Guido è stato condannato a tre anni
3. La casa andò a fuoco
4. I ragazzi giocano a carte
Ora che avete classificato i complementi, cosa sapete più di prima? ‘A Roma’ indica chiaramente un luogo: che ci si vada lo dice il verbo, non il ‘complemento’ in sè (cfr abitare a Roma). Cosa c’è da spiegare e da capire? Vale la pena fare un esercizio per chiarire che, andando a Roma, si va in qualche posto, mentre, abitandovi, ci si sta? ‘A tre anni’ è una pena, una punizione: anche questo è scontato, cosa c’è di tecnico, di specialistico da insegnare?
Vi sarà venuto qualche dubbio sull’andare a fuoco […] Che complemento è a fuoco? L’atteggiamento meccanico degli studenti li porta a classificarlo come una forma di moto a luogo: c’è il verbo andare, la preposizione a, proprio come in andare a Roma. Ma dove mai può andare una casa? Allora il furore classificatorio che porta a salvare le categorie, invece di metterle in discussione, si inventa il moto a luogo figurato, che salva le illogicità dell’analisi logica. Figurato, cioè per modo di dire. Ma dove va una casa, sia pure per modo di dire? Pistone suggerisce ironicamente di coniare per questa espressione il complemento di incendio o, provocatoriamente, anche il complemento di sfiga (cfr andare a scatafascio, andare a rotoli, andare in malora). Fanno ridere? Ma allora provate a spiegare perché il complemento di pena (che si trova in tutti i manuali scolastici) è una cosa seria mentre il complemento di incendio (o di sfiga) sarebbe una boutade. E come classificare (giocare) a carte, che si allinea con a pallone, a nascondino, ai dadi? Complemento di gioco? E perché no? Ma anche questo non ci dice nulla che già non sappiamo: ‘a carte’ si gioca, ‘a Roma’ si va, muovendosi.
L’analisi logica istituisce un insieme di categorie pseudo-tecniche, dai nomi spesso poco trasparenti, per dire cose banalissime. In apro la porta con la chiave e vado al cinema con Gianni la chiave è uno strumento mentre Gianni è un compagno. C’è qualcosa su cui riflettere? A cosa serve un esercizio che faccia distinguere gli strumenti dagli amici?
Di questo si sono resi conto da tempo gli autori di manuali scolastici di tutto il mondo, dove la
terminologia grammaticale è ridotta all’essenziale. Solo in Italia permane un attaccamento immotivato a un apparato terminologico ingombrante e spesso anche datato e inadeguato. Se si sfoglia un manuale di lingua prodotto e pubblicato all’estero si vedrà che la terminologia metalinguistica usata è sostanzialmente quella proposta nelle sezioni precedenti, talvolta qualcosa di più, talvolta anche qualcosa di meno. Si dice che l’analisi logica serve per imparare il latino. Ma in tutto il mondo si insegna il latino senza avere mai fatto analisi logica: le semplici spiegazioni sulla semantica della frase illustrate in precedenza sono più che sufficienti. E lo stesso vale per il tedesco, una lingua con i casi per molti versi simile al latino: le persone che imparano il tedesco negli Stati Uniti, in Corea o in Cina non hanno dovuto fare un estenuante percorso nella loro lingua materna in cui si devono classificare i complementi di modo, di strumento, di peso e misura.”
Già a scuola peraltro mi ricordavo di queste imprecisioni e mancanze dell’analisi (il)logica: del tipo trovandosi in “Luigi si è innamorato di Marta”, “Carlo crede in Dio” o “L’Italia confina con la Svizzera” era in effetti ridicolo parlare di “complemento di innamoramento”, “complemento di credenza o fede” o “complemento di confine” e come già detto sopra da Pallotti, non serve neanche ad imparare il latino, si spera che in Italia prima o poi questa “cosiddetta analisi logica” vada nella soffitta in cui sono già andati la stenografia e il regolo calcolatore…
Ciao.
Posso fare una piccola critica? mentre l’analisi logica in sostanza e’ vuoto esercizio, la stenografia e il regolo sono qualcosa di diverso, ovvero strumenti ora superati per risolvere problemi tuttora esistenti, e quindi possono mantenere un interesse storico. A riprova, e’ uno stereotipo delle storie di avventura il personaggio nerd che davanti al guasto dei sistemi elettronici salva la situazione perche’ sa calcolare una rotta, o una traiettoria, col regolo manuale.
Potremmo dire che l’analisi logica sembrava un tempo (quando?) un buon strumento per risolvere il problema di capire come parlare e scrivere bene, in assenza all’epoca di strumenti alternativi più efficaci… Strumenti alternativi che oggi sicuramente ci sono, ad esempio la “grammatica valenziale” proposta da Francesco Sabatini nel seguente articolo:
http://www.unisannio.it/lincei/Materiale_Proietti/GrammItValenzialeSabatini.pdf
e nel seguente video:
https://www.youtube.com/watch?v=bqR1tfYHLxQ
insomma, i docenti italiani non hanno scuse, devono solo aggiornarsi e non fermarsi a ripetere ciò che in gioventù hanno imparato.
Ciao.
Con tutto il rispetto, la citazione di Paola Mastrocola non mi stupisce. E’ colei che gia’ in latinorum si chiamava “laudatrix temporis acti”, ovvero lodatrice del buon tempo passato. Da evitare!
Mastrocola è una persona colta, ha una prosa gradevole ma – purtroppo – si scrive principalmente addosso. Penso sia stata (sia? non so se insegna ancora, dato il successo letterario) una brava insegnante come sono alcune brave insegnanti tipicamente italiane: in classe la immagino colta ma sprezzante, una insegnante per pochi, insomma (o magari sbaglio, chissà).
Se difende l’analisi logica o il latino lo fa perché lei stessa si è formata sull’analisi logica e il latino, non sulla fisica dei quanti o sulla letteratura russa. La verità è che ognuno di noi difende le cose su cui si è formato, l’errore è pensare che queste siano l’unica vera cultura, la misura di tutte le cose, l’unico nutrimento per l’intelligenza umana.
Elisabetta
Gentile Elisabetta,
complimenti per questo tuo spazio che frequento da molto tempo, pur non avendo mai partecipato attivamente. Sono in parte d’accordo con te per quanto riguarda ciò che scrivi sull’analisi logica (come sul latino e altri argomenti simili). Tuttavia mi preme considerare che in generale ciò che conta non sono i contenuti e la metodologia in quanto tali, ma la preparazione culturale complessiva, il buon senso, la professionalità e la sensibilità di chi insegna. Purtroppo non ho studiato il greco (ho frequentato un liceo scientifico) ed ho avuto un cattivo insegnante di latino. Scrivo “purtroppo” perchè ritengo che una delle prerogative dell’adolescenza è quella di dedicarsi ad uno studio apparentemente inutile ma affascinante quale può essere quello delle lingue antiche. Certo, la statistica è affascinante e al contempo utile, lungi da me (che peraltro sono di formazione scientifica) sminuire il peso di certi insegnamenti. Lo studio della lingua parlata studiata in tutte le sue sfaccettature, così come quello delle lingue classiche porta con sé non solo dei contenuti, ma una visione dell’uomo che l’insegnante deve saper veicolare attraverso questi preziosi strumenti. L’istruzione deve trovare un compromesso tra quello che è utile allo studente per inserirsi nel mondo del lavoro e frequentare l’università e quello che è assolutamente indispensabile per formare una coscienza critica, civile, democratica, nonché una visione del bello in tutte le sue forme. Trovare questo equilibrio (che non deve escludere nulla, dall’importanza della lettura allo sviluppo della manualità per effettuare un esperimento) no è per niente semplice. Per questo ci sono gli esperti (che nelle scuole dell’International Baccalaureate abbondano). Il monte ore è limitato, il sapere è sconfinato. Sapere cosa può essere adatto a un ragazzo che si affaccia alla vita non è cosa da poco. In tal senso, anche l’analisi logica, se insegnata intelligentemente, può trovare il suo spazio.
Cordialmente,
TC
Cara Teresa C.,
in attesa che risponda Elisabetta, per quanto riguarda l’analisi logica rimando al testo di Pallotti che ho citato sopra come critica alla proposta attuale (e che peraltro confuta l’idea che l’analisi logica serva a studiare meglio le lingue classiche) e come alternativa ho già citato la proposta di Sabatini.
Per il resto del tuo discorso ti dico che secondo me è in realtà scorretto ritenere a priori che esistano materie “utili” e materie “inutili”. Questa divisione venne fatta nel secolo scorso dai filosofi idealisti Gentile e Croce che ritenevano che lo spirito umano svela sé stesso nella storia attraverso materie umanistiche come letteratura, arte e filosofia mentre le scienze naturali erano viste come “ricette di cucina” che nulla hanno a che fare con la conoscenza della verità e del bene ma che potevano servire solo ai manovali nei loro faticosi lavori.
Questa visione viene da una interpretazione molto parziale di Aristotele, il quale diceva ben altro (e che ritengo molto più condivisibile): che l’attività più di valore nell’uomo è la “theoria”, cioè esercitare un’azione per il puro piacere mentale di farla, non però soltanto leggere romanzi o riflettere sul bene seduti “in poltrona” ma anche attività “pratiche” come studiare come le onde gravitazionali, viaggiare per conoscere nuovi luoghi, oppure stare con amici e coltivare amori duraturi, tutte attività non finalizzate ad altre attività (come ad esempio un falegname che costruisce una sedia non per il piacere di costruirla ma allo scopo che poi la si usi per sederci) ma fini a se stesse, si viaggia per il piacere che procura il viaggiare, si ama per il piacere che procura l’amare.
Usando quest’ultimo punto di vista scopriamo dunque che la divisione “materie utili che formano lavoratori specialisti” e “materie inutili che formano uomini consapevoli” è di fatto errata. Una stessa materia può essere vista sia nel primo modo che nel secondo. Newton non ha certo studiato i moti dei corpi allo scopo di far lanciare razzi né Maxwell ha studiato i fenomeni elettromagnetici per inventare nuove tasse e anche una materia spesso definita “utile” come l’ “economia” in realtà può essere vista non come un mezzo per accumulare vile denaro ma come uno studio disinteressato di certe attività che compiono gli esseri umani allo stesso modo con cui un naturalista studia le attività delle formiche.
Tornando a noi: abbiamo dunque ormai capito che lo studio delle lingue è una materia da trattare come tutte le altre, le materie scientifiche servono a come comprendere la natura e interagire con essa, le materie umanistiche servono a come comprendere gli esseri umani e a interagire con essi (saper comunicare in via orale o scritta, trasmettere emozioni con poesie, romanzi e film, capire attraverso le fonti cosa davvero accadde in quella battaglia del passato, dialogare per risolvere problemi bioetici o politici…). L’importante dunque è che queste materie vengano insegnate per questi motivi e non per (come a volte si sente dire per le lingue classiche) perché “questi argomenti sono le basi e le radici della nostra cultura e inoltre fanno ragionare”. Ormai in una società in cui culture diverse sono sempre più a contatto una scuola incentrata su materie che danno valore a una certa “identità” è perlomeno anacronistico (per non parlare dei tristi eventi del secolo scorso in cui queste “identità” del locale e del passato venivano messe sopra ogni cosa). Ora peraltro vado leggermi un’antologia del poeta più letto negli Stati Uniti, il persiano Gialal Al-Din Rumi vissuto nel XIII secolo, anche se non lo leggo in originale persiano i suoi versi secondo me formano davvero “uomini consapevoli” e mostrano una “visione del bello” che pochi altri sanno dare.
Ciao.
Gentile Michele,
la dicitura “utile” si presta in effetti a vari fraintendimenti. Parlo di utile nel senso di specialistico e di applicazione immediata; certamente l’utile non esclude una sorta di “allenamento” a riconoscere il bello. All’interno della stessa disciplina ciò che è preposto all’utile e ciò che mira alla formazione del gusto possono benissimo coesistere. La chimica pura, una volta padroneggiata, può dare un piacere fine a se stesso; lo stesso vale per la chimica agraria, ma qui siamo in un ambito di nicchia. Se proprio si deve fare una scelta, meglio studiare chimica pura; la chimica agraria verrà di conseguenza, quando mi servirà sapere qualcosa in più relativamente a quel determinato ambito. La chimica pura è bella e al contempo utile perchè permetterà – all’occorrenza – di padroneggiare la chimica agraria. Come vede non si tratta neanche di contrapporre le materie scientifiche a quelle umanistiche. Sono sostanzialmente d’accordo con quanto lei dice, ma al contempo non sono del parere che si debba tagliare con l’accetta escludendo del tutto un insegnamento. Si tratta piuttosto di trasformarlo, renderlo moderno, ridimensionarlo se necessario.
Chiedo scusa all’ottima Teresa, ma non vedo come si possa sviluppare una coscienza civile e democratica, o una visione del bello, attraverso lo studio del greco e del latino cosi’ come li ha sempre intesi la scuola italiana, ovvero con un approccio meramente traduttivo- grammaticale, nel quale si somministra la “versione” non per quello che ci vuol dire l’autore, ma solo perche’ contiene qualche forma verbale inusuale.
@Francesco Spisani
Ho fornito a Michele Dr una risposta che credo possa essere valida anche nel suo caso. Certamente no, il mero approccio traduttivo-grammaticale è sterile se non inserito in un quadro di vasto respiro. Io ho avuto esperienza di entrambi gli approccI: quello che mira alla semplice traduzione (tra l’altro il pessimo prof., quello del triennio – non sapeva fare neanche quella…) e quello che considera il brano a tutto tondo, scegliendolo anzitutto per i valori che comunica e di cui la lingua si fa veicolo. Purtroppo per un solo anno del liceo – il secondo – ho avuto un insegnante all’altezza del secondo approccio. Da quindicenne mi ero appassionata al latino, ma cambiato il docente è cambiato anche il mio atteggiamento nei confronti di questa lingua. Più tardi ho capito di avere perso una opportunità. Se ne perdono tante, di opportunità: quella di studiare il tedesco, quella di approfondire la statistica, quella di saper suonare uno strumento… Occorre fare delle scelte valutando le proprie predisposizioni e interessi. Inoltre le materie devono essere presentate al meglio, spogliate degli orpelli e pronte per destare l’interesse di una mente giovane. Purtroppo l’insegnamento è anche arte, e nessuna fredda indicazione metodologica potrà mai sostituire l’insieme di passione, cultura e voglia di comunicare di un bravo docente. I docenti che si rifiutano di applicare l’approccio puramente grammaticale ci sono, ci sono sempre stati e ci saranno; il problema è che sono pochi. I restanti spesso sono docenti che hanno scambiato l’insegnamento per un lavoro impiegatizio.
PS:
segnalo questo post, che accosta il greco al tedesco:
https://paolomazzocchini.wordpress.com/2016/07/12/linvidia-del-greco-e-del-tedesco/
Teresa, tu dici “non sono del parere che si debba tagliare con l’accetta escludendo del tutto un insegnamento”, io ritengo comunque si potrebbero aggiungere almeno una decina di materie che sicuramente al pari delle lingue classiche “formano cittadini consapevoli” : economia, psicologia, musica, diritto, informatica, disegno artistico, sociologia, scrittura creativa, cinema… Cosa facciamo per tutte queste altre materie? E per favore, non diciamo stupide motivazioni sul privilegiare le lingue classiche come “perché per secoli si è studiato sui testi greci e latini” oppure “perché i testi greci e latini compaiono in ogni aspetto della cultura umana” perché con le stesse motivazioni potremmo difendere lo studio obbligatorio a scuola dell’astrologia (studiata per secoli e presente molto nella Divina Commedia e in tante opere d’arte) o della calligrafia (che perlomeno ha valore artistico anche nell’epoca informatica)…
Purtroppo la quantità non fa rima con la qualità: si deve scegliere perchè il tempo scuola è limitato e nella scelta delle materie credo sia assolutamente miope trascurare la tradizione culturale di un paese (non certa intesa in modo passatista). A questo proposito cito un altro post (dello stesso blog citato prima) che a suo tempo ho commentato, nel quale si parla soprattutto di questo aspetto:
https://paolomazzocchini.wordpress.com/2015/02/18/perche-salvare-il-liceo-classico/
Il problema della scelta si pone sempre, anche all’interno dei corsi di laurea. Ricordo che quando frequentavo l’università (corso di laurea in chimica), su trenta corsi annuali otto erano a scelta dello studente. Chiesi consiglio al tutor che mi era stato assegnato, un professore di grande esperienza che non aveva alcun interesse ad aumentare il numero di coloro che seguivano un particolare corso. Ero indecisa tra elettrochimica e chimica farmaceutica; il tutor mi fece notare che quest’ultima era presentata (per varie ragioni in gran parte indipendenti dalla valida ricercatrice che ne erogava l’insegnamento) in un modo tale che in futuro avrei potuto facilmente recuperare i contenuti del corso qualora ne avessi avvertito la necessità. Invece recuperare i contenuti di elettrochimica sarebbe stato molto più impegnativo, senza contare che la maggior parte delle ricerche in chimica richiede di padroneggiare, in un modo o nell’altro, questo particolare settore di studi. Sulla base di queste considerazioni scartai il corso di chimica farmaceutica senza mai pentirmene. Non sto affermando che la chimica farmaceutica sia meno importante in assoluto, ma che nella mia particolare situazione lo era.
A mio parere ragionamenti di questo tipo devono essere condotti nello strutturare il curricolo di un determinato tipo di scuola secondaria, che non può prescindere, nell’indicazione generale di contenuti e metodi dai seguenti fattori:
– gli studenti con i quali un insegnante deve confrontarsi;
– la tradizione culturale di un paese (mi permetto di dire che una scuola che non tenga conto di questa tradizione è una non-scuola);
– il tempo in cui viviamo.
Questi tre fattori dovrebbero essere presenti nell’opportuno equilibrio in ogni concorso a cattedra che si rispetti, Purtroppo, ahimè, la passione di un docente, la sua voglia di comunicare, la sua sensibilità umana non sono misurabili, e al contempo sono tra i fattori più importanti per la buona riuscita di un processo di insegnamento-apprendimento.
Ritornando al curricolo… Lei cita materie come la sociologia. La domanda che un esperto di didattica dovrebbe porsi è: per studiare con profitto la sociologia quali sono i requisiti di partenza che uno studente dovrebbe possedere? Dovrebbe conoscere la filosofia? Se si, inseriamo sia la filosofia che la sociologia nel piano di studi? Va bene, inseriamole entrambe. Quante ore sono necessarie perchè lo studio di queste materie non sia annacquato? Supponiamo servano, nell’intero arco del ciclo di studi,MINIMO X ore di filosofia e Y di sociologia. Purtroppo il monte ore totale di insegnamento è limitato per un insieme di ragioni (non ultima il fatto che uno studente non può passare tutto il suo tempo sui libri…), per cui occorre diminuire il tempo dedicato a una o entrambe le materie. A questo punto si deve considerare che andare sotto la soglia minima non consentirebbe uno studio significativo, per cui si decide di scludere una materia dal curricolo, magari optando per la filosofia, e considerando che, con delle buone basi di filosofia lo studente farà molta meno fatica nello studio della sociologia a livello avanzato (nel caso volesse dedicarvisi in futuro) che non se avesse trascurato l’ambito filosofico negli anni delle superiori.
PS: non si focalizzi sulla scelta tra filosofia e sociologia e sui rapporti che intercorrono tra queste discipline. Qualcuno potrebbe obiettare che Popper era un sociologo, ma ….si deve considerare lo studente medio, e le difficoltà che , in media, gli studenti potrebbero incontrare con lo strutturare il piano di studi in un dato modo. Il mio intento è semplicemente quello di dare una vaga idea del -per nulla semplice- processo che sta alla base della definizione di un curricolo scolastico.
Teresa, tu dici “nella scelta delle materie credo sia assolutamente miope trascurare la tradizione culturale di un paese (non certa intesa in modo passatista)”. Ecco, in un blog che si chiama “educazione globale” occorrerebbe chiedersi proprio questo: davvero la cultura può “appartenere a qualcuno” come se fosse un oggetto concreto, da noi posseduto e quindi da difendere da “contaminazioni” degli “altri”? Uno può dire “questa matita è mia” oppure “questa casa è nostra”, ma come si fa a tracciare un confine tra una cultura e l’altra? I Greci non hanno tratto il loro alfabeto dai fenici e le loro conoscenze astronomiche dai babilonesi? Dato che la cultura è qualcosa di astratto (conoscenze, capacità, invenzioni) tutti possono imparare conoscenze e svilupparle, quindi dobbiamo per forza concludere che la cultura appartiene sempre e inevitabilmente a tutti.
Penso poi sia quasi non necessario aggiungere che quello che noi chiamiamo “tradizione culturale” (mi riferisco in particolare a quella italiana) non è affatto l’insieme della cultura che è stata prodotta nel passato da una certa comunità detta “nazione” (concetto in realtà inventato nell’800 e servito ai governanti per costruire gli stati nazionali, Dante non hai mai pensato di appartenere a un “popolo italiano” e si definiva al massimo un fiorentino, un cristiano o un suddito del Sacro Romano Impero) ma una sua selezione fatta a posteriori non in base a criteri scientifici di valore letterario o artistico ma in base a criteri ideologici di appartenenza linguistica, religiosa o di classe sociale… Per questo ad esempio anche nei manuali attuali di letteratura italiana quasi mai si trovano i versi del poeta siciliano Ibn Hamdis né tantomeno il testo giullaresco del XII secolo del “Lamento della sposa padovana”. I risultati di questa concezione “identitaria” della cultura che traccia confini tra “noi” e gli “altri” penso si possano dedurre facilmente da cosa è stato l’intero secolo scorso e anche dalla stretta attualità.
Un breve commento all’articolo da te citato prima: oltre ad essere soggetto alle obiezioni che ho appena detto, penso che si possa criticare anche facendo notare che 1) è falso che per comprendere totalmente un argomento si debba prima conoscere tutta la sua storia passata e le sue origini: per imparare l’alfabeto italiano non è necessario prima conoscere quello fenicio né per imparare a suonare il pianoforte è necessario conoscere il dulcimer medievale 2) è falso ritenere che se in Italia le lingue classiche fossero studiate in modo approfondito solo da pochi specialisti, così come viene fatto in tutto il mondo con il russo e il cinese, allora in Italia il patrimonio della cultura classica subirebbe un grosso declino: se si apre un testo non italiano di letteratura classica scopriamo che citano dei testi classici sempre edizioni critiche di editori come la Teubneriana, la Belles Lettres o la Oxoniense (ovvero di paesi dove le lingue classiche nelle scuole preuniversitarie sono studiate solo in modo facoltativo da pochi studenti molto interessati adesse), praticamente mai le edizioni critiche della editrice italiana Lorenzo Valla.
Sulla tua osservazione sul bisogno per chi studia la sociologia di conoscere la filosofia: sì, occorrerebbe conoscere alcuni concetti filosofici per studiare la sociologia ma questo non vuol dire affatto che bisogna aggiungere una materia apposita di filosofia dove parlare delle scuole socratiche minori, dei periodi della scolastica o del neoplatonismo rinascimentale. Basta aggiungere nella materia di sociologia alcuni temi di filosofia della scienza come quelli del positivismo o dell’operazionismo che sono rilevanti nella metodologia delle scienze sociali. Peraltro mi risulta anche che materie legate alla società come diritto ed economia sono presenti nel biennio di varie scuole senza che ci sia un insegnamento a se stante di filosofia in quegli anni.
Ciao.
Prevedevo critiche sulle mie considerazioni relative alla tradizione culturale. Io insisto nell’affermare che occorrono dei punti di riferimento saldi nello strutturare un curricolo scolastico, e che questi non possano e non debbano prescindere dall’ambiente in cui siamo immersi. Ritengo che in Italia si debba prioritariamente studiare la storia d’Italia, in Francia la storia della Francia ecc… ma non solo: la storia del proprio paese deve essere un punto di partenza per lo studio della storia del resto del mondo, che ovviamente non potrà essere studiata in toto per motivi di tempo, ma sicuramente gli strumenti per allargare la propria visione culturale ad altri popoli e alle loro tradizioni culturali devono essere forniti.
Non escludo del tutto certi insegnamenti come la sociologia e l’economia, perchè gli indirizzi di studio esistono per questo. Ma all’interno di ciascun indirizzo deve essere presente un nucleo di conoscenze irrinunciabili strutturate in modo da rispettare le capacità degli studenti e il tempo a loro disposizione, la realtà in cui sono immersi (che nel nostro caso è quella italiana) e il tempo che vivono (fatto anche di commistioni con altre culture, della sempre maggiore presenza di uomini e donne provenienti da paesi lontani geograficamente e culturalmente dal nostro, di tecnologie utili ma anche invasive e distraenti).
Un esempio è la storia; io non concepisco istruzione senza lo studio della storia del proprio paese. La storia d’Italia non è semplicemente la storia d’Italia: è soprattutto la storia dei rapporti con l’Italia col resto del mondo. Insomma, un punto di vista, un punto di partenza, una prospettiva particolare, un quadro di riferimento che dir si voglia deve esserci. Altrimenti i nostri ragazzi conosceranno tutto e niente.
Mi sembra che tu trascuri l’importante ruolo dell’insegnante; io non solo condivido molto di ciò che dici, ma credo che quello che tu vorresti è già da tempo realizzato da molti docenti, cosa a cui forse tu non credi. In Italia esiste la cosidetta “libertà di insegnamento”, spesso un pretesto per giustificare il fatto che alcuni docenti, una volta chiusa la porta dell’aula, fanno delle non-lezioni. Ma la libertà di insegnamento non è questo: è una grande garanzia di libertà del docente e, di riflesso, dell’allievo. La mia antologia della scuola media di metà anni ’80 (ancora ricordo il titolo: “Nuovi traguardi”) ovviamente comprendeva in maggior misura autori italiani, che la mia brava prof di lettere ha presentato riservando loro una gran parte del monte ore, con un occhio particolare per Foscolo e Leopardi (una volta la settimana si leggevano invece autori più recenti in classe, con una lettura commentata). Ma in quel periodo mi sono accostata anche a Simone de Beauvoir tramite i suoi brani di “Memorie di una ragazza per bene”, e ho conosciuto Nazim Hikmet perchè la prof ci ha fatto analizzare alcune sue poesie.
Durante il biennio del liceo il mio prof di lettere, che odiava Manzoni, ha quasi totamente trascurato la lettura de “I Promessi Sposi”, e mi ha spalancato il mondo della letteratura sudamericana, soprattutto tramite Garcia Marquez. Io adoro Garcia Marquez e ancora oggi non sopporto Manzoni; tuttavia credo che lo studio approfondito de I Promessi Sposi sia stata una delle tante occasioni perdute di conoscenza della mia lingua, qualcosa che, se non fai al liceo, difficilmente fai nel resto della vita (mentre è più probabile leggere Garcia Marquez ad ogni età).
Ad ogni modo, ogni prof mi ha dato e mi ha tolto qualcosa a seconda della sua preparazione e dei suoi interessi. E sto parlando di oltre vent’anni fa. Quando un docente ha studiato in una ottima università e vuole seriamente insegnare, certo non permette che la tradizione del proprio paese diventi una gabbia. Ma una metaforica gabbia deve pur esserci, altrimenti come conoscere i confini da superare? Il bravo docente è quello che ti fa conoscere la tua gabbia, ma sa anche farti uscire da essa senza perdere l’orientamento.
PS: un discorso a parte meritano le case editrici, che pur di assicurarsi un certo volume di vendite non dedicano neanche la decima parte di un manuale ad argomenti che non si allineino pedissequamente alle indicazioni ministeriali. Ed ogni insegnante sa quanto, soprattutto in certe scuole, sia difficile far studiare i ragazzi su materiali extra, anche usando internet. Molti studenti aprono poco e di malavoglia i libri, e quando lo fanno non hanno molte occasioni di essere attratti da qualcosa di meno convenzionale. Gli autori dei manuali sono insegnanti, ma alla fine le regole sono dettate dall’editore. Per questo e altri motivi molti insegnanti, dopo la prima esperienza, si rifiutano di scrivere altri testi.
Voglio complimentarmi con Teresa per i bei post (che condivido), scritti meravigliosamente bene. Complimenti!
Grazie Lavinia, i complimenti fanno sempre piacere.
Più che altro, la domanda che leggendo questo articolo mi viene spontanea è: ma se l’analisi logica è soprattutto (ma non solo) propedeutica al latino … perchè si studia anche in scuole superiori che il latino non lo prevedono?
Io in questo momento ho in mano la grammatica di mio fratello che frequenta un istituto tecnico professionale e non è poi così dissimile da quella che avevo (e ho ancora) al liceo classico (edizione destinata al classico per di più del tutto identica a quella dell’istituto di economia aziendale della mia città … che non prevede lingue classiche ovviamente)
Mai possibile che i nostri cari editori (o ministeri che per loro decidono) pur di coprire questa decisamente malposta predilezione per il latino cerchino di appioppare l’analisi logica a tutti pur di rendere gradita la scelta ad alcuni?
Sul serio: che diavolo ci fa mio fratello con l’analisi logica in un istituto tecnico tra materie propedeutiche all’ingegneria e all’informatica da un lato e matematica dall’altro? E’ solo una faccenda di “marchette” agli autori come si dice da tempo immemore, fin da quando andavo a scuola io, oppure c’è dell’altro?
Lo chiedo a voi perchè sinceramente non capisco.
Penso che sia perché il latino è da sempre considerato più che una lingua quasi un valore nella istruzione italiana, come ho scritto qui
https://www.educazioneglobale.com/2013/07/serve-ancora-il-latino-prima-puntata/
Dunque l’analisi logica è, alla fine, una sorta di pre-latino che tutti devono digerire, anche coloro che non faranno latino.
Questa la mia serena analisi…
Qui verrebbe bene quel detto attribuito a Gustav Mahler: “Tradizione e’ conservare il fuoco, non adorare la cenere”.
Avevo letto l’articolo da lei citato, Signora, e compreso le argomentazioni da lei riportate (ho anche commentato nella seconda parte) ma mi rimane comunque il dubbio.
Comprendo il bisogno di insegnare l’analisi logica PRIMA dell’eventuale scelta di un liceo (non si sa mai) ma ciò che mi coglie completamente alla sprovvista è che la si perpetui in scuole superiori che con questi valori di altezza culturale non hanno niente a che vedere.
Sinceramente penso che, dietro, oltre al semplice pregiudizio culturale ci sia banalissima incompetenza nella stilatura dei programmi. Per dire: qualcuno mette l’analisi logica perchè lui l’ha fatta ma neanche il suddetto sa perchè ha imparato questo tipo di studio.
Una specie di ereditarietà del pregiudizio che non ha più niente a che vedere con la cultura ma con l’incancrenimento di una … corbelleria. Francesco cita Mahler ma forse la risposta è più terra terra.
“Qualcuno mi ha detto di farlo e io ‘rivomito’ solo quello che mi è stato detto, ‘cenere’ non so neanche che cosa vuol dire” … qualcosa del genere.
Sono completamente d’accordo: siamo ancora troppo succubi del latino mentre l’italiano viene considerato lingua figlia di un dio minore.
Per quanto fosse e rimanga uno straordinario letterato, Leopardi sbagliava completamente valutazione quando definiva perfetti la letteratura classica (e il latino per estensione) e quanto più vicina alla perfezione quella italiana (e per estensione la lingua italiana). Forse non sarete d’accordo ma ho sempre trovato il suo giudizio, che fortunatamente non ha niente a che vedere con le sue qualità artistiche e letterarie, tanto arroganti quanto degeneranti per la cultura italiana.
Oggi questo pregiudizio presuntuoso permane con sciocchezze create in maniera artificiosa come l’analisi logica (per di più strutturata e insegnata male, come l’articolo giustamente sostiene), ma finisce per influenzare cose molto più importanti per quanto riguarda il saper leggere e scrivere: la sintassi del periodo.
Non pretendo di avere una conoscenza perfetta delle grammatiche italiane ma quelle che ho consultato nella Sintassi del Periodo distinguono ancora le proposizioni principali con il metodo latino ovvero ignorando del tutto le principali formate con il condizionale (il periodo è Periodo Ipotetico, la protasi è Subordinata Condizionale e l’apodosi principale è … chissà. Ci sono principali dubitative anche senza interrogazione diretta. Soprattutto derivate dal metodo scientifico, esistono principali in cui il dubbio è sinonimo di prudenza o cautezza non tanto nel “fare” ma nel “pensare”: “Potresti avere ragione, sebbene …” e ci sono anche altre costruzioni moderne del tutto ignorate), anche se va ammesso che le subordinate vengono ordinate già molto meglio.
Per quanto riguarda l’analisi grammaticale penso che sia utile per vie traverse a impratichirsi nella lingua soprattutto da piccoli, ma che anch’essa sia vittima del latino e per questo “fatta male”. Per fare solo un esempio, in questo tipo di analisi c’è un caos non indifferente nelle locuzioni di varia natura quando servirebbe solo mettere un pò d’ordine come per gli avverbi (Qualità, Modo o Qualità, Luogo, Tempo, Valutazione, Esclamazione e Interrogazione. Non serve molto altro), una distinzione che andrebbe bene anche per i complementi nell’analisi Logica … ma figurati se!
Ci vuole un drastico cambiamento culturale iniziando con l’ammissione dell’unica vera verità che non io ma la prefazione della mia grammatica di latino (Lexis di Diotti) fa senza mezzi termini: il latino è un’abilità ricettiva, NON PRODUTTIVA … e per di più la riceviamo anche male!
Se spostassimo le migliaia di professori di latino a fare scuole serali di sintassi del periodo per chiunque lo chieda miglioreremmo solo il paese e, per assurdo, lo studio del latino stesso.