Un paio di settimane fa, mentre camminavo verso casa, ho intravisto distrattamente un piccolo assembramento di persone davanti ad un cassonetto. La città in cui vivo sta passando uno dei suoi momenti peggiori, vuoi per l’incapacità e l’insipienza di chi la governa, vuoi per l’inciviltà di chi vi risiede; mi aspettavo quindi di trovare l’ennesima scena di degrado: poltrone, scaldabagni o materassi abbandonati per strada.
Non mi aspettavo, invece, una piccola biblioteca abbandonata così, qualche centinaio di libri, taluni anche con belle rilegature, accatastati davanti al cassonetto. Un tizio in giacca e cravatta ne sfogliava uno, mentre alcune signore scorrevano i titoli parlottando tra loro, qualcuno scuoteva la testa per lo sconcerto.
Lo stesso sconcerto l’ho provato io: gettare via un libro mi è sempre sembrato un reato o un’eresia. Anche quando si fosse trattato di un vecchio manuale di diritto tributario (si può concepire qualcosa di più tedioso?) c’è sempre qualcun altro che ne può fare un qualche uso. In un’era in cui è anche diventato più facile che domanda e offerta s’incontrino (sui social network esistono numerosi gruppi con migliaia di iscritti, del genere “Te lo regalo se vieni a prendertelo”) non si capisce come si possa abbandonare in strada ciò che può essere ancora utilizzato. E nulla è più utilizzabile di un libro.
Ma è anche il segno dei tempi che cambiano, tempi in cui il libro diventa una commodity come un’altra, in cui sembra non valere più di un filone di pane o di un litro di latte.
La cesura con il passato è netta. Dapprima, essa ha toccato solo i contenuti dell’oggetto-libro. Fino agli anni ’80 – almeno nelle famiglie colte – le grandi letture formative, da “Guerra e pace” a “Madame Bovary” si facevano tra l’adolescenza e la giovinezza. Si leggevano i classici che ho menzionato in questo post – per conoscere e conoscersi. Poi la televisione ha preso sempre più il sopravvento e ci si chiedeva se bambini, ragazzi e adulti sempre più videodipendenti avrebbero mai avuto il tempo da dedicare alla lettura. Subito dopo la televisione è stata l’era dei primi videogiochi e la sfida dell’immagine alla parola scritta si è ampliata.
E’ passato altro tempo ed è arrivato il web e poi tutto ciò che è digitale. Nella lettura, intanto, sono cambiati i gusti. Gli adolescenti sono passati dai classici ad Hunger Games e la formazione dei giovani adulti avviene principalmente sui romanzi fantasy. Ma la vera questione – come dimostrano i libri gettati a terra – è che non è solo mutato il contenuto (come è sempre avvenuto tra una generazione e l’altra), ma è cambiato il contenente.
La rivoluzione digitale ha cambiato tutti i mercati, tutti i prodotti e i servizi. I più ovvi sono stati l’industria cinematografica, quella musicale e, appunto, l’editoria. Ne hanno subìto i danni le sale cinematografiche (ma non i film), i dischi, i libri e la carta stampata in genere.
L’industria cinematografica ha saputo confrontarsi con la televisione prima e con lo streaming poi, ma ne hanno fatto le spese i cinema, per cui tante sale hanno chiuso.
Anche nell’industria musicale lo streaming ha cambiato le carte in tavola. Il mercato del CD è diventato di nicchia, la musica si ascolta principalmente in streaming, con spotify e altri strumenti. Ciò ha abbassato i prezzi di fruizione della musica stessa e diversificato l’offerta, ma ha anche mutato la percezione della nozione di “disco”. Si è assottigliata la nozione di un’unità musicale – l'”album” – intesa come tale dall’artista che l’aveva prodotta. Ci sono principalmente brani, da scaricare e affiancare a piacere nel proprio lettore. La cosa buffa è, come fece notare Umberto Eco parlando di calligrafia e penne stilografiche contrapposte al computer, che quello che diventa obsoleto come strumento di massa, rispunta come strumento di nicchia amatoriale. Entrambe le mie figlie adolescenti non usano mai la parola “disco”, ma solo la parola “canzone”, eppure si sono volute comprare ultimamente “un vinile” dei loro cantanti preferiti, da appendere al muro o da tenere in camera. Pare sia l’ultima tendenza…
Lo stesso fenomeno che è avvenuto per la musica si sta verificando per il libro (e se è meno dirompente è solo perché le persone, tristemente, leggono meno). La rivoluzione digitale ha spostato l’attenzione dal contenuto al contenitore, per cui non conta più il libro in sé. Chi ha uno strumento digitale di lettura parla dello strumento e non di ciò che ci ha caricato sopra. Anche in questo caso, come nel caso della musica digitale, il lettore perde il senso di unità che caratterizza un’opera. A seconda di quello che si è caricato, l’ultimo thriller o la saga di vampiri per adolescenti magari sta accanto a Flaubert o a Dickens. Questa confusione si poteva verificare anche sugli scaffali di una normale libreria, ma sembra destinata ad ingigantirsi con i dispositivi di lettura digitale. Inoltre non sappiamo se questi dispositivi sono fatti per durare oppure – come i lettori di CD musicali – sono destinati ad essere rimpiazzati da un’altra tecnologia ancora più avanzata. In casa nostra il Kindle paper white impera. Lo usano le figlie, lo usa talvolta ma non sempre, mio marito. Lo possiedono ed usano anche i miei genitori. Io sono molto a favore, per l’indubbia comodità, ma proprio non ce la faccio a misurare un libro in percentuale e di quel poco che ho letto sul Kindle m’è rimasta una memoria confusa e impastata. In questo devo essere antica. Il caro vecchio libro non è dunque da buttar via: certo occupa spazio e accumula polvere, ma si può conservare senza che si cancelli da un giorno all’altro, si può prestare e regalare, trattare amorevolmente e annotare selvaggiamente e, soprattutto, non ha bisogno di energia elettrica per funzionare.
Tornando ai mercati che cambiano per via delle tecnologie digitali, gli esempi sono innumerevoli: i giornali e i quotidiani in particolare (dell’incerto futuro del giornalismo si discute ormai da tempo), il turismo (l’agenzia di viaggi come può competere con il web?), ma c’è anche il mondo del retail, del commercio al dettaglio.
Sono già vari anni che esiste un indice lugubre come Death by Amazon (morte a causa di Amazon), che misura la performance delle aziende che si occupano di commercio al dettaglio.
La distruzione creatrice riguarda anche gli strumenti di pagamento; nascono applicazioni per smartphone che consentono sia di inviare denaro così come di pagare nei negozi e online (tra cui l’app di un’azienda italiana di successo come Satispay).
E ancora non è finito. Anche il settore della formazione è stato rivoluzionato dal digitale: quella universitaria, cambiata con i MOOC (anche se la rivoluzione MOOC si è interrotta), subisce anche la concorrenza delle lezioni gratuite via podcast e la formazione professionale potrebbe subire la concorrenza di Google. Chi legge l’Economist lo sa, perché su ogni numero c’è una grossa pubblicità di qualcosa che si chiama Grow with Google che offre corsi per supportare le imprese nel processo di trasformazione digitale. Tra i vari programmi anche ricche borse di studio. Inizialmente disponibile solo per i residenti negli USA, ora esiste anche un Grow with Google per l’Europa).
In futuro cambieranno anche i servizi bancari e, forse, la moneta, anche se non penso che sarà con Bitcoin, ma con qualche altro sistema più certo e tutelato (Bitcoin seduce ma non convince: non è una moneta, non è unità di conto, non è riserva di valore, non è mezzo di scambio. Non ci si può far la spesa o un bilancio).
Un giorno, forse, la rivoluzione del digitale arriverà al mondo del cibo, e potremo autoprodurre il pranzo con la stampa 3D; non sarà più solo cibo per gli astronauti o un esperimento per coraggiosi ma per tutti
Sono tutti cambiamenti che muteranno il nostro mondo come consumatori e che cambieranno, di converso, anche il mondo dei nostri figli come lavoratori. Chi non capisce le nuove regole è fuori dal gioco e della produzione. In molti settori industriali e mercati come, ad esempio, quello delle piattaforme di servizi, startup e provider di nicchia hanno scatenato una rivoluzione. Le aziende tradizionalmente dominanti rischiano di ritrovarsi rapidamente a combattere una lotta per la sopravvivenza. E, come scrivevo in Riflessioni sul futuro dei nostri figli. Quale mondo del lavoro li attende?, se alcune cose ci appaiono ridicole o molto lontane perché il futuro è sempre distribuito in maniera imperfetta e mai in modo uniforme.
Cosa fare? Dobbiamo correre verso il futuro o chiuderci nel passato? Forse nessuna delle due cose. La moltiplicazione esponenziale del digitale sta creando una sconnessione con il passato. Quelli della mia età, i c.d. immigrati digitali, fungono da generazione-ponte tra l’analogico e il digitale. Penso che sarà compito nostro, nei decenni a venire, essere ben radicati nel presente, guardare il futuro ma saper raccontare il passato. Un giorno saremo gli ultimi a ricordarlo.
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