Penso che ogni genitore ha nella sua memoria (o trascritti su un qualche quadernino) un elenco delle frasi celebri e buffe del proprio figlio. A ben vedere, le frasi dei più piccoli possono essere buffe per due diversi motivi.
In primo luogo, perché contengono trovate di tipo lessicale o sintattico. E’ noto che i bambini applicano alla perfezione regole grammaticali ricorrenti anche quando non servono, come quando regolarizzano verbi irregolari. Si sa, inoltre, che i più piccoli inventano spesso nuovi lemmi o che storpiano e associano lemmi diversi quando manca loro la parola giusta. In questo senso, i bambini sono straordinariamente creativi (magari potessimo esserlo noi usando una seconda, terza o quarta lingua appresa da adulti…).
“Mammaaaa! Mi sono sputata di rutto tutta la barba!”, urlò una delle mie figlie, all’epoca poco più che duenne, quando ebbe mal di stomaco per la prima volta. Frase perfettamente logica, se si considera che non conosceva il verbo “vomitare” (o il più elegante “dare di stomaco”) e che ignorava come si chiamasse la prominenza finale del volto.
“Mamma! Mia sorella mi sta rompendo tutte le coscioline!” strepitò alla stessa età l’altra figlia, quando la maggiore (quella della barba..) le si sedette addosso. Espressione, anch’essa, logica: quando parliamo con i bambini, infatti, noi adulti decliniamo termini di uso quotidiano (piedi, mano, denti, gonna) in diminutivi e vezzeggiativi (piedini, manina, dentini, gonnellina..), dunque perché non “coscioline”?
Negli anni il nostro lessico famigliare – al pari di quello di Natalia Ginzburg – è pieno di parole inventate anni fa dalle ragazze. Usiamo termini come “spingillino” per passeggino (e l’etimologia di spingillino somiglia stranamente a quella dell’analogo francese poussette, da pousser = spingere) o “ci-ui-galo” (ossia kiwi giallo, uno dei pochi frutti che piaceva ad una delle figlie da piccola).
In secondo luogo, le frasi dei bambini sono spesso straordinarie sotto il profilo concettuale. I bambini fanno affermazioni peculiari. In fondo sono come extraterrestri: il nostro mondo, ai loro occhi, è pieno di possibilità, tutto può essere connesso con tutto.
Così il terzogenito ha chiesto al papà, non molto tempo fa, come mai non si trovava in certe foto di famiglia di alcuni anni prima.
“Ma papà, perché qui non c’ero? Non mi avevate ancora comprato?” ha detto preoccupato (altro che cicogne e cavoli, in una moderna economia di mercato i bambini si acquistano, no?).
Ma forse l’apice di creatività concettuale dei bambini emerge quando questi si pongono le grandi domande della vita. Perché sono nato? Perché e come diventerò grande? Cosa vuol dire ieri e domani? Cosa sarò quando cresco? Dove si va quando si muore? Dove va il sole di notte?
Così, non molto tempo fa, ho avuto una conversazione delirante con il terzogenito mentre lo accompagnavo a scuola, conversazione che ho deciso di trascrivere per intero: lo merita. Il terzogenito ha 4 anni e 9 mesi. Parliamo inglese (qui spiego perché), dunque questa conversazione è in inglese, ma non credo sia troppo difficile capirla.
Tutto è partito dalla classica domanda che i figli fanno ai genitori e che è molto ben riassunta dalla famosa canzone “Que sera, sera” (ascoltatela qui nella incantevole versione di Doris Day…).
– Mommy, when I grow up what am I going to be?
– You are going to be a man, of course, for you are a boy now.
– Ahhhhh (ci ha pensato un po’) I got it! So I can be your daddy and you can be the child!
Mi veniva da ridere e da commuovermi mentre camminavamo verso la scuola, ma ho dovuto spiegargli, con la massima serietà, che lui sarebbe diventato un uomo ma io, purtroppo per me, non avrei potuto tornare bambina.
– No my love, when you’ll be a man I’ll be old.
– Old…you mean dead? (mi ha detto sorpreso).
– Well dead maybe….eventually… ‘cause one day we’ll all be dead, but, when you will grow up, I will be a little old lady …and I’ll be the “nonna” of your children…that is, if you will want to have children…
E mentre gli cominciavo una spiegazione per lui complicata, ossia che ognuno di noi è figlio di qualcuno e può essere anche genitore di qualcun’altro, che si può essere papà e nonno e così via, lui era sempre più assorto e silenzioso.
Ad un certo punto arriva lo scarto logico, la potente virata del pensiero con la quale un bambino ti ricorda che, grazie al cielo, lui non è un adulto in miniatura ma proprio un bambino, con tutti i neuroni non potati dall’età e dall’esperienza del mondo, con tutta la sua corteccia prefrontale meravigliosamente immatura (i neurologi perdoneranno le mie eccessive semplificazioni) con tutta la sua “fantasia al potere” (per utilizzare uno slogan ormai desueto).
Si, perché mentre io ero invischiata nella spiegazione di alberi genealogici e mi perdevo in considerazioni politicamente corrette (avrai una fidanzata e forse dei figli…ma ci sono anche uomini che hanno fidanzati o persone che non hanno figli…) lui ha fatto un gran sospiro e ha urlato:
– BUT I DON’T WANT TO BECOME A MAN!
E mentre io avevo appena iniziato ad analizzare il suo “peterpanismo”, pensando banalmente al classico rifiuto di crescere, lui ha tirato fuori il suo vero problema.
– When I grow up, I want to be a car!
A quel punto sono rimasta senza parole per qualche secondo. Tutta questa conversazione avveniva in un periodo in cui stavo leggendo l’inizio di How the mind works di Steven Pinker in cui, nel definire cosa è la mente e l’intelligenza umana, passa diverse decine di pagine (complicate negli esempi, ma molto divertenti nel linguaggio) a distinguere tra intelligenza umana e intelligenza artificiale…
– A car? You can’t possibly become a car, a car is an object…you are a human BEING!
E continuavo: A car is made by people, it’s made of smaller object put together, a car has no will, it can’t talk or think, it can’t smile or cry…
Eravamo quasi arrivati a scuola e ora procedeva guardando a terra, tristissimo.
Che brutta notizia che gli avevo dato! Perché spiegargli che da grande non poteva diventare un’automobile? Che mamma scema! Perché non avevo taciuto?
Poi, di colpo, si ferma, mi lascia la mano, alza entrambe le braccia in segno di vittoria ed esulta:
– I GOT IT ! Mommy I got it! I know how I can become a car: when I grow up I’ll go in the middle of the road and put myself on four legs using also my arms (sic) and then I’ll have someone attach four wheels to me and…and….. so THEN I’ll be a car!.
E, trionfante, aggiunge:
– And I’ll be carrying you mommy, ‘cause you said you’ll be old!!
Rimango di stucco: creato il problema, trovata la soluzione. Evidentemente mio figlio crede di essere un Barbapapà!
– That’s such a brilliant idea, my love! Gli dico.
Non è solo che amo mio figlio, la verità è un’altra: l’infanzia non smette di incantarmi.
Se ti piace questo ‘post’ iscriviti ad educazioneglobale. Ti potrebbero inoltre interessare:
- Un po’ di civiltà…ovvero come insegnare il rispetto delle regole
- A me giocare con i bambini piace…e a te?
- Figli maschi: complicati nelle cose semplici e semplici nelle cose complicate
- Che succede nella testa delle mamme
- Bambini: ogni tanto un pò di noia fa bene
- 6 ragioni (egoistiche) per avere un figlio
- Cosa non funziona nell’educazione delle bambine?
- Adolescenti e neuroscienze: come capire un po’ meglio i propri figli
- “Piccole Donne” e l’etica del lavoro. Come si sviluppa il senso del dovere?
E fin qui ti e’ andata bene. Fra qualche anno, mentre staremo spiegando al pupo che non puo’ fare la macchina da grande, appunto perche’ la macchina e’ un oggetto, si fermera’ davanti a noi la Google self driving car, che con voce gentile dira’: -Perche’ piange il piccolo? serve un passaggio?
A quel punto, la vedo piu’ difficile… 🙂