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Viva la scuola pubblica! Intervista ad una Maestra per vocazione

educazioneglobale ABC scuolaNegli anni la scuola pubblica è stata oggetto di tagli di fondi e di organico e, sempre di più, l’insegnamento viene percepito dai docenti come un mestiere difficile, stressante oltre che sottopagato. Eppure vi sono scuole pubbliche che funzionano bene malgrado i tagli e insegnanti che ti dicono: “è una gran fatica, ma non cambierei mai: faccio il mestiere più bello del mondo”.

Di solito, in questo blog, mi rivolgo ai genitori (categoria alla quale appartengo), ma mi fa piacere anche dare spazio a chi nella scuola ci lavora. In particolare, mi piace dare spazio a chi crede nel proprio lavoro.

Insomma, ci sono persone che lavorano nella scuola per vocazione e non per caso. Io ho la fortuna di conoscerne alcune.

Una di queste è Lidia, docente di scuola primaria. Ho quindi colto la palla al balzo: conosco Lidia ormai da una ventina d’anni, so che fa questo lavoro con passione ed è una delle persone più comunicative e più simpatiche che uno si possa immaginare, dunque perché non intervistarla?

Negli anni, alle cene fra amici, Lidia è arrivata sempre con qualche storia sui suoi allievi, divertente o commovente. Del resto Lidia ha deciso deliberatamente di insegnare in una periferia romana, dove arrivano bambini che crescono in un contesto non facile. Lei non insegna loro solo a leggere e scrivere, sottrarre o dividere, ma anche – come vedremo tra poco – a stare al mondo. Insomma, è una Maestra a tutto tondo. Così ho deciso di invitarla un pomeriggio e di ascoltare i suoi racconti. Ecco la sua esperienza, raccolta per i lettori di EducazioneGlobale.

Allora, Lidia, qual’è il tuo background formativo e quando e perché hai deciso di diventare insegnante?

Fare la maestra è stato per me, da sempre, un desiderio forte. E’ qualcosa che ho sempre pensato di volere e di dover fare, sin da bambina. Pertanto, già quando si è trattato di scegliere la scuola superiore, ho optato per le magistrali. Alle magistrali studiavamo, tra le altre cose, filosofia, psicologia e pedagogia, tutte discipline importanti per l’insegnamento.

Oggi, il percorso di un docente è diverso, all’epoca, tuttavia, era questo. Io ho poi proseguito con la Facoltà di Lettere, laureandomi in Italianistica e sostenendo tutti gli esami necessari per l’insegnamento (in quei tempi era necessario sostenere due annualità di storia, di geografia, di italiano e di latino). In questo modo mi sono formata per insegnare Lettere anche nei licei. Vorrei sottolineare che, quando ho iniziato “la professione”, non era richiesto che una maestra fosse laureata, ma io lo ero e, devo dire, che il 90% degli insegnanti che attualmente insegnano con me nella mia scuola, sono laureati.

Quanti anni sono che insegni?

Vent’anni, di cui 17 di ruolo. Oggi ho 45 anni; ho iniziato a fare le mie prime supplenze a 25 e questo lavoro mi piace ancora, molto!

Che cosa insegni esattamente?

Ad ogni ciclo cambio, a seconda di come ci mettiamo d’accordo con le colleghe. In questo ciclo insegno storia, geografia e matematica e i miei allievi, quest’anno, sono in quarta primaria. In altri anni ho insegnato storia ed italiano, dipende.

Come mai hai deciso di insegnare in periferia?

La decisione di optare per la periferia – sobbarcandomi uno spostamento che, all’inizio della mia carriera, comprendeva anche un’ora e mezzo di macchina ad andare e un’ora e mezzo a tornare! – è stata inizialmente casuale ma, successivamente, è diventata una scelta.

Le cose sono andate così: quando ho iniziato mi sono resa conto che nessuno voleva andare in zone periferiche, in particolare a Primavalle, la zona di cui sto parlando.  Sapevo, inoltre, che c’erano varie scuole e che era una zona popolosa, con tanti bambini. Pertanto, avevo più possibilità di lavorare (e io avevo voglia di cominciare il più presto possibile!).

All’epoca il sistema funzionava in questo modo: ti sceglievi 3 – 4 scuole e facevi domanda per le supplenze. Dunque, ho fatto domanda ad un po’ di scuole, dove gli altri non volevano andare, ed ho iniziato lì. Poi sono rimasta, perché insegnare in periferia mi è piaciuto. Insomma, si può dire che ho cominciato per caso ed ho continuato per amore! Oggi la traversata di Roma è anche un po’ più breve per via del nuovo tunnel della tangenziale, dunque si sono ridotti un po’ i tempi di spostamento, anche se la collocazione rimane scomoda.

Come è il quartiere in cui insegni?

La zona non è facile: alcuni bambini hanno (o hanno avuto) i genitori in carcere e, negli ultimi anni, ci sono tanti problemi di disoccupazione. Per altri versi, però, è un quartiere molto eterogeneo: oltre alle situazioni di disagio, ci sono molti stranieri ben integrati e giovani famiglie di condizione economica modesta ma di ampia cultura, che hanno scelto Primavalle per questioni di costi, ma che seguono molto i figli e, nel fine settimana, li portano alle mostre o a visitare i monumenti…

Secondo te, quali sono le caratteristiche necessarie per essere una buona Maestra (o un buon Maestro)?

Oltre alla conoscenza delle materie e alla passione per l’insegnamento, direi la capacità di avere un rapporto empatico con i bambini, di ascoltarli, di intuirne i diversi talenti…. e poi ci vuole il fisico!

In che senso?

Elisabetta, per insegnare nella scuola primaria occorre avere una prestanza fisica non indifferente.  A livello umano e affettivo devi prestare attenzione a tutti i tuoi alunni e, poiché sono piccoli, ti devi anche muovere, girare per i banchi, controllare come impugnano la penna. Devi guardarli negli occhi, per capire se è una buona giornata o c’è qualcosa di storto. Devi parlare a tutti insieme ma anche a ciascuno singolarmente. Non fai lezione seduta in cattedra. Io mi muovo in continuazione. Starò seduta 10 minuti in tutta la giornata. E’ un lavoro usurante: per la voce e per il corpo, però tanto, tanto bello.

Che differenze ci sono tra la situazione di oggi e la situazione di quando hai iniziato a lavorare? In vent’anni come è cambiata la scuola dal tuo punto di vista? In fondo la scuola rispecchia la società…

In vent’anni i cambiamenti sono stati tantissimi: da tutti i punti di vista. Cerco di elencarteli. Dal punto di vista dei bambini, il grosso cambiamento è che la famiglia si è indebolita, ci sono più separazioni “brutte” (con liti, ripicche, avvocati e cause) rispetto a quante non ve ne fossero prima. E’ come se i genitori fossero diventati più narcisisti. Spesso, i genitori che si separano, dicono: “tanto mio figlio non è l’unico, non si sentirà diverso perché in classe ci sono più figli di separati che figli di coppie che funzionano”.  Così facendo si giustificano, ma non si rendono conto che, anche quando c’è una classe intera di figli di separati, al bambino non cambia nulla: soffre comunque.

Anche la società è cambiata. E’ più veloce e non rispetta i tempi dei bambini. Questi bimbi fanno troppe attività, stanno troppo poco a casa loro, non giocano abbastanza tranquilli. Ciò si riverbera nel comportamento in classe, perché sembrano ansiosi di correre.

Mi spiego: a volte un bambino finisce un lavoro in classe per primo, arriva da me o dalla mia collega e dice: “Maestra, ho finito la consegna, ora che faccio?”

A noi viene da ridere, e gli diciamo “non fare nulla, annoiati un po’”.

Poiché i bambini sono le creature più ironiche del mondo, ormai conoscono la risposta, e dicono, con certi occhi maliziosi che te li farei vedere: “ho finito, che faccio, maestra…mi annoio un po’?”.

Insomma, i bambini hanno bisogno di avere tempo per trovare, nella noia, le cose da fare. Per capire, con la noia, chi sono e quello che gli piace fare.

E poi io noto che, oltre al tempo, manca loro l’attenzione. A volte vengono a scuola e mi raccontano le cose più disparate: i litigi con i fratelli, quello che pensano di come cucina la mamma, un fatto accaduto il giorno prima. A volte si tratta di eventi poco rilevanti, ma io noto questo: hanno bisogno di raccontare a me perché non li ha ascoltati nessuno.

I genitori pure sono cambiati perché pretendono molto dai figli, ma, allo stesso tempo, non accettano critiche e non vogliono problemi.

Infine sono cambiati i programmi. A me questi ultimi programmi, per la storia e la geografia non piacciono. Si esce dalle elementari che si sta ancora alla storia romana, o si passano i primi anni di geografia a capire l’orientamento nello spazio. I bambini hanno bisogno di nozioni concrete, non di astrazioni.

Per questo motivo, avvalendomi della libertà di insegnamento, e con l’assenso e la collaborazione dei genitori, io amplio il programma. I genitori sono contenti e collaborano, aiutandomi con le fotocopie o recuperando vecchi sussidiari prima che vadano al macero, perché la parte di storia moderna e contemporanea nei nuovi programmi non c’è!

Che meraviglia, Lidia, quindi non ti fermi a quell’assurdità di studiare il lavoro dello storico o dell’archeologo nel primo biennio, del quale agli alunni non resta nulla?

Esatto. In Geografia si passerebbero i primi anni a studiare la spazialità, orientamento, si ripete – forse troppe volte – cosa è una montagna, cosa è una collina. I bambini arriverebbero alle medie con una conoscenza limitata della materia e pure annoiati per aver ripetuto troppe volte lo stesso concetto. A questo punto preferisco ampliare gli argomenti geografici alle Regioni, all’Italia, all’Europa, anche utilizzando il vissuto dei bambini e la presenza di bambini stranieri, per approfondire ulteriormente.

In storia spiego cosa è un archeologo o cosa è uno storico, affronto quelle nozioni, poi comincio con il big bang, i dinosauri, gli uomini primitivi ma proseguo sino ai nostri giorni, in modo che, in quarta e quinta, posso spiegare un po’ di storia moderna e contemporanea. Insomma, faccio il novecento, la seconda guerra mondiale, li porto in gita alle Fosse Ardeatine…

Le Fosse Ardeatine… li porti molto in giro per Roma?

Noi (io e un paio di colleghe) portiamo i bambini per tutta Roma…e con i mezzi pubblici! Niente pullman. E’ importante, sai? E’ importante stare con gli altri e imparare a comportarti in maniera civile su un autobus. In un ciclo di scuola (dunque nei 5 anni), li ho portati al Foro Romano, al Colosseo, all’Auditorium per le conferenze, alle Fosse Ardeatine, al museo di via Tasso, a visitare la Roma barocca. Al teatro Eliseo, all’Olimpico, al Sistina. E li faccio camminare. A volte facciamo a piedi anche 3 chilometri. La mia quarta primaria, quest’anno, ha visitato la mostra su Cleopatra, e quanto gli è piaciuta!

La scuola primaria è ancora un’epoca in cui dai l’impronta ai bambini, specie a quei bimbi che non hanno possibilità a casa di  avere genitori che li portano alle mostre o li introducono all’arte. Alcuni di loro queste cose le fanno solo a scuola, capisci?

Come è una tua classe tipica? Come affronti i diversi stili di apprendimento degli studenti?

Tipicamente ho 22 bambini. Di questi, non ce ne sono due uguali! Ad esempio, sono tanti i bambini con DSA (n.b. Disturbi specifici dell’apprendimento), certificati dalle ASL che, spesso, non hanno neanche il sostegno, anche se ne avrebbero il diritto.  Noi maestre abbiamo una sensibilità verso i disturbi dell’apprendimento, anche se le diagnosi devono esser fatte da uno specialista.

Poi ci sono bambini che sono un po’ più lenti, ma che risolvono i propri problemi da soli, con il tempo. A volte si tratta solo di una lentezza. Noi maestre parliamo di questi casi facendo riferimento ai “tempi personali” del bambino. Ognuno ha i suoi tempi. Alcuni hanno dei tempi che sfiorano la patologia, eppure non sono patologia, perché si risolvono del tutto e senza intervento esterno.

In media, su 22 bambini, ho 2 bambini con DSA, 2 un po’ lenti, 9 stranieri, 1 rom. A dispetto dei pregiudizi, molti stranieri non hanno alcun problema. Tanti sono nati in Italia, ma magari a casa parlano urdu e io, comunque, devo tener conto che nessuno può aiutarli nei compiti. Non tutti i casi che ho sono così rosei. Ad esempio, la mamma della rom che ho attualmente in classe, per firmare fa una croce: è analfabeta. La figlia è fortemente problematica, è stata bocciata in passato tante volte e penso che abbia un ritardo cognitivo che nessuno ha riconosciuto e diagnosticato. Ma è l’ultimo dei suoi problemi, visto che vive in un campo nomadi e, quando non viene a scuola, è perché la mandano a frugare nei cassonetti. Questi sono i casi più tristi. Più spesso ho bimbi rom sveglissimi, si integrano bene e imparano alla svelta, anche se poi, le termine dei 5 anni, non so cosa succederà di loro alle medie, dove discipline e docenti sono tanti e tutto è più veloce.

Ma ci sono anche i bambini di talento. Su 22 bambini, ci sono quei 4-5 bambini che, in quarta o quinta, potrebbero andare anche alle medie; sono delle eccellenze e io non voglio trascurare neanche loro. Li incoraggio, soprattutto gli consiglio cosa leggere. Ho una bambina di quarta che si è letta l’Eneide e l’Odissea!

Non pensi che questi bimbi di talento dovrebbero andare avanti? Saltare una classe?

No, perché lo scambio che si danno questi bambini così diversi come testa e come preparazione è imprescindibile: è questa è la vera scuola di vita.

La bimba che legge l’Odissea ha bisogno come il pane del suo compagno un po’ rozzo e bulletto che le dice, talvolta, “ahó ma quanno la smetti di studiare?!!. Ne ha bisogno anche lei, perché così torna con i piedi per terra, altrimenti diventerebbe piena di prosopopea e si isolerebbe dai compagni meno colti di lei. E lui ha bisogno di lei, perché, alla fine, diventa curioso: magari non legge, ma si fa raccontare i miti greci, che la bambina già conosce. E lei, nel raccontarli, li fa propri. E’ un circolo virtuoso.

Quale è la cosa più bella della tua scuola (a parte i bambini)?

Che abbiamo un giardino! E nel giardino c’è pure un albero, l’albero della Maestra. Abbiamo fatto un progetto con Legambiente e abbiamo piantato questo albero. L’ho difeso con le unghie e i denti: era uno stecchetto tenuto dritto da tre pali e ora sta crescendo; quando andiamo in giardino i miei bambini mi dicono: “guarda maestra il tuo albero ha messo le gemme!”.

Il momento del giardino è bellissimo. Dico ai bambini: “Potete fare quello che volete, giocare, correre, cantare, ma, se litigate o se qualcuno si fa male, riandate tutti in classe!”. Allora non litigano mai e se, giocando ad acchiapparella, qualcuno spintona un altro è quello che ha spintonato che cura quello caduto.

Una domanda che tutti i genitori si pongono. Qual’è, secondo te, l’orario ideale per un bambino a scuola?

L’orario ideale a scuola sarebbe il modulo, ossia l’orario antimeridiano per tre giorni e due giorni in cui si rimane a scuola anche il pomeriggio, con la mensa. L’esperienza della mensa e del pomeriggio insieme è molto positiva per la socialità, per imparare a mangiare con gli altri o mangiare cose diverse. Anche per imparare un minimo di buone maniere: se lo fai fare a tutti insieme, i bambini le regole di buona educazione le seguono. Il tempo pieno non è ideale perché stanca molto di più, ma capisco che è l’unica alternativa se i genitori entrambi lavorano. Io, comunque, insegno al tempo pieno.

Come vi regolate con i compiti? Quanti ne date?

Nel caso del tempo pieno, li diamo solo il venerdì ed è il consolidamento di quanto fatto in classe. Ci mettiamo d’accordo con la collega per non darne troppi. Però i giorni della settimana sono scanditi dalle diverse materie, dunque chi non fa tutto nel weekend sa che, magari, scienze è per il mercoledì e storia per il giovedì, e si adegua.

Hai mai pensato di cambiare e passare a lavorare alla scuola media o alle superiori?

Quando mi è arrivata la lettera con cui mi hanno comunicato che potevo entrare di ruolo alle superiori sono stata male una settimana. Potevo persino scegliere la scuola, sarei potuta entrare di ruolo in qualsiasi liceo, magari del centro, magari un liceo prestigioso. Sono stata male perché mi rodevo nell’indecisione.

Poi ho pensato alla libertà di inventare le lezioni, alla bellezza di poter risolvere i problemi in modo creativo. Questo capita solo alla scuola primaria, quando i bambini sono piccoli e si affidano a te, con affetto e fiducia. Dove trovo una scuola in cui mi arriva un bambino che mi dice “qui sto bene, questa è come la mia famiglia, qui mi sento protetto”? Questo rapporto con la scuola un adolescente non ce l’ha più. Allora ho deciso: finché mi regge il fisico farò la maestra elementare!

Quale è la cosa più buffa o più commovente che ti è mai capitata nel tuo lavoro? Hai un aneddoto da raccontare?

Anni fa ho avuto un bambino con un handicap grave. Non camminava bene e non parlava per nulla ed era molto ma molto aggressivo, perché era l’aggressività l’unico suo modo di  attirare l’attenzione. A parte lanciare oggetti e tentare di picchiare i compagni, a volte saliva in piedi sul banco in piedi e si buttava all’indietro. Dovevo correre ad acchiapparlo, prima che si facesse male (..capito perché dico che “ci vuole il fisico” per fare questo mestiere?!).

Tra tanti problemi, aveva anche dei comportamenti da autistico, per cui una cosa che lo calmava molto era quella di aprire e chiudere compulsivamente la zip dell’astuccio, oppure tirare fuori tutte le matite una ad una e rimetterle dentro, all’infinito.

Questo bambino aveva un disperato bisogno di comunicare e non ci riusciva. Allora mi è venuta un’idea: d’accordo con i genitori, abbiamo preso una ragazza che gli ha insegnato la LIS, la lingua dei segni, quella che usano i sordomuti. L’ha insegnata anche ai genitori del bambino. L’ha poi insegnata a tutta la classe.

Bene, quel bambino ha smesso di picchiare e ha smesso di mettersi sui banchi in piedi.

Un giorno dovevo correggere un compito, ero così concentrata che non mi sono accorta che in classe c’è stato prima un forte brusio e poi è piombato, improvvisamente, il silenzio più assoluto.

Ad un certo punto ho alzato la testa, di scatto e ho visto questo bambino. Stava al suo banco, ma davanti a lui, sul banco, c’erano gli astucci di tutti gli altri bambini. Ognuno gli aveva dato il proprio. La bambina lettrice si è alzata in piedi e mi ha detto: “Maestra, gli abbiamo dato i nostri astucci, così lo teniamo buono noi, tu correggi pure i compiti”.

Lui ha sorriso e poi, usando la lingua dei segni, ha ringraziato i suoi compagni. Io non ho più corretto i compiti: ero troppo commossa.

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Comments

  1. Che meraviglia, Elisabetta. Grazie di aver condiviso l’intervista a Lidia, che dev’essere una persona davvero speciale. Mi sono commossa. Sono contenta per i bambini della sua classe, contenta che per una volta hanno vicini una persona che tiene veramente a loro come piccole persone, e per i loro genitori che hanno un forte sostegno nella scuola in questi tempi difficili. Sappiamo tutti che non sempre (anzi raramente) è così. Quando i miei nipoti saranno un po più grandi, vorrei far loro leggere di Lidia e della sua classe. E’ un esempio per tutti, grandi e piccoli.

    Margaret

  2. Posso essere politicamente scorretto? questo articolo conferma la mia impressione: la scuola pubblica contiene molte ottime persone -chapeau alla maestra Lidia- ma non funziona, per caso o per scelta politica non saprei, a livello di sistema. La prova? dello stipendio di questa validissima persona non sì parla, e il perché lo sappiamo: è assai modesto. E la scelta di tenere la posizione in un quartiere disagiato e di rinunciare ad una posizione superiore non è stata in alcun modo premiata: perché non riconoscere, ad esempio, un superminimo – o un abbonamento atac gratis, al limite- per il concorso superato? certo, ci sarà sempre chi sacrifica per far andar bene il servizio, ma, come Brecht fa dire a Galileo , “maledetto il paese che ha bisogno di eroi”.

  3. Ecco una di quelle testimonianze che fanno ben sperare, nonostante di solito si sentano sempre e solo lamentele (spesso immotivate).
    Grazie ad Elisabetta e grazie soprattutto a Lidia, che fa con amore un lavoro secondo me difficilissimo.

  4. …Da quello che mi risulta lo stipendio degli insegnanti delle scuole private non sono più elevati . E’ il motivo per il quale si dice che la qualità degli insegnanti delle scuole pubbliche sia mediamente più elevato d quelli delle scuole private. Tra posto nel privato e posto nel pubblico, gli insegnanti scelgono quello nel pubblico, non credo solo per vocazione.
    O sbaglio?
    PS mia figlia sta frequentando la prima classe elementare una scuola pubblica e devo dire che la qualità dei maestri (di tutte le sezioni) è davvero elevatissima. Non ci sarà l’inglese (ahimè!) ma quanto a preparazione dei maestri il livello è altissimo, con grande soddisfazione mia e di nostra figlia (sempre felice di andare a scuola!).

    1. Mi pare che tu, se pure indirettamente, confermi il mio punto di vista. L’Italia è uno dei pochi paesi in cui la scuola privata fa in media peggio di quella pubblica : sappiamo tutti cosa sia un “diplomificio”, e non è necessario dilungarci in merito. Mi pare però che per la scuola pubblica sia una magra consolazione: fare meglio di qualcuno non vuol dire far bene in assoluto. Rilevo poi che scuole private di un certo tipo – per fare nomi, la Sir James Henderson di Milano e il Liceo Carli di Brescia- hanno un contratto integrativo aziendale, che rende del tutto appetibile lavorarci.
      Che il guaio sia a livello di sistema da ultimo me lo confermi dicendo che la qualità dei maestri è elevatissima – il che dipende dalle singole persone, e mai mi sono sognato di mettere in discussione- ma non si fa inglese: fare o non fare una certa materia dipende da decisioni prese a livello superiore, sulle quali i singoli addetti possono poco o nulla. Certo, non dispiacerebbe che sui livelli superiori in questione cercassero di influire i cittadini – mi pare che si chiami impegno politico, e in altre materie, una per tutte le pensioni, in qualche caso ha anche funzionato- ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

  5. Dal punto di vista della carenza dello studio della lingua inglese, che purtroppo è un grave handicap della scuola pubblica, non finirò mai di ringraziare Elisabetta e tutti voi per le informazioni fornite in questo blog! Mi state aiutando tantissimo!!!

  6. Beh, in linea teorica i livelli superiori sembrano sensibili (vedi la Buona Scuola di Renzi) ma dal punto di vista pratico, lo iato che c’è tra idee, proclami, programmi e realtà (anche, ma non solo, economica) è davvero ancora molto grande. Non solo: abbiamo ancora la generale presunzione di credere che il nostro sistema scolastico sia il migliore e che il problema siano le strutture e le forniture più che i programmi, mentre le criticità sono evidenti su entrambi i fronti. Da una parte scuole inagibili, pericolanti, prive di palestre e spazi verdi, dall’altra in prima elementare ci sono più ore di religione che di inglese e mentre qualche liceo sta timidamente inserendo la possibilità di sostenere gli A-level, nelle scuole elementari e medie (io le chiamo ancora così, perdonatemi) siamo lontani. Non aiuta la mentalità della gran parte dei genitori, che peraltro sono preoccupati principalmente di riuscire a trovare un equilibrio tra il timing del lavoro e quello della scuola e di inventarsi un modo per parcheggiare i bambini in questi lunghissimi ed inspiegabili tre mesi di vacanze dove le scuole sono chiuse, se non hai nonni a disposizione.
    In tutto questo, preoccuparsi ANCHE dell’inglese per molti risulta davvero troppo. Sento dire molto spesso, quando cerco di trascinare qualche mamma nella mia battaglia per il potenziamento linguistico: ma lascia perdere poverini i bambini sono tanto stanchi, poi li mandi un’estate in Inghilterra e il problema è risolto. Risolto?

  7. D’altra parte io continuo a lottare per una scuola pubblica di qualità e trovo davvero assurdo che un’adeguata conoscenza dell’inglese sia elitaria, per chi ha le possibilità economiche per una scuola privata internazionale, bilingue, per una casa sufficientemente grande da poter metterci una aupair, per corsi e vacanze in Inghilterra.
    Qui la differenza non la fa la griffe, la settimana bianca a Cortina o ad Ovindoli, qui la differenza è nelle maggiori o minori possibilità che in futuro potranno avere i nostri ragazzi.
    Ed in un momento di crisi come questo, lo trovo inaccettabile.
    E’ vero, si possono fare sacrifici e mandare i propri figli in una di queste scuole private, ma poi bisogna anche fare i conti con uno stile di vita a cui si abitueranno i tuoi figli che non è il tuo e, quindi, anche in questo caso, ad un falsato senso della realtà e a problemi di integrazione…

    1. Cara Lavinia, permettimi un civile dissenso. Se i denari necessari per una scuola degna di questo nome- che in questo momento storico potrebbe essere forse una scuola internazionale- non ci sono, nessun problema, nel senso che non c’è che prenderne atto, senza complessi né vergogna per nessuno. Dal tuo scritto però, se capisco bene, traspare qualcosa di diverso, nel senso che, pur potendoselo permettere con sacrifici, mandare i nostri figli a una scuola di questo tipo sarebbe in qualche modo inopportuno, perché in sintesi sì abituerebbero troppo bene. Ecco, io qui fatico a trovarmi d’accordo. Al mondo, non solo a scuola, ci sarà sempre qualcuno che è più di noi, e qualche volta averlo vicino, lungi dall’ abituare male, spinge a far bene. E se si tratta di sfuggire, o di avere una possibilità di sfuggire ad un futuro da “working poor” (adesso, la miseria si chiama così), mi pare che le difficoltà di adattamento alla scuola di prestigio siano più facili dà gestire di quelle, obiettivamente di livello superiore, che sì incontrano da adulti se una istruzione inadeguata riduce grandemente la possibilità di trovare un lavoro qualificato e retribuito in modo decoroso.

      1. Nella “vera vita” ci saranno persone più ricche o più belle o più intelligenti di noi, ma ci saranno anche quelle più povere, e quelle come noi. Invece andare in una scuola per gente ricca è diverso: lì tutti appartengono a una classe economica diversa.
        È successo a un ragazzo che conosco. Un amico di famiglia, suo padrino, gli ha pagato la scuola, che era appunto una di quelle per ricchi. (suo padre era morto). Finché erano piccoli, erano solo i giocattoli più costosi, e le case lussuose, le feste costose con il clown e il buffet pieno di roba. Ma diciamo che andava ancora bene. Alle medie già i vestiti, i cellulari, le vacanze in posti chic eccetera. E i regali che gli portavano al suo compleanno – cose che già cominciavano a farlo sentire un pochettino inadeguato, siccome non poteva contraccambiare.
        Ma al liceo tutto è peggiorato: i ragazzi hanno cominciato a uscire insieme, e gli altri avevano tanti soldi da spendere, lui non riusciva a seguire. Gli altri parlavano di che cosa volessero studiare da grandi, e parlavano di prestigiose università all’estero… Com’è andata a finire? Lui ha detto a sua madre: “O mi mandi a quella scuola per piloti in America o non vado all’università per niente” Lei gli ha risposto “Figlio mio, i soldi per quell’università lo sai che non ce li abbiamo. Perché non scegli qualcos’altro?”
        Il figlio si è impuntato e, siccome gli piacevano i macchinari, è andato come apprendista di un meccanico di automobili. Dopo aver lavorato lì per alcuni anni, un suo ex compagno di scuola incontrato per caso lo ha assunto nella sua compagnia di cibo congelato – organizzatore delle spedizioni, gestione dei vari camion ecc. Non poteva dargli qualcosa di più, giacché lui non aveva nessun titolo di studio e non sapeva niente. Poi con la crisi economica la compagnia ha chiuso ed ora è senza lavoro.
        Non credo che gli sia stato utile andare in una scuola che gli ha montato la testa.

  8. Caro Francesco, purtroppo non si devono fare i conti solo con la retta ma anche con l’elevato costo dei post-scuola, delle attività varie, delle divise ecc. difficili da evitare.
    Ritengo che non sia da sottovalutare il generale livello del tenore di vita dei frequentatori di questo tipo di scuole ( mi riferisco soprattutto a quelle internazionali) perché stiamo parlando anche di pre-adolescenti e di adolescenti, età in cui il sentirsi “come gli altri ” è molto importante e quindi la diversità socio-economica potrebbe non essere facile da sostenere, determinando una certa emarginazione da parte dei compagni.
    Un ragazzo estremamente ambizioso e forte potrebbe reagire diventando il più bravo della classe, ma non sono tutti così!
    Per quanto mi riguarda, la mia scelta non è stata dettata dalla retta ma da altre ragioni: abbiamo scelto una scuola pubblica, con insegnanti molto preparati, che prevede degli educatori specializzati che seguono i bambini anche nello svolgimento dei compiti nel pomeriggio e dove la disciplina ed il rispetto delle regole è molto importante. Con l’impegno, da parte nostra, di integrare l’inglese e di bilanciare l’impostazione un po’ “rigida” dell’istituto…grazie anche a Elisabbetta, a te e ai contributi delle lettrici e dei lettori di questo blog!

  9. Elisabetta, è partita una b di troppo scrivendo il tuo nome, scusa!
    Dimenticavo un’altra ragione importante della mia scelta. Nonostante tutto, trovo che la nostra cultura e la nostra lingua siano dei patrimoni eccezionali che vorrei trasmettere a mia figlia in maniera adeguatamente approfondita. L’inglese è certamente uno strumento importantissimo, ma è pur sempre un mezzo di comunicazione. Mi sembra che i contenuti possano partire molto virtuosamente attraverso la conoscenza (seria) delle nostre radici letterarie, storiche ed artistiche e… linguistiche. La lingua italiana è musicale, elegante e ricca. Non a caso per anni gli stranieri colti l’hanno studiata con passione.

  10. Seguo la discussione e sono molto spesso d’accordo con Francesco S. Io e mia moglie abbiamo scelto una scuola internazionale in Veneto. I costi sono molto inferiori ad una scuola simile vista a Milano che forse sarebbe stata proibitiva. Resta il fatto che l’investimento totale almeno fino alla fine delle medie e’ inferiore al costo di un Suv ( di quelli che si vedono a centinaia nelle strade) o di un monovano in qualsiasi cittadina veneta. Molti dei genitori sono persone normali , non milionari e con comportamenti ed ambiente generale eccellente per i bambini. Tralascio la sensibilità della scuola verso associazioni di volontariato ( forse obbligata essendo IB) ma non credo che possa essere la scuola a rendere i bimbi abituati ad ambienti troppo snob od elitari. Per quanto riguarda i costringe extra non ne vedo di eccessivi perché la mensa e’ compresa nella retta e le divise sono semplici magliette e felpe. Le attività sportive e altro si possono fare fuori dalla scuola e comunque non sono per nulla obbligatori.

    1. Ciao a tutti,
      ho avuto un settimana difficile e ho potuto solo seguire il dibattito senza intervenire. Avete toccato moltissimi temi, ma voglio soffermarmi solo su uno: la questione relativa alla scuola internazionale uguale scuola privata uguale ambiente priilegiato. Penso che su questo tema abbiate ragione un pò tutti e che le diverse prospettive scontino un divario notevole tra centro Italia (segnatamente Roma, di cui Lavinia sta parlando) e nord Italia.
      Costi e utenze delle scuole internazionali sono molto diverse dal centro al nord.
      Al centro, una scuola con inglese rafforzato costa sui 5.000 euro annui e una scuola bilingue sugli 8.000. Sempre al centro, una scuola internazionale parte dai 10.000 euro annui per i bimbi di 3 anni e arriva a 25.000 l’anno per i pargoli diciottenni (i quali, poi, andranno sostenuti anche nei loro corsi universitari). Inoltre, almeno qui a Roma, la tradizione è verso la scuola pubblica e non la privata, che, quando ero ragazzina io, veniva scelta solo in ambienti molto cattolici oppure per i motivi più meschini (“frequentare bene”).
      Da questo assetto, economico e di “tradizione cittadina”, diciamo così, ne deriva una forma di selezione avversa (perdonatemi l’uso un pò libero di questa espressione), per cui anche la scelta di una scuola internazionale non deriva da una riflessione su possibilità, lingue, programmi, discipline e via dicendo, ma è più una forma di conformismo sociale di un certo tipo di utenza, che considera queste scuole al pari di una pelliccia, di un cagnolino da borsa (sic), un certo tipo di automobile e via dicendo.
      Insomma, una buona parte di questi genitori pensano a ben altro che all’insegnamento della Theory of Knowledge quando scelgono l’IB.
      La selezione avversa, poi, temo che a Roma sia resa ancora peggiore dallo iato che c’è tra uno stipendio medio del centro e questi costi astronomici. Il nord, pur con tutta la crisi che ha caratterizzato questi anni, è complessivamente più ricco. Pertanto la vera domanda è: come fanno certe famiglie a permettersi certe scuole, considerando anche che nella stragrande maggioranza dei casi le donne non lavorano ma sono, anzi, mere “generatrici di costi”? Lascio a voi le ovvie conclusioni…..
      E, già che ci sono, colgo l’occasione per scusarmi con Lidia, che ho intervistato per questo ‘post’ per aver portato la discussione così lontano dal tema iniziale.
      Ed è tristemente vero, come più o meno fa capire Francesco Spisani, che una brava maestra nel sistema italiano (privo di incentivi per i virtuosi) rimane sostanzialmente come un’artigiano di talento o un artista in un sistema inefficiente. Ma il non fare sistema è il problema principale di questo paese e non riguarda solo la scuola.
      E chiudo le elucubrazioni mattutine…

      1. Non ho esperienza della realtà romana cui Elisabetta fa accenno; così ad occhio direi però che potrebbe dare materia a un trattato di sociologia (oltreche, se recepisco bene, a qualche verifica fiscale…).
        Tornando in argomento, la domanda ulteriore resta allora quella storica: che fare?
        Per gli artigiani di talento, vorrei che la segnalazione qui fatta non resti un caso isolato. Se qualcuno fa bene, segnaliamolo: è la stessa logica delle medaglie al valore, non servono a nulla, ma fanno bene al morale…
        Per l’inglese, invece una proposta più concreta: perché al posto di tante attività più o meno inutili non sì organizzano corsi con certificazione finale in ogni scuola elementare? I prezzi, organizzando un poco, potrebbero essere politici, comunque non superiori ai pomeriggi di babysitteraggio gestiti dalle varie cooperative che ci sono adesso.

  11. Cari tutti, grazie per i contributi interessanti! Non credo che siamo andati tanto lontano dal tema, perchè Lidia ci ho offerto una splendida testimonianza delle risorse umane e professionali di cui, comunque, la scuola pubblica ancora dispone e per le quali vale ancora la pena crederci.
    Continuo a pensare che per la media delle persone che vivono con uno stipendio di circa 1500 euro in media e magari un mutuo, o peggio, che sono precarie ( e che quindi non hanno certezze sulla possibilità di poter garantire la retta per tutto il corso di studi dei figli), non possano permettersi una scuola privata bilingue od internazionale i cui costi gravano non meno di 600-700 euro a figlio al mese, almeno qui a Roma (notare che le più economiche sono cattoliche, ed anche questa è una scelta). Un lusso per molti. Per troppi, direi e che quindi bisogna lottare anche per una scuola pubblica che offra la possibilità di far apprendere l’inglese seriamente a tutti i bambini, altrimenti non ci sono dubbi che la conoscenza della lingua diventerà sempre di più una discriminante anche socio-economica.
    Condivido pienamente le proposte di Francesco: perchè non inserire tra le attività extra delle scuole pubbliche corsi (seri) con insegnanti madrelingua che accompagnino i bambini alle certificazioni Cambridge?
    Per esperienza, vi dico che ci sono moltissime resistenze,sia di tipo organizzativo da parte della scuola, che, incredibilmente, di molte famiglie, che preferiscono offrire ai bambini ore extra di sport che di inglese. E qui torniamo alla carenza di strutture (palestre ecc) che spesso caratterizzano le scuole pubbliche.
    Io da questo punto di vista sono fortunata perchè mia figlia frequenta una scuola pubblica dotata di palestre degne di questo nome e perfino di un campo di calcio regolamentare, molto apprezzato dai maschietti, ma certamente, anche questo è un problema.
    Comunque, arriverei anche a sostituire le due ore di religione con ore di inglese!
    Quanto agli esempi di bravi insegnanti: io come ho già detto, non posso che dare una medaglia anche alla maestra Gina e all’educatore Vittorio, che svolgono in maniera competente ed appassionata il loro lavoro, come la nostra cara Lidia. Potrei anche darla alla maestra Alessandra, che da l’Aquila ogni mattina è pronta con un sorriso ad accogliere alle h 7,50 i suoi alunni o alla maestra Federica, che con pazienza e amore, ha preferito insegnare nella scuola primaria nonostante l’abilitazione all’insegnamento del latino e del greco….Ma credo che anche le scuole private abbiano dei bravi insegnanti, solo davvero penso che siano ancora alla portata di tutti, anche perchè di figli spesso se ne hanno più di uno.
    Perciò evviva la scuola pubblica…con l’inglese per tutti!

  12. Ecco, Lavinia tocca un nervo scoperto. In uno Stato in cui, se non erro, c’è la libertà di religione e le istituzioni sono laiche, non mi sono mai suonate benissimo due ore di insegnamento di una determinata religione, con insegnanti scelti dai vertici di quella religione e lo stipendio a carico delle casse pubbliche, cioè anche delle tasche di chi la pensa diversamente …

  13. Caro Francesco, molti la pensano come noi (sottoscrivo in pieno il tuo pensiero) ma pochi hanno il coraggio di dirlo, anche perché mi sembra improbabile (impossibile?) riuscire a proporre delle attività – linguistiche magari – alternative. Ricordo che io scelsi di non fare religione il primo anno che fu possibile farlo, in quanto già allora ritenevo che il luogo per coltivare la propria fede e la conoscenza della religione cattolica fosse l’oratorio e non la scuola ( del resto frequentavo, nella mia parrocchia, un corso di preparazione alla cresima della durata di due anni). All’epoca studiavo in un noto liceo classico statale della capitale e la Preside mi chiamò e mi disse: “non vuoi fare religione? Ti ho inquadrata allora”. Ottenni comunque, suo malgrado, di accedere ad un corso alternativo di storia delle religioni, molto interessante, con altri tre colleghi di altre sezioni ma ti assicuro che fummo considerati tre “pecore nere” o “strani” un po’ da tutti (anche dai coetanei) per questo. Ora magari non è più così, ma credo che le due ore di religione siano oggetto di trattativa, per motivi ovvi a tutti.

  14. Cara Lavinia, premetto di essere cristiano, e proprio per questo contrario a commistioni, specie economiche, fra religione ed amministrazione statale: su un certo libro sta scritto: “date a Cesare…”, e mi par che basti.
    Ciò premesso, lo dico a tutti in generale, e a nessuno in particolare, da qualche parte bisognerebbe decidersi a cominciare. La scuola internazionale non si può frequentare perchè costa troppo (argomento cui è invero difficile obiettare…) e comunque è un ambiente poco confacente. Nella scuola pubblica per le ore di inglese non c’è il tempo, ma per recuperarlo le ore di religione – due alla settimana, e non è nulla- non si toccano (questo però dipende, almeno sulla carta, anche da noi: e se in massa diventassimo “non avvalentisi”, mostrando però regolare certificato di frequenza al catechismo? Anche così si sarebbe “pecore nere”?). Le faccciamo al pomeriggio? No, perchè a scuola ci fanno difficoltà, e poi bisogna andare a calcio, basket, judo, sushi, sashimi, tataki e sudoku… Mi pare che così non si vada lontano. Quest’estate ero in Grecia, Agios Nikolaos, isola di Creta: in quel Paese, imparare l’inglese fin da piccoli, integrando privatamente l’insegnamento -peraltro non limitatissimo- della scuola pubblica, è un imperativo categorico per tutte le famiglie. E i risultati si vedono: la comunità degli studenti greci nelle università UK è la terza per numero in valore assoluto, dopo Cina e India. Tenendo però presente che la Grecia ha poco più di undici milioni di abitanti, provate un po’ a calcolare quanto fa in percentuale… E non ditemi che loro hanno Tsipras, perchè non vale!

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