Come dialogare con un figlio, specie se adolescente? E come si aiutano i figli ad aiutarsi da soli quando hanno un problema?
La scorsa settimana ho finito il post Cosa ho imparato ad un incontro per genitori con queste domande. Questa settimana parliamo delle risposte: alcune sono state illustrate in incontri per genitori (naturalmente genitori di adolescenti), altre sono nate da letture e conversazioni.
La teoria è facile. Aiutare un figlio adolescente vuol dire consentirgli di diventare autonomo alla sua velocità, fargli prendere alcune decisioni in autonomia, ascoltarlo, rispettandone le opinioni, anche quando uno non le condivide. Tutte indicazioni su cui ho preso diligentemente appunti e che, poi, si fa molta fatica a mettere in pratica.
La fatica – credo – nasce dal dover conciliare autorevolezza e ascolto. Da un lato, infatti, non bisogna mollare sulle regole e i valori fondamentali. Dall’altro – e su tutto il resto – è meglio ascoltare e non dare consigli, pena la deresponsabilizzazione dell’adolescente.
“Non date consigli” – ha detto uno psicologo venuto al liceo di mia figlia – “perché vi prendete la responsabilità delle conseguenze che ne derivano”.
Ma come si fa a non dare consigli ai figli? E’ difficilissimo ma, nove volte su dieci, quando un figlio ci parla (se ci parla..) non vuole il consiglio ma vuole, per prima cosa, l’ascolto.
Proviamo allora ad affrontare la questione, passo dopo passo.
- Davanti al figlio che espone un problema, in primo luogo è necessario leggere la realtà per quella che è, e non confondere la propria storia con la sua, altrimenti si contamina la sua storia con il proprio vissuto;
- In secondo luogo, di fronte a un problema del proprio figlio dobbiamo chiederci: ma il problema è superiore alle sue forze o no? Perché se non è superiore alle sue forze è meglio che se lo risolva da solo. E’ un po’ un principio montessoriano: non solo “aiutami a fare da solo” ma anche “fammi sbagliare da solo, così imparo”;
- In terzo luogo, il genitore, davanti ad un problema del figlio, non deve cercare di risolverlo ma solo di ascoltare la narrazione che il figlio ne fa, senza dare subito consigli.
A dirlo così pare una cosa banale, invece è proprio difficile da fare, per cui vale la pena chiarire meglio il concetto. Ho trovato in un articolo di una rivista un esempio e lo riporto con qualche modifica. Poiché in italiano si tende ad usare il maschile come neutro, cosa che ho fatto finora, ho deciso di declinare tutta la conversazione al femminile.
Ecco l’esempio. Arriva a casa la figlia, lancia lo zaino sconfortata e dice “Non sono brava a pallavolo!” (o a scuola, o in fisica o in qualsiasi altra disciplina).
Noi genitori, madri o padri, siamo subito tentati di rassicurarla e dire: “No, ma che dici, sei bravissima!”. Eppure, dare sostegno non vuol dire solo elargire rinforzi positivi o fare complimenti ma mostrare come risolvere delusioni e fallimenti da sola.
Se arrivasse un amico e dicesse sconfortato “Non sono bravo a giocare a pallavolo!” noi non diremmo, “ma dai, sei bravissimo!!”. Semmai, gli porremmo alcune domande, ad esempio: “Perché? Cosa è successo?”, “Come ti senti ora?”, “Perché ci tieni tanto?”, “Ma davvero ci rimani così male?”, “Come ti vedi in questo sport?”, “Cosa pensa il tuo allenatore?” “Cosa pensano i compagni di squadra?”, “Hai capito cosa puoi fare per migliorare?”, “Se ti impegnassi di più potresti migliorare?”, “Se no, perché no?”, “Pensi che con un altro sport ti accadrebbe la stessa cosa?”. L’esempio è un esercizio di stile: probabilmente non servirebbero tutte queste domande, ne basterebbero uno o due, che darebbero il via alla conversazione; le risposte verrebbero fuori. Si chiama ascolto attivo e, in realtà, non sarebbe complicato metterlo in atto con i figli, ma richiede tempo e pazienza.
Ovviamente un genitore non è un amico e non si deve mettere a fare l’amico. Il corso di pallavolo lo paga il genitore, la figlia l’ha messa al mondo il genitore. Tuttavia, pur restando nel proprio ruolo, si può tentare di essere maieutici e tirare fuori le risposte che una figlia o un figlio ha dentro. Non si può e non si deve fare sempre. Questa non è la conversazione da fare davanti ad un capriccio (“non mi va di andare a pallavolo”) ma è certamente la conversazione da fare davanti ad un problema, specie se ricorrente.
Insomma, una buona conversazione è quella in cui, attraverso le domande, si aiuta un figlio a capire cosa vuole davvero, ad esplorare nuove motivazioni ragioni e a mostrargli il processo attraverso il quale si affronta e si risolve un problema. Se cerchiamo di risolvere anche i problemi che i figli (adolescenti e non) possono risolvere da soli, trasmettiamo loro il messaggio che non sono in grado di farlo.
Ricordo quella bella frase di Saint Exupery: “forse l’amore è il processo con il quale ti riconduco dolcemente a te stesso”. Ecco, forse amare è questo, riportare le persone (anche le “personcine in crescita” come i bambini o gli adolescenti) alla propria essenza, consentire loro di diventare quello che sono. Anche attraverso le domande.
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“Avevo vent’anni. Non permettero’ a nessuno di dire che questa e’ la piu’ bella eta’ della vita.” (Paul Nizan, 1931)
…. forse e’ vero anche per l’adolescenza.
Discorso sempre complesso, quello dell’adolescenza: non si è mai abbastanza informati (e dal prossimo anno avrò la possibilità di partecipare agli incontri nel tuo stesso liceo) e forse mai abbastanza preparati a cosa può succedere con un adolescente.
Ciao Elisabetta, sai se a Roma esistono collegi residenziali per scuole superiori? Magari anche con la possibilità di frequentare una scuola all’esterno
Convitto nazionale Vittorio Emanuele II