Andrà bene a scuola o no? Prima o poi se lo chiedono tutti i genitori. Cosa favorisce il successo scolastico? Conta più il talento o l’impegno? Da dove nasce la motivazione a studiare? In che misura è interiore? Se non lo è del tutto, come incentivarla? Si tratta di domande cui è difficile rispondere in modo definitivo, perché sono troppi i fattori in gioco. Tuttavia, le scienze cognitive ci aiutano oggi a conoscere ed utilizzare meglio una parte degli incentivi e dei disincentivi, a scuola e in famiglia.
Uno degli aspetti più importanti del supporto all’apprendimento è la gratificazione. C’è chi è più reattivo davanti alla gratificazioni e chi lo è meno (perché è guidato da una motivazione intrinseca, dal “gusto” per una certa attività, da una sorta di “vocazione” o di “chiamata”), ma quasi tutti si sentono gratificati quando sanno fare bene una cosa e quando questo “saper fare” è riconosciuto dagli altri. Così è anche per i bambini e per gli adolescenti.
Per un bambino o un adolescente, parte della gratificazione arriva dall’essere esplicitamente lodato per aver ottenuto un buon risultato. Ma quando lo studente, bambino o adolescente che sia, ottiene un buon risultato come va lodato? Ebbene la risposta è chiara: è meglio lodare lo sforzo e l’impegno e non l’intelligenza.
Una ricerca effettuata dalla psicologa Carol Dweck dell’Università di Stanford ha portato alla conclusione che il modo in cui i genitori offrono approvazione influenza l’idea che bambini e ragazzi hanno di se stessi. Dweck ha condotto studi con centinaia di adolescenti ai quali venivano somministrati test di vario tipo. Alcuni, all’atto del superamento dei test venivano elogiati per le loro capacità e la loro intelligenza, altri per l’impegno. Si è scoperto che quelli lodati per l’intelligenza erano molto più propensi a rifiutare l’opportunità di svolgere nuovi e più impegnativi test, per timore di non essere all’altezza del risultato precedente. L’intelligenza, infatti, sembra qualcosa di fissato ex ante. I ragazzi elogiati per il loro impegno, invece, erano pronti a sottoporsi ad ulteriori test: l’impegno è come il volume di uno stereo, lo puoi regolare, dipende dalla tua volontà.
Se ne desume che bambini e ragazzi che si sono sforzati per ottenere qualcosa sono più ottimisti e determinati e sono in grado di superare le avversità (hanno una mentalità orientata alla crescita, ossia una “growth mindset”). Del resto non si può forse dire la stessa cosa degli adulti?
Dovendo scegliere tra due teorie del successo (intendendo qui per successo solo il fatto che un individuo riesca a fare ciò che vuole fare o ciò che deve fare), delle quali una è basata sull’intelligenza e sul talento e l’altra sulla volontà e sull’impegno, penso sia molto meglio scegliere la seconda. In fondo, volere è spesso potere, specie se la volontà diventa azione.
All’inizio del 2011, uscì negli USA il libro “Il ruggito della mamma tigre” di Amy Chua. Come molti ricorderanno, l’autrice, una giurista americana di origine cinese che insegna a Yale, aveva applicato i metodi cinesi, con cui era stata cresciuta, alle due figlie nate e cresciute negli USA.
Nel libro, Chua raccontava di come si era messa alle costole delle figlie, vietando loro di vedere le amiche o vedere la televisione, per dedicarsi a ore e ore di studio ininterrotto, sia di materie scolastiche (ma nel libro se ne parla pochissimo: l’eccellenza scolastica è data per scontata), sia di strumenti musicali (di cui, al contrario, si parla tantissimo).
Negli Stati Uniti il libro, grazie anche ad un provocatorio titolo uscito sul New York Times, creò un ampio dibattito, perché toccava un nervo scoperto: la possibile superiorità del modello cinese e il conseguente timore che la Cina superasse economicamente gli USA. Per mesi, l’opinione pubblica americana e i media discussero di educazione. Si finì così per creare una contrapposizione tra educazione permissiva occidente americano ed educazione autoritaria asiatica. In realtà, il libro di Chua, specie se letto in lingua originale, era largamente ironico. Gli inflessibili principi dell’educazione asiatica a fatica funzionarono con la primogenita di Chua e per nulla con la secondogenita, la più ribelle. Il libro è la storia di un conflitto tra culture ed anche la storia del fallimento di uno stile educativo “esportato” in una cultura diversa da quella per il quale era nato.
Oltre al sapiente marketing del libro e alle innumerevoli polemiche che ha suscitato (specialmente tra quanti non lo avevano letto per intero), c’era però un elemento di fondo che, a mio parere, può essere utile ai genitori italiani e che è in linea con le evidenze delle ricerche di Carol Dweck.
Quello che i genitori cinesi sanno, afferma ad un certo punto Chua, è che niente è divertente finché non si è bravi a farlo e che, per essere veramente bravi, c’è bisogno di molto impegno. Al di là dei meriti e demeriti del libro, che, in quanto memoir, racconta semplicemente la storia di un’educazione, ancora una volta emerge la tendenza ad incoraggiare e premiare l’impegno, piuttosto che l’intelligenza o il talento: qualcosa che, in effetti, è molto asiatico ma anche molto americano (non è forse una esplicazione dell’American dream?).
In Italia, mi pare, abbiamo la tendenza opposta. Basta andare davanti a qualsiasi scuola per sentire frasi del tipo “Giulia farà il Liceo Classico perché non è portata per la matematica”, o “Francesco non ha talento per le lingue straniere”, oppure “non capirò mai niente di fisica!” o, ancora, “Signora, le dico che Alessandro non riuscirà mai bene in latino”.
In Italia, genitori, studenti e insegnanti sono impregnati di questa teoria quasi vocazionale dell’intelligenza e del talento che si declina tutta in un “sei portata”, “non sei portata”. Ora, non intendo negare che esistano alcuni talenti: ho la fortuna di avere tra i miei amici alcuni musicisti che hanno anche il dono dell’orecchio assoluto. Li ho visti prendere in mano uno strumento nuovo, mai suonato prima, e farci uscire da subito musica anziché rumore. Tuttavia il riconoscimento di questi (rari) talenti non deve influire negativamente sul messaggio educativo: conosco musicisti altrettanto bravi che non hanno l’orecchio assoluto. Cosa vorrà mai dire tutto questo?
Avanzo, allora, la mia ipotesi: e se tutto questo “essere portati” corrispondesse solo ad un gusto? Se non fosse, quindi, che semplicemente “non siamo portati” per quello che, tendenzialmente, non ci piace? Se così fosse, non possiamo escludere che possa piacerci in futuro, se solo lo vedessimo sotto un’altra luce e in un altro contesto e se solo ci mettessimo impegno.
La conoscete la famosa frase di Henry Ford? “Che tu creda di farcela o di non farcela avrai comunque ragione”! Io non ero portata per le lingue finché non sono diventata bilingue (mica serve essere un genio, serve essere esposti alla lingua). Io non ero portata per la matematica, ma poi ho scoperto che, in fondo, affogavo in una matassa di antipatia per il concetto di numero e le nozioni astratte, pigrizia nel risolvere logicamente problemi e cattivo insegnamento ricevuto nella materia. Oggi so che, forse a passo di lumaca e non di gazzella, se mi ci metto, posso (d’altronde devo: mi tocca talvolta anche aiutare con i compiti di matematica…).
Penso che ognuno di noi, rovistando nella pieghe del proprio passato, possa riconoscersi in esperienze simili: niente è divertente finché non si è bravi a farlo; bravi si può anche diventare.
L’esperienza di vita dovrebbe portarci a capire che, con la tenacia, si può fare quasi tutto. Magari non si può diventare una campionessa di pattinaggio sul ghiaccio, ma si può imparare a pattinare sul ghiaccio.
Cosa ne possiamo concludere in termini di educazione? Che così come in caso di riuscita è sempre meglio premiare lo sforzo e l’impegno anziché le capacità e l’intelligenza, similmente sarà il caso di comportarci in caso di non riuscita.
Ad una figlia, ad un figlio che ha preso un 4 (o perso una partita a tennis, è uguale) cerchiamo dunque di non dire mai “non sei proprio portato” (per la matematica, per il tennis) ma sempre spiegare che ha sbagliato nella quantità o nella qualità della preparazione (nello studio, nell’allenamento) ma che tutto si può correggere, basta capire dove si è sbagliato ed agire di conseguenza.
C’è chi va più veloce e chi va più lento ma, alla fine quello che conta è l’impegno. Che tu creda di farcela o di non farcela, avrai comunque ragione.
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Sono pienamente d’accordo con te. Anch’io ho letto il libro di chua e ho colto il tuo stesso messaggio…. Ci piace fare qquello in cui siamo bravi…e l esercizio fa il maestro, in maths come in musica come in uno sport. Spero di riuscire a farlo capire anche a mia figlia che,in terza media, vuole scegliere il classico invece dello scientifico perché si sente più portata per lo scrivere che per i numeri!
Una piccola perla di saggezza british: “Genius is 1% inspiration and 99% perspiration” 🙂
Il libro di Chua mi incuriosisce e credo che lo leggerò. Mi convince il messaggio: mi piace ciò in cui riesco bene.
Ma credo sia anche importante un altro aspetto: mi piace e riesco bene in ciò che mi affascina, che suscita il mio interesse. Umberto Galimberti sottolinea l’importanza dell’aspetto “erotico” della scuola. Gli studenti “apprendono per fascinazione”, specialmente gli adolescenti. Lui si spinge a dire che essendo l’amore uno dei nuclei dei pensieri degli adolescenti, è sostanzialmente la passione che spinge ad approfondire questa o quella materia. Insomma bisogna innamorarsene. E sarebbe auspicabile che gli insegnanti tornino a ricercare le radici del proprio amore della materia che insegnano.
Una piccola chiosa. Il libro di Amy Chua è godibilissimo, però la traduzione italiana non consente di coglierne lo spirito. Un solo esempio: nelle prime pagine, l’Autrice dichiara che sua figlia a tre anni leggeva Sartre, perchè indicava una porta del supermercato. Il passo in italiano è del tutto incomprensibile, e lascia con il pensiero che l’autrice stessa sia a dir poco una presuntuosa. Nell’originale inglese però si coglie tutta l’ironia della frase, quando si scopre che la bambina al supermercato aveva indicato col ditino la porta con l’indicazione “No Exit”, che è appunto il titolo in traduzione inglese della commedia di Sartre “Huis Clos”, reso invece in italiano con “A porte chiuse”.
Gesù! Questo mi spiega perchè in Italia nessuno ha capito il libro di Amy Chua, neanche nelle parti volutamente ironiche! Chi lo volesse leggere, allora dovrebbe farlo in inglese!
Grazie del consiglio. Ho letto il libro di Amy Chua (in italiano) e devo dire che la sua ironia io non l’ho colta 🙁 . Ho colto tuttavia tutti i suoi dubbi sul suo ” metodo cinese”, che non è certo proposto come il migliore in assoluto. Il messaggio interessante è certamente quello sottolineato da Elisabetta. Piace ciò in cui si diventa brava fare. Quel che mi è piaciuto nel libro è stata l’idea che non si raggiungono eccellenti risultati senza impegno. La convinzione nostrana che il talento sia qualcosa che venga dall’alto, una sorta di destino che quasi non dipende da noi, è decisamente sfatata. Gli orientali riescono così bene a costo di una disciplina ferrea, di moltissimo esercizio, di un metodo che ha poco a che fare con la facilità di cui sembrano beneficiare i talentuosi “naturali”.
Ho provato questo we ad applicare una versione light del metodo cinese.
Domitilla doveva fare una lettura. Ho preteso l’eccellenza. Generalmente qualche errore lo lascio passare. Questa volta appena ne faceva uno le facevo ricominciare a leggere la storiella ( una paginetta, è in seconda elementare) dall’inizio. Ebbene, ovviamente mia figlia si è ribellata, ma alla fine quando è riuscita a leggerla perfettamente, ha iniziato a saltare dalla felicità ( la lettura è il suo scoglio principale) e ha voluto anche rileggerla al papà. Lo stesso con le tabelline!
Anche sul talento “naturale” c’è molto da dire. Arturo Antunes Coimbra, in arte Zico, considerato uno dei più grandi calciatori di sempre, aveva un colpo “segreto”: trasformava quasi ogni calcio di punizione in un goal, perchè sapeva lanciare la palla esattamente nel “sette” della porta anche da lontano. Ebbene, pare che delle sue otto ore di allenamento quotidiano, due intere fossero dedicate a questo particolare colpo. Talento sì, ma molto ben coltivato
Ciò detto, non bisogna esagerare.
Amy Chua mi suscita qualche dubbio, e un poco di tenerezza, quando racconta, dopo che una delle figlie non è stata ammessa ad un prestigioso conservatorio, di esser stata avvicinata da uno dei membri della commissione, con la proposta di fare ugualmente lezione in privato alla ragazza, naturalmente a prezzi di caviale, “perchè sa, è bravissima, ma sfortunatamente quest’anno non c’erano abbastanza posti”. Lei, cino-americana, subito acconsente. Io, italo-mediterraneo-levantino, qualche interrogativo me lo sarei posto. 🙂
Caro Francesco, mi sembra che il libro rappresenti perfettamente il limite da non valicare. E’ tutto troppo. Troppo permissivo (con la moglie) il marito, troppo rigida lei! La protagonista-tigre tuttavia diventa sempre più autocritica e sempre più amareggiata delle ricadute sui rapporti con le figlie. E’ un libro sui dubbi più che sulle certezze. Dubbi su entrambi i modelli e soprattutto sul fatto che ci sia una ricetta valida per tutti. A me è servito anche a scardinare un po’ il mio senso di colpa sul richiedere un serio impegno a mia figlia in qualsiasi cosa faccia, a fronte di frasi del tipo:”sono piccoli poverini”. Noi viviamo in un’epoca in cui ci dimentichiamo (anche per stanchezza, cedere è più facile) perfino di quella regola di grande saggezza con la quale siamo cresciuti noi: “prima il dovere e poi il piacere”…
Che bella posta Elisabetta me lo ero perso. Non ho letto il libro in questione ma lo farò, mi avete proprio incuriosito. È il post mi ha dato tanti spunti di riflessione e autocritica (costruttiva). Non sono così d’accordo che ci piaccia quello in cui riusciamo. Vi racconto un mio vissuto. Io adoro cantare soprattutto da bambina ma aihme sono davvero stonata. Ciò nonostante a 6 anni ho fatto provino per entrare in un coro. Ovviamente la risposta e stata no. Li eentrata in funzione la mia modalità “cararmato” devo aver talmente stressato quel povero maestro di canto che alla fine ha acconsentito alla mia entrata nel coro anche se si è fatto promettere che avrei cantato a bassissima voce (e poi addirittura mi ha chiesto di muovere solo le labbra). Ecco il problema è quando le aspirazioni/cose che piacciono non coincidono con i ns talenti. Grazie per il post.
Raffaela, non potevo non risponderti subito!
Ho fatto anni di canto, corale e individuale: madrigali, musica sacra, rock, pop, un anno di lirica e soprattutto tanto jazz (qualche volta mi hanno anche pagato…) e ti posso dire che, sebbene io sia piuttosto intonata, che sull’intonazione, sul senso del tempo, sul fraseggio musicale, si lavora e si migliora!
E si migliora tanto, credimi, ma ti deve piacere. Tu eri molto piccola e forse anche per questo non potevi essere ben consigliata, dovevi prendere lezioni di canto e poi entrare nel coro!
Anche l’intonazione, infatti, è relativa. “Fra Martino Campanaro” è una melodia semplice: molti sono intonati quando la cantano ma non potrebbero intonare “Goodbye Pork Pie Hat” di Charlie Mingus o “Lush Life” di Billy Strayhorne (due dei miei jazz standards preferiti).
C’è, poi chi stona (perché non ha imparato ad “ascoltare” un riferimento musicale) e chi semplicemente “stecca” (perché sa ascoltare ma non sa modulare il suono) oppure anche chi “cala” (perché sforza le corde vocali e subisce la stanchezza, e con un diapason si potrebbe scoprire che sta cantando sotto di un quarto di tono o di un semitono).
E’ un discorso complesso, tuttavia, credimi, se cantare ti piace puoi imparare a cantare. Anche se non diventi Maria Callas, Ella Fitzgerald (che fece la prima audizione da ballerina! Non pensava proprio di cantare!) o Beyoncè (che ha un controllo vocale straordinario).