Educazione Globale

Stiamo facendo abbastanza per crescere figli per il mondo globale?

In un mondo globale sono interdipendenti la finanza e le economie, la catena alimentare, i processi produttivi dei beni e, ancor di più, le informazioni. Se finanza, beni e informazioni travalicano i confini statali, sono le persone, però, che rimangono confinate nell’ambito dello Stato, definite dal proprio passaporto (e pensiamo cosa vuol dire questo per chi scappa dalla povertà, dalle guerre e dai genocidi).

Per quanto dipendenti da un passaporto, tuttavia, le nuove generazioni hanno un orizzonte assai più ampio intorno e chi è genitore o educatore non può più solo pensare di crescere i futuri cittadini di uno Stato nazionale ma i cittadini di un mondo cosmopolita e globale. E questo anche – come in questi giorni – i nuovi nazionalismi riacquistano forza, perché anche laddove si rialzano muri, confini e barriere o si reintroducono dazi, essi non possono arrestare il flusso d’informazioni da una parte all’altra del mondo (persino nel caso di regimi totalitari chiusi vi sono fughe di notizie).

Questo mondo globale offre al tempo stesso nuove opportunità e presenta nuovi rischi. Ci impone anche nuove responsabilità: non possiamo quindi non curarci di ciò che avviene altrove, sia perché ne siamo costantemente informati, sia perché ciò che avviene altrove ci riguarda. Importiamo beni e alimenti dagli altri paesi, ma anche persone, culture e persino virus.

I confini dell’Europa non bastano più. Le interrelazioni tra i paesi e le economie sono molto più vaste di un tempo. Oggi diverse civiltà si confrontano in un’arena ad un tempo reale e virtuale (grazie al web) ed ha come confini solo quelli del pianeta. I nostri figli erediteranno un mondo di feroce competizione, e dobbiamo fare del nostro meglio per prepararle, investendo sull’educazione, sull’etica del lavoro, sulla capacità di vivere in contesti diversi.

Coloro che stanno cercando dunque di preparare la prossima generazione – ed in una certa misura anche se stessi – al futuro dovrebbero curarsi del raggiungimento di un livello di comfort con persone straniere, lingue straniere e terre straniere. Non formare le future generazioni per essere in grado di affrontare un ambiente internazionale è come lasciare loro un po’ analfabeti.

Essere cosmopoliti oggi vuol dire, in primo luogo, conoscere più lingue; in secondo luogo, essere pronti a spostarsi, sentendosi a casa anche quando si è lontani da casa; in terzo luogo, conoscere i grandi problemi del proprio tempo e cercare di intravederne le soluzioni, avendo interesse per l’innovazione.

  1. Conoscere ed usare più lingue (o almeno provarci!)

Il primo passo verso un’educazione più cosmopolita è quello di essere in grado di dominare più lingue. Anche se i sistemi di traduzione informatica diventano sempre più sofisticati, la conoscenza di altre lingue è ancora importante come veicolo per entrare in contatto con altre culture, in un mondo dove ci si sposta di più, per diletto, per avere migliori possibilità o per necessità.

Anche a prescindere dai vantaggi cognitivi del bilinguismo, ci sono i vantaggi pratici, che già sperimentano quotidianamente anche per coloro che non hanno voglia di viaggiare o necessità di espatriare: ad esempio quello di poter reperire informazioni sul web anche in altre lingue. Una ricerca fatta in più lingue porta frutti migliori di quella fatta in una lingua sola: ci aiuta a distinguere i siti credibili da quelli malfatti, le notizie vere dalle fake news.

I nostri figli dovrebbero avere una conoscenza non troppo approssimativa di una o, meglio, due, lingue – chiave, oltre alla lingua madre. Purtroppo l’italiano non figura ormai da tempo tra le lingue più rilevanti a livello internazionale. Sempre apprezzato per la sua musicalità, e per il ruolo che l’Italia ha in vari campi (dall’arte antica alla moda, dall’opera lirica alla cucina) l’italiano è, però, poco studiato. Tra le circa 7.000 lingue esistenti al mondo, le più parlate sono il cinese mandarino, lo spagnolo, l’inglese, l’hindi, l’arabo, il portoghese, il bengali, il russo, il giapponese (poiché si tratta di stime, fonti diverse le citano in ordine diverso; poco importa).

Se poi consideriamo non tanto il numero di parlanti, ma la diffusione internazionale tra più comunità, possiamo affermare innanzitutto che l’inglese rimarrà, probabilmente ancora per molti anni, una sorta di “lingua franca” (come ha affermato il linguista Nicholas Ostler). Accanto all’inglese, però, hanno assunto importanza altre lingue. Il cinese mandarino per chi si occupa di Asia, lo spagnolo per la sua diffusione e per il crescente peso dei latinos negli Stati Uniti (paese da sempre esportatore di cultura per il mondo occidentale). Il tedesco in Europa (perché la moneta europea, ossia l’euro, “parla tedesco” e per la crescita tedesca rispetto ad altri paesi europei), senza dimenticare il francese. Per il mondo mediorientale l’arabo sarà ancora molto importante, così come il francese in certe parti dell’Africa. Ma a prescindere da questi biechi calcoli di convenienza, nei quali ho poi trascurato di citare tante altre lingue a noi più lontane, la cosa più importante, dopo la conoscenza della nostra lingua e dell’inglese, è sempre quella di seguire il proprio gusto. Lingue romanze, germaniche o slave non importa: come insegnano i poliglotti ci sono modi di ottimizzare la conoscenza, studiando lingue vicine o della stessa famiglia linguistiche. Se uno è fluente in spagnolo è più facile aggiungere in seguito un po’ di francese o di portoghese. Chi conoscesse un po’ di cinese mandarino potrebbe trovare meno ostiche altre lingue tonali. Ogni lingua che si aggiunge, consente al cervello di diventare più sensibile al linguaggio e al superamento del proprio codice.

  1. Essere pronti a spostarsi e sentirsi a casa altrove

Le nuove generazioni crescono in questo mondo, nel quale, come argomenta Harari nel suo bel libro sulla storia degli esseri umani, la direzione della storia è verso una sempre maggiore interrelazione tra le culture. Nello stesso tempo, ricomincia a crescere, la disuguaglianza. I dislivelli tra le economie, il benessere di cui si gode in un paese rispetto ad un altro causano migrazioni verso i luoghi in cui si assicurano condizioni di vita migliori. La migrazione, pur con disagi individuali e tensioni collettive, è uno strumento efficace e naturale per ridurre la povertà globale, spostando le risorse (che in questo caso sono persone) laddove servono veramente.

Le economie in crescita attirano ogni sorta di migranti (qualificati e non) e potranno proporre o imporre (a seconda dei casi) alcune caratteristiche del proprio modello culturale, tra cui la propria lingua.

I mutamenti nei destini economici delle nazioni ci spingono a guardare oltre i confini del nostro Paese e a considerare l’idea che le vite dei nostri figli dovranno essere più ‘mobili’ delle nostre, e che loro dovranno essere pronti a vivere parti della propria esistenza in paesi o in continenti diversi. Se i nostri figli dovranno essere più pronti a spostarsi è altrettanto vero che cambiare paese, abitudini e stili di vita è oggi meno complesso che in passato. Spostarsi è diventato più facile e meno drastico; nell’Ottocento un emigrato poteva rischiare di non vedere mai più i suoi famigliari, specie se questi erano separati da un oceano, oggi può comunicare via mail o Skype con costi limitati.

  1. Essere innovatori

Il terzo punto fermo di un’educazione cosmopolita, adatta al mondo globale, è quella di mettere in grado i nostri figli di conoscere i grandi problemi del proprio tempo ed interrogarsi sulle possibili soluzioni.

Quello che sappiamo è che, sempre più spesso, il lavoro qualificato richiede la risoluzione di problemi intellettuali e tecnici. Sembra che non conti più tanto ciò che si sa, ma ciò che si può fare con quello che si sa. A scuola viene richiesto a bambini e ragazzi di memorizzare date, eventi e fatti scientifici, il che non è in sé un male; pochi, tuttavia, sanno come applicare il metodo scientifico, come formulare un’ipotesi, testarla, e analizzarne i risultati.

Nessuno sa quali saranno veramente le competenze necessarie per domani. Io ho provato a tracciarne un profilo in Scegliere la scuola e la formazione dei figli pensando al domani, ma possiamo prevedere solo pochi aspetti: quelli che fondano le proprie radici sull’oggi. La cosa migliore sarebbe insegnare cose come l’intelligenza emotiva, la capacità di apprendere, la capacità di innovare, il problema è che nessuno sa come insegnarle su larga scala. Si può inventare una scuola molto innovativa, ma come rendere “scalabile” quel modello educativo? Come renderlo accessibile gratuitamente a tutti e a quali conoscenze collegarlo?

Infine aggiungo un’ultima riflessione. Mangiamo cibo sempre più etnico (il ristorante nippo-brasiliano va più forte della trattoria che offre risotti e carbonare), ascoltiamo musica da tutto il mondo (nel centro di danza che frequento on and off da ormai da quasi trent’anni impazza il k-pop, ossia l’hip hop con una colonna sonora coreana), la maggior parte dei teen che conosco si nutre di serie tv su netflix in lingua originale, ma l’internazionalità ci piace più nei consumi che nella vita reale.

Invece un “bambino cosmopolita” ha inizio con i genitori che hanno una mentalità globale. Come scrivevo qui un’educazione internazionale, parte da noi adulti: non solo dalla conoscenza che abbiamo di altre lingue e culture, ma soprattutto dalla curiosità che conserviamo nei confronti degli altri. Genitori interessati a conoscere altre culture, disposti a cercare di parlare una lingua straniera anche se sono fuori esercizio o ne conoscono solo poche parole, avranno con più probabilità figli con una simile mentalità. Anche chi non ha le risorse economiche per viaggiare come vorrebbe, anche chi non ha avuto l’opportunità di imparare le lingue da piccolo ed è troppo impegnato per rimediare da adulto può fare qualcosa. E’ un po’ come lo stay hungry, stay foolish di Steve Jobs: forse la cosa migliore che possiamo fare è rimanere curiosi.

 

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