consigli e risorse per essere cosmopoliti

Diario di un anno vissuto pericolosamente: cosa abbiamo fatto, pensato, imparato?

Non avrei mai pensato di dover dire a mio figlio di 8 anni di evitare le persone. Se dovessi riassumere l’anno 2020 in una frase, forse sarebbe questa: “evita gli altri!”.

Negli ultimi scorci del 2020 ci siamo ormai abituati a tante cose tutto: l’amaro conteggio delle vittime, i racconti di chi ha avuto il virus e se l’è cavata, le mascherine, i disinfettanti, l’attenta analisi costi-benefici da intraprendere prima di accettare di vedere qualcuno fuori dal nucleo familiare (siamo all’aperto? non saremo in troppi? non è meglio una passeggiata?), la comparazione tra i vari tipi di vaccino.

Ecco, lettera per lettera, il diario di un anno vissuto pericolosamente.

 A come APPRENDERE

Tante sono le cose che abbiamo appreso da questa pandemia da Covid-19, a parte l’ovvia infarinatura di virologia ed epidemiologia, che però faremmo meglio a lasciare agli addetti ai lavori. Insomma, possiamo considerare questa situazione anche come una potenziale opportunità di apprendimento? In parte sì.  Vi butto lì alcune piccole e grandi cose che imparato io, in ordine assolutamente sparso e senza criteri di importanza.

  • Ho imparato molto di più sulle riunioni a distanza e sugli strumenti di videoconferenza, sperimentando un mix fatto di Skype for business, Google Meet, Cisco Webex e Zoom (e commettendo e poi correggendo una infinità di errori);
  • Ho imparato a prendere decisioni quotidiane in un clima di incertezza: sanitaria, lavorativa e non solo;
  • Ho imparato, ancora una volta, che le crisi globali hanno bisogno di risposte globali e che l’urgenza di un pericolo comune può favorire una collaborazione senza precedenti;
  • Ho imparato a lavorare da casa, con tutti gli svantaggi e i vantaggi che ciò comporta;
  • Ho imparato ad apprezzare ancora di più la mia famiglia;
  • Ho imparato a sanificare regolarmente gli oggetti che tocco di più: le chiavi, il telefono cellulare, la maniglia della porta di casa, la carta di credito;
  • Ho imparato a tagliarmi i capelli da sola (e ne traggo molta soddisfazione);
  • Ho imparato a fare a meno di molte cose che amo fare (almeno per ora).

E voi?

C come COSE (NUOVE)

Grazie a questa pandemia, ora sono l’orgogliosa comproprietaria di una serie di oggetti che prima avrei giudicato superflui: un biliardino (piazzato nel bel mezzo di una stanza da letto), una cyclette degna di una palestra (collocata in bagno), un volante con sostegno e pedali, connesso a videogiochi di automobili (che sta sempre in mezzo), due sedie sdraio (da aprire all’occorrenza per godersi il sole in balcone), un cassetto pieno di mascherine, spray disinfettante, moduli di autocertificazione, guanti di lattice.

Sono la proprietaria di un castello? No, sono solo un genitore con tre figli di età diverse nell’era del distanziamento sociale.

I come INSIEME

È straniante sfogliare gli album di foto passati. Cose accadute un anno fa sembrano datate. Istantanee scattate con amici durante feste o compleanni, viaggi in altri continenti, foto di classe dei figli: sembra tutto incredibile e lontanissimo. Una straordinaria lezione di vita: mai dare nulla per scontato, neanche il poter stare insieme.

L come LAVORO (NELL’ERA DEL COVID)

Il lavoro nel lockdown ha preso diverse strade, alcune solo pesanti, altre drammatiche. C’è chi il lavoro l’ha praticamente perso, almeno per il momento (gli amici musicisti, coloro che svolgevano attività connesse al turismo), chi gli è aumentato diventato molto più pericoloso (gli amici medici e il personale sanitario), chi gli è aumentato e cambiato tra le mani.

L come LOCKDOWN

In principio fu il lockdown. A marzo era un’esigenza drammatica per gran parte del nord e un esercizio in bilico tra prevenzione e solidarietà per il centro e il sud della penisola. Poiché il lockdown era oggetto di curiosità di amici e conoscenti che vivono in altri paesi europei o oltre atlantico, così spiegavo loro quei giorni: “come sapete l’Italia è in un blocco quasi totale: sono aperti solo supermercati, farmacie, edicole e tabaccherie. Questo virus è esigente: preferisce gli anziani ai più giovani, gli uomini alle donne, i malati fragili ai sani. È una selezione crudelmente darwiniana (anche se il contrario potrebbe essere peggio: sarebbe un dramma se prendesse solo i bambini …). Speriamo che non muti. Passando alla nostra vita quotidiana, possiamo ancora uscire a fare una passeggiata nel nostro quartiere, ma non possiamo mai essere in gruppo, quindi – se andiamo – lo facciamo individualmente (ad eccezione del figlio più piccolo, che ha bisogno di un adulto).”

Mi dilungavo poi a spiegare quel poco che si sapeva su questo nuovo virus e tentavo di spiegare la nozione giuridica di “autocertificazione” ad un mondo, prevalentemente angloamericano, nel quale la nozione di libertà personale è molto diversa dalla nostra.

A metà anno, mentre il virus si diffondeva quasi ovunque, erano in atto tre diverse risposte, ricordate?

  1. Il lockdown (come in Cina e in Italia). Efficiente nel ridurre la propagazione del virus ma molto costoso e con sostenibilità poco chiara a lungo termine;
  2. I test di massa: (come in Corea del Sud e in Israele). Anche qui una misura molto costosa, che richiedeva in quel momento una tecnologia ancora sofisticata e un sistema di tracciamento e gestione dei dati di pari efficienza;
  3. L’immunità di gregge (l’approccio iniziale del Regno Unito). La risposta più immorale e più rischiosa. Ed infatti sappiamo come è andata a finire…

Poi i confini tra una risposta e un’altra si sono andati confondendo e la situazione è sfuggita di mano, in ogni paese in modo diverso.

M come MORALITA’

Il Covid ha posto nuovi problemi morali. In che modo tuteliamo gli altri, proteggendo noi stessi? Questi nuovi problemi morali si possono riassumere con una storiella. Estate scorsa, una spiaggia qualsiasi. Una ragazzina, che chiameremo X, siede al tavolino di uno stabilimento balneare. Poco distante, alcuni conoscenti che, come lei, hanno tra diciotto e venti anni. Chiamiamoli A e B. Sono un ragazzo e una ragazza. Chiacchierano e, tra un racconto e l’altro, la confessione, del tutto casuale: X afferma di essere stata in un luogo della penisola dove si è sviluppato un focolaio di COVID-19 e, una volta tornata, di aver anche frequentato uno stabilimento poco distante dove quattro persone sono risultate positive.

“Ma non hai fatto il tampone?” chiede B, la ragazza seduta poco distante, un po’ allarmata,

“Sì, l’ho fatto ieri”,

“E cosa ti hanno detto?”, la incalza A

“Non lo so ancora, mi danno il risultato oggi pomeriggio”. Segue un silenzio imbarazzato.

Perché X non era a casa? Perché attendere il risultato di un tampone facendo finta che tutto sia perfettamente normale? Non poteva rinunciare ad un giorno di mare? Cosa pensavano mai i genitori di X? E loro, come si comportano con gli altri?

Ecco, il COVID-19 non è solo un’epidemia che, per la sua portata, è diventata pandemica, ma è anche una formidabile occasione morale di osservare nell’intimo i nostri comportamenti e la nostra responsabilità di fronte ad una collettività.  E di misurare i comportamenti degli altri, ovviamente, scoprendo – sovente – che sono molto diversi dai nostri.

La storia ha un lieto fine: il giorno successivo il risultato del tampone arriva e X è negativa. Il problema morale, però, non cambia: le cose potevano andare diversamente. Contrarre il COVID-19 non è certo peccato, ma avere fondate ragioni per temere di averlo e andarsene in giro comunque, per futili motivi, è veramente da incivili.

O come OTTIMISMO

La ragione mi spinge ad essere scettica; quel po’ di saggezza che gli anni mi hanno lasciato mi porta spesso a pensare il peggio. Però, alla fin fine, proprio non ce la faccio: io la mattina mi sveglio contenta.

Contenta di che? Contenta di esistere, contenta di stare al mondo, fiduciosa che il meglio, nel lungo termine, debba sempre venire (anche se, come si suol dire, nel lungo termine siamo tutti morti).  Sono contenta di affrontare la giornata, di bere il mio caffè, certa che un fallimento possa essere una scoperta, una ferita una crescita e che quello che pare impossibile oggi sia fattibile domani. Temo che questo innato ottimismo abbia a che fare più con la chimica del mio cervello che con la realtà, ma questo non mi sconforta, neanche quando mi gira proprio male.

Malgrado quest’ottimismo temperamentale – o forse proprio per via di esso – mi irritano gli esercizi teleguidati di ottimismo collettivo: li trovo vuoti come l’improvviso senso di italianità che colpisce i miei connazionali durante i mondiali di calcio. E, visto che siamo in tema, ho la stessa reazione nei confronti dei botti di Capodanno: mi sa che sono allergica.  Sono stata dunque allergica anche alla retorica del “ce la faremo”. Ve lo ricordate? Cartelloni e lenzuola con arcobaleni variopinti e sempre la stessa scritta tracciata da mani non sempre infantili: ce la faremo. E poi le persone affacciate sui balconi, i canti stonati, il tentativo di comunità di questi flashmob improvvisati. Durante i flashmob, alle 6 del pomeriggio, almeno nei primi mesi, preferivo la forse inutile e sempre confusionaria conferenza della Protezione civile.

R come RICERCA SCIENTIFICA

In questi mesi ci siamo abituati ad ascoltare nomi e a riconoscere volti di medici, epidemiologi, virologi, biologi, di ricercatori ed esperti, di personale sanitario e di tecnici di laboratorio. Ci siamo affidati alle parole di uno, poi abbiamo scoperto che contraddicevano quelle dell’altro. Che uno spiega troppo poco (ma l’altro parla troppo!).

Ma allora “la scienza” è credibile o no? La verità è che abbiamo assistito e che stiamo assistendo ad un processo scientifico che, di norma, sarebbe solo per addetti ai lavori e, invece, si sta svolgendo proprio davanti ai nostri occhi. Come funziona la scienza? Dato un fenomeno, si formulano ipotesi, si testano, si trovano risultati, si discutono, si pubblicano. Ci si prende dei meriti. Si formulano ulteriori ipotesi, non tutte suffragate dai dati. Si fanno altri studi, per approfondire la veridicità dell’ipotesi originaria. Si scopre che i risultati cui si era giunti non sono sempre validi ma validi solo al presentarsi di certe circostanze, li si contesta, si discute, si ripete l’esperimento, a doppio cieco e con altre variabili. Si pubblicano altre evidenze. Io immagino il processo scientifico sia più o meno così. Passo dopo passo, esso conduce alla comprensione di nuovi fenomeni e, alla fine, ad un progresso che ci renderà la vita migliore.

Anche la scienza, dunque, sbaglia, ma ha nel suo processo la possibilità di rimediare gli errori. L’ignoranza della scienza, invece, sbaglia sempre. Per questo io credo nella scienza.

S come SCUOLA NEL LOCKDOWN

La scuola online è stato un incubo che non ho ancora dimenticato. E voi?

Io e mio marito abbiamo tre figli: tra marzo e giugno 2020 c’erano cinque videoconferenze e cinque frustrazioni che si incrociavano per i corridoi. Aggiungici la difficoltà di dover seguire il figlio piccolo, improvvisamente svogliato, durante le lezioni e i compiti, mentre io lavoravo. Come tutti i genitori, ho sperimentato diversi approcci: dal mettermelo vicino (e interrompersi a vicenda ogni secondo), dal lasciarlo nella sua stanza con l’altro computer (e trovarlo che cerca su you tube video di nuovi modelli di automobili). Qualsiasi approccio è stato fallimentare. Gli altri figli, dal canto loro, non si divertivano mica. La primogenita era tesa: a inizio 2020 doveva sostenere l’esame di maturità e scegliere l’Università in un contesto davvero incerto; la secondogenita dichiarava pubblicamente l’inutilità delle lezioni online (peraltro, da liceale quale è, la situazione si protrae anche quest’anno scolastico…).

La scuola online non è, come un singolo corso online, una piacevole integrazione ad altre conoscenze. La scuola online è stato un enorme esperimento sociale, di cui purtroppo vedremo gli esiti in futuro. E aggiungo che noi siamo fortunati. In quei giorni la mente andava ai bambini dei campi rom, ai figli degli stranieri, a chi non ha computer o connessione o spazio perché non ha tante altre cose. Mi fermo qui: molti che mi leggono ci sono passati.

T come TERRAZZI

Una delle cose che ci resterà della pandemia è il recupero, la riconsiderazione e la valorizzazione degli spazi aperti, degli spazi comuni, degli spazi pubblici ma non troppo affollati e anche delle seconde case in posti improbabili.

Abbiamo sfruttato tutto: balconcini sino a ieri usati solo per le piante o le scope, terrazzi condominiali dove far scorrazzare i bambini, cortili di palazzi utilissimi a girare silenziosamente in tondo, piccoli parchi di quartiere sino a ieri frequentati solo da proprietari di cani.

Sono stati recuperati da cantine e soffitte vecchi pattini a rotelle e corde per saltare, skateboard di adolescenti ormai invecchiati e biciclette un po’ arrugginite ma rimesse a nuovo. Un profluvio di oggetti semplici e intramontabili da usare come scusa per muoversi e stare all’aperto.

Forse, mi auguro, avremo imparato ad apprezzare di più le piccole cose: un balcone, un raggio di sole, una finestra che inquadra un albero. In attesa, ovviamente, di ricominciare a viaggiare

V come VACCINO

Quando sarà il mio turno, io mi vaccino. Tutto qui. Il resto sono solo Auguri per un buon Inizio!

 

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