In un mondo globale sono interdipendenti la finanza e le economie, la catena alimentare, i processi produttivi dei beni e, ancor di più, le informazioni. Se finanza, beni e informazioni travalicano i confini statali, sono le persone, però, che rimangono confinate nell’ambito dello Stato, definite dal proprio passaporto (e pensiamo cosa vuol dire questo per chi scappa dalla povertà, dalle guerre e dai genocidi).
Per quanto dipendenti da un passaporto, tuttavia, le nuove generazioni hanno un orizzonte assai più ampio intorno e chi è genitore o educatore non può più solo pensare di crescere i futuri cittadini di uno Stato nazionale ma i cittadini di un mondo cosmopolita e globale. E questo anche – come in questi giorni – i nuovi nazionalismi riacquistano forza, perché anche laddove si rialzano muri, confini e barriere o si reintroducono dazi, essi non possono arrestare il flusso d’informazioni da una parte all’altra del mondo (persino nel caso di regimi totalitari chiusi vi sono fughe di notizie).
Questo mondo globale offre al tempo stesso nuove opportunità e presenta nuovi rischi. Ci impone anche nuove responsabilità: non possiamo quindi non curarci di ciò che avviene altrove, sia perché ne siamo costantemente informati, sia perché ciò che avviene altrove ci riguarda. Importiamo beni e alimenti dagli altri paesi, ma anche persone, culture e persino virus.
I confini dell’Europa non bastano più. Le interrelazioni tra i paesi e le economie sono molto più vaste di un tempo. Oggi diverse civiltà si confrontano in un’arena ad un tempo reale e virtuale (grazie al web) ed ha come confini solo quelli del pianeta. I nostri figli erediteranno un mondo di feroce competizione, e dobbiamo fare del nostro meglio per prepararle, investendo sull’educazione, sull’etica del lavoro, sulla capacità di vivere in contesti diversi.
Coloro che stanno cercando dunque di preparare la prossima generazione – ed in una certa misura anche se stessi – al futuro dovrebbero curarsi del raggiungimento di un livello di comfort con persone straniere, lingue straniere e terre straniere. Non formare le future generazioni per essere in grado di affrontare un ambiente internazionale è come lasciare loro un po’ analfabeti.
Essere cosmopoliti oggi vuol dire, in primo luogo, conoscere più lingue; in secondo luogo, essere pronti a spostarsi, sentendosi a casa anche quando si è lontani da casa; in terzo luogo, conoscere i grandi problemi del proprio tempo e cercare di intravederne le soluzioni, avendo interesse per l’innovazione.
- Conoscere ed usare più lingue (o almeno provarci!)
Il primo passo verso un’educazione più cosmopolita è quello di essere in grado di dominare più lingue. Anche se i sistemi di traduzione informatica diventano sempre più sofisticati, la conoscenza di altre lingue è ancora importante come veicolo per entrare in contatto con altre culture, in un mondo dove ci si sposta di più, per diletto, per avere migliori possibilità o per necessità.
Anche a prescindere dai vantaggi cognitivi del bilinguismo, ci sono i vantaggi pratici, che già sperimentano quotidianamente anche per coloro che non hanno voglia di viaggiare o necessità di espatriare: ad esempio quello di poter reperire informazioni sul web anche in altre lingue. Una ricerca fatta in più lingue porta frutti migliori di quella fatta in una lingua sola: ci aiuta a distinguere i siti credibili da quelli malfatti, le notizie vere dalle fake news.
I nostri figli dovrebbero avere una conoscenza non troppo approssimativa di una o, meglio, due, lingue – chiave, oltre alla lingua madre. Purtroppo l’italiano non figura ormai da tempo tra le lingue più rilevanti a livello internazionale. Sempre apprezzato per la sua musicalità, e per il ruolo che l’Italia ha in vari campi (dall’arte antica alla moda, dall’opera lirica alla cucina) l’italiano è, però, poco studiato. Tra le circa 7.000 lingue esistenti al mondo, le più parlate sono il cinese mandarino, lo spagnolo, l’inglese, l’hindi, l’arabo, il portoghese, il bengali, il russo, il giapponese (poiché si tratta di stime, fonti diverse le citano in ordine diverso; poco importa).
Se poi consideriamo non tanto il numero di parlanti, ma la diffusione internazionale tra più comunità, possiamo affermare innanzitutto che l’inglese rimarrà, probabilmente ancora per molti anni, una sorta di “lingua franca” (come ha affermato il linguista Nicholas Ostler). Accanto all’inglese, però, hanno assunto importanza altre lingue. Il cinese mandarino per chi si occupa di Asia, lo spagnolo per la sua diffusione e per il crescente peso dei latinos negli Stati Uniti (paese da sempre esportatore di cultura per il mondo occidentale). Il tedesco in Europa (perché la moneta europea, ossia l’euro, “parla tedesco” e per la crescita tedesca rispetto ad altri paesi europei), senza dimenticare il francese. Per il mondo mediorientale l’arabo sarà ancora molto importante, così come il francese in certe parti dell’Africa. Ma a prescindere da questi biechi calcoli di convenienza, nei quali ho poi trascurato di citare tante altre lingue a noi più lontane, la cosa più importante, dopo la conoscenza della nostra lingua e dell’inglese, è sempre quella di seguire il proprio gusto. Lingue romanze, germaniche o slave non importa: come insegnano i poliglotti ci sono modi di ottimizzare la conoscenza, studiando lingue vicine o della stessa famiglia linguistiche. Se uno è fluente in spagnolo è più facile aggiungere in seguito un po’ di francese o di portoghese. Chi conoscesse un po’ di cinese mandarino potrebbe trovare meno ostiche altre lingue tonali. Ogni lingua che si aggiunge, consente al cervello di diventare più sensibile al linguaggio e al superamento del proprio codice.
- Essere pronti a spostarsi e sentirsi a casa altrove
Le nuove generazioni crescono in questo mondo, nel quale, come argomenta Harari nel suo bel libro sulla storia degli esseri umani, la direzione della storia è verso una sempre maggiore interrelazione tra le culture. Nello stesso tempo, ricomincia a crescere, la disuguaglianza. I dislivelli tra le economie, il benessere di cui si gode in un paese rispetto ad un altro causano migrazioni verso i luoghi in cui si assicurano condizioni di vita migliori. La migrazione, pur con disagi individuali e tensioni collettive, è uno strumento efficace e naturale per ridurre la povertà globale, spostando le risorse (che in questo caso sono persone) laddove servono veramente.
Le economie in crescita attirano ogni sorta di migranti (qualificati e non) e potranno proporre o imporre (a seconda dei casi) alcune caratteristiche del proprio modello culturale, tra cui la propria lingua.
I mutamenti nei destini economici delle nazioni ci spingono a guardare oltre i confini del nostro Paese e a considerare l’idea che le vite dei nostri figli dovranno essere più ‘mobili’ delle nostre, e che loro dovranno essere pronti a vivere parti della propria esistenza in paesi o in continenti diversi. Se i nostri figli dovranno essere più pronti a spostarsi è altrettanto vero che cambiare paese, abitudini e stili di vita è oggi meno complesso che in passato. Spostarsi è diventato più facile e meno drastico; nell’Ottocento un emigrato poteva rischiare di non vedere mai più i suoi famigliari, specie se questi erano separati da un oceano, oggi può comunicare via mail o Skype con costi limitati.
- Essere innovatori
Il terzo punto fermo di un’educazione cosmopolita, adatta al mondo globale, è quella di mettere in grado i nostri figli di conoscere i grandi problemi del proprio tempo ed interrogarsi sulle possibili soluzioni.
Quello che sappiamo è che, sempre più spesso, il lavoro qualificato richiede la risoluzione di problemi intellettuali e tecnici. Sembra che non conti più tanto ciò che si sa, ma ciò che si può fare con quello che si sa. A scuola viene richiesto a bambini e ragazzi di memorizzare date, eventi e fatti scientifici, il che non è in sé un male; pochi, tuttavia, sanno come applicare il metodo scientifico, come formulare un’ipotesi, testarla, e analizzarne i risultati.
Nessuno sa quali saranno veramente le competenze necessarie per domani. Io ho provato a tracciarne un profilo in Scegliere la scuola e la formazione dei figli pensando al domani, ma possiamo prevedere solo pochi aspetti: quelli che fondano le proprie radici sull’oggi. La cosa migliore sarebbe insegnare cose come l’intelligenza emotiva, la capacità di apprendere, la capacità di innovare, il problema è che nessuno sa come insegnarle su larga scala. Si può inventare una scuola molto innovativa, ma come rendere “scalabile” quel modello educativo? Come renderlo accessibile gratuitamente a tutti e a quali conoscenze collegarlo?
Infine aggiungo un’ultima riflessione. Mangiamo cibo sempre più etnico (il ristorante nippo-brasiliano va più forte della trattoria che offre risotti e carbonare), ascoltiamo musica da tutto il mondo (nel centro di danza che frequento on and off da ormai da quasi trent’anni impazza il k-pop, ossia l’hip hop con una colonna sonora coreana), la maggior parte dei teen che conosco si nutre di serie tv su netflix in lingua originale, ma l’internazionalità ci piace più nei consumi che nella vita reale.
Invece un “bambino cosmopolita” ha inizio con i genitori che hanno una mentalità globale. Come scrivevo qui un’educazione internazionale, parte da noi adulti: non solo dalla conoscenza che abbiamo di altre lingue e culture, ma soprattutto dalla curiosità che conserviamo nei confronti degli altri. Genitori interessati a conoscere altre culture, disposti a cercare di parlare una lingua straniera anche se sono fuori esercizio o ne conoscono solo poche parole, avranno con più probabilità figli con una simile mentalità. Anche chi non ha le risorse economiche per viaggiare come vorrebbe, anche chi non ha avuto l’opportunità di imparare le lingue da piccolo ed è troppo impegnato per rimediare da adulto può fare qualcosa. E’ un po’ come lo stay hungry, stay foolish di Steve Jobs: forse la cosa migliore che possiamo fare è rimanere curiosi.
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Salve,
Leggo sempre i suoi suggerimenti e le notizie che condivide con noi genitori e ciò che dice mi consola .Le spiego perché .
Sono la mamma di una ragazza di 18 anni compiuti da poco. Lei è partita a 15 anni con una borsa di studio INPS per stare un semestre scolastico in boarding School negli Stati Uniti . La sua scuola americana , una scuola privata in Arizona,praticamente un’oasi nel deserto, è stata per mia figlia la svolta della sua vita. Lei è stata sempre un’ottima studentessa , in Italia ha frequentato il classico europeo e caratterialmente è stata sempre molto aperta con gli altri. In questa scuola americana c’erano studenti di tutto il mondo: cinesi coreani etiopi ecc e lei si è subito distinta, così mi diceva la sua tutor. Tanto che il preside e gli alumni le hanno offerto una borsa di studio per il secondo semestre e per tutto l’anno successivo . Quindi lei nel mese di maggio scorso si è diplomata li ed è stata nominata valedictorian! Io e la mia famiglia siamo andati alla cerimonia della sua graduation! Sembrava di essere in un film! I genitori degli altri alunni internazionali e americani si avvicinavano a noi per congratularsi! Così a 17 anni ha iniziato l’università di economica e Management presso la ESCP EUROPE e quest’anno è a Londra , il prossimo anno a Parigi ed il terzo a Berlino . Quindi ora sta studiando altre lingue per poter studiare nelle altre nazioni: il francese, anche se lei ha già sostenuto il Dalf C1 ed ha iniziato anche il tedesco. Lei dice che nella sua università i ragazzi conoscono bene tutti almeno 3 lingue, alcuni anche 5! L’università europea le ha concesso una la borsa di studio parziale per merito ed inoltre si è candidata ed è stata scelta per partecipare al NMUN Congress di New York dove ci sarà l’ United Nations Enviroment Assembly (UNEA) dove rappresenterà l’Italia. Partirà per Nerw York tra qualche giorno .
Avendo fatto due anni all’estero e gli esami previsti dalla normativa italiana era
stata presa anche da università italiane come la Luiss, Bocconi e Politecnico ma lei ha voluto continuare il suo percorso internazionale
Certo io sono una mamma italiana ed ho sofferto per il suo distacco, aveva solo 15 anni quando è partita per l’Arizona ma questa è stata un’occasione per me di viaggiare sia quando era negli Stati Uniti dove sono stata accolta che ora che è a Londra e quindi di migliorare il mio inglese. I ragazzi che escono dal confort del proprio nido maturano prima e raggiungono una consapevolezza delle proprie capacità che li porta a raggiungere degli obiettivi che nessuno mai potrebbe sperare.
Lei è stata presa per la spring week da Goldman Sachs a Londra e poi farà una internship in una società di fondi di investimento.
Mi ha detto la preside della sua scuola italiana, che nella sua classe erano diverse le ragazze brave come lei anzi forse più brave di lei ma era stata l’unica però a fare questo passo , lasciare le sue comodità per conoscere il mondo.
Penso che uscire di casa così presto deve essere un desiderio dei nostri figli, loro devono decidere , perché uscire di casa è molto faticoso e difficile anche per chi resta .
Grazie ancora
Aurelia
Complimenti alla tua ragazza Aurelia! Lei è stata brava, ma anche tu che come mamma hai avuto fiducia in una ragazza di 15 anni e le hai permesso di fare quella esperienza che ora lè ha cambiato la vita.
Sono in disaccordo con l’affermazione “Purtroppo l’italiano non figura ormai da tempo tra le lingue più rilevanti a livello internazionale. Sempre apprezzato per la sua musicalità, e per il ruolo che l’Italia ha in vari campi (dall’arte antica alla moda, dall’opera lirica alla cucina) l’italiano è, però, poco studiato. ” In realtà per capire la diffusione di una lingua non si deve prendere in considerazione solo il numero di madrelingua, in tal caso è vero che l’italiano è basso in classifica, secondo l’edizione 2007 del Nationalencyklopedin è al 23° posto con 59 milioni di parlanti,
https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_languages_by_number_of_native_speakers
ma dobbiamo tenere conto anche il numero di chi parla l’italiano come seconda lingua, secondo Ethnologue 2017 in tal modo il numero dei parlanti italiani in modo eccellente si alza a 87 milioni e la classifica dell’italiano si alza al 18° posto (17°, se si contano solo i parlanti come seconda lingua, cioè 24 milioni):
https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_languages_by_total_number_of_speakers
Mentre se si contano solo quelli che studiano l’italiano e che dunque hanno una minima conoscenza di un italiano di base, allora siamo al 6° posto, con 8 milioni di studenti, come è riportato da una ricerca di Ulrich Ammon dell’Università di Dusseldorf del 2015:
http://www.independent.co.uk/news/world/the-worlds-languages-in-seven-maps-and-charts-a6791871.html
Inoltre ho molti dubbi che l’inglese resti ancora per molto tempo l’unica lingua franca del mondo in quanto in futuro sarà sempre più normale non solo che ogni persona saprà parlare almeno due lingue molto diffuse nel mondo, sia perché esiste anche la possibilità, spesso poco evidenziata, la “lingua receptiva”, ovvero una persona può studiare una lingua al solo scopo di comprendere in modo ricettivo testi e discorsi e senza essere capace di parlarla o scriverla (e magari l’interlocutore fa viceversa):
http://www.luistertaal.nl/en/what-is-lingua-receptiva/
In tal modo si risparmiano tempo e risorse ma con un arricchimento minimo linguistico e culturale.
Ciao.
Se devo essere sincero, io della vera o presunta posizione dell’italiano nella classifica delle lingue piu’ parlate non mi preoccuperebbe troppo, giusto per non cadere nella tentazione di dire che impararne altre non serve. Senza fughe in avanti, intanto impariamoci tutti l’inglese, e poi fra le lingue diverse dall’italiano scegliamone un’altra, con il serio proposito di riuscire a utilizzarla almeno in una conversazione.
A Francesco Spisani:
in effetti diciamo che in Italia è già tanto se si riesce a imparare una seconda lingua. Io comunque, lo dico e lo ripeto, ho un approccio “liberale” in questo campo, ovvero darei sia a scuola che all’università libertà di scelta su quale seconda e terza lingua usare e studiare. Non capisco proprio perché si debba per legge rendere obbligatori corsi universitari in sola lingua inglese o scrivere obbligatoriamente in inglese la domanda per il “finanziamento dei progetti universitari di interesse nazionale” solamente perché un ministro dell’istruzione avrebbe detto che ormai “l’inglese è, semplicemente, la lingua veicolare della comunicazione internazionale fra ricercatrici e ricercatori.”:
https://www.tecnicadellascuola.it/fedeli-difende-bando-ricerca-inglese-la-lingua-usata-dai-ricercatori
cosa peraltro neanche così vera, perché tiene conto solo di un ristretto campo delle “scienze dure”, si veda l’articolo di Claudio Marazzini sul reale uso dell’inglese e delle lingue nelle varie materie universitarie:
http://www.accademiadellacrusca.it/it/tema-del-mese/ma-siamo-sicuri-lingua-ricerca-solo-l-inglese-ecco-analisi-presidente-accademia-crusca
Il mio ragionamento è questo: anche se ammettiamo che esista questa situazione di fatto del dominio dell’inglese nel mondo della ricerca e in altre comunicazioni internazionali non dovrebbero essere i singoli parlanti dal basso a scegliere liberamente dall’alto questa lingua piuttosto che altre in modo che se, magari in futuro non così lontano, (visti i casi della brexit e del protezionismo trumpiano), possano poi ritenere che la lingua straniera da studiare di più non sarà più l’inglese ma il cinese o lo spagnolo?
Inoltre faccio notare che dopo la brexit, (ma anche prima), ormai esiste la possibilità concreta, in un’Unione Europea dove la stragrande maggioranza di parlanti inglese è non madrelingua, di avere una varietà di inglese detta Euro-English, con pronuncia, lessico e sintassi abbastanza diverse dagli inglese britannico e americano, dunque dovremo chiederci anche quale inglese dovremmo imparare:
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/weng.12264
Ciao.
Al contrario di quello che potrebbe sembrare l’inglese prende sempre più piede e aumenta il numero di chi lo studia e di chi lo usa negli ambiti più vari. A favore dell’inglese giocano soprattutto la semplicità di apprendimento ( da un certo punto di vista) e la sua utilità in tutto il mondo e in tutti i campi. L’egemonia dell’inglese continuerà per molto molto tempo ancora e anzi : sta superando ogni previsione visto l’uso sempre maggiore che se ne fa. Perfino i cinesi sembrano ben consci di questo : non a caso rappresentano la maggioranza delle persone che studiano l’inglese e il loro numero è in costante aumento. Oltre 100mila insegnanti di lingua inglese madrelingua lavorano in Cina e la domanda continua a superare l’offerta al punto che, al contrario di quello che succedeva fino a poco tempo fa, dove per lavorare in Cina e con i cinesi la conoscenza del mandarino era indispensabile, oggi non lo è più.
Io non sarei così ottimista sul futuro dell’uso dell’inglese, in quanto, oltre agli aspetti già citati da me prima, dobbiamo considerare anche la recentissima rivoluzione dei “traduttori automatici”, uno degli ultimi ad esempio è DeepL, che ha battuto spesso i traduttori di Google e Facebook:
https://www.deepl.com/translator
che si basa, oltre che a confrontare milioni di traduzioni già compiute da umani, anche sull’esaminare correzioni e suggerimenti di traduzioni da parte di utenti umani e soprattutto sul decidere le traduzioni migliori di un termine in base al contesto, ovvero alla presenza, dentro un testo più ampio intorno alla frase, di parole con un certo significato piuttosto che altre parole con un altro. Ad esempio nella frase “Lana Del Rey with a fan” il traduttore automatico cerca nel testo prima o dopo quella frase parole come “technology” o “air” piuttosto che “music” o “tv series” in modo da decidere se tradurre il termine inglese “fan” con l’italiano “ventilatore” piuttosto che con “fan”.
Sarà perciò sempre più probabile che in futuro non così lontano noi potremmo chiacchierare con un amico cinese facendo una domanda in italiano che automaticamente il nostro cellulare tradurrà in cinese e a sua volta il nostro amico ci risponderà in cinese, ma immediatamente tradotto dal cellulare in italiano….
Ciao.
Michele, nel post che commenti menzionavo il libro di Nicholas Ostler. Il punto di Ostler è proprio questo: che l’ultima lingua franca è e sarà l’inglese, perché la prossima sarà, con tutta probabilità, la tecnologia. Come esposto in questa recensione (https://www.theguardian.com/books/2010/dec/04/last-lingua-franca-ostler-review) che il Guardian fa del libro “English, he suggests, will be the last lingua franca. As Anglo-American hegemony withers, the influence of English will decline; but what succeeds it will not be any other single language. Rather we will see a technologically-enabled return to a state of Babel. Thanks to advances in computer translation, ‘everyone will speak and write in whatever language they choose, and the world will understand’.”
Questo futuro è dietro l’angolo, ma occhio che, nel frattempo, di questi temi – dal futuro delle lingue a quello delle tecnologie – si scrive e si discute assai più in inglese che in italiano…
La lingua d’avvenire in Europa è chiaramente il francese, che soppianterà l’inglese nelle istituzioni europee nel 2019. In effetti, l’inglese scomparirà dalle istituzioni europee perché l’Irlanda ha scelto il gaelico come lingua di comunicazione con l’UE e Malta il maltese. Ciò significa che quando il Regno Unito lascierà l’UE, l’inglese perderà automaticamente la sua ufficialità, e ciò alla luce dei testi in vigore (un paese, una lingua). Questa scomparsa è tanto più logica in quanto, nella nuova Unione europea che nascerà il 30 marzo 2019, il peso geopolitico dell’inglese sarà quasi zero. Non sarà più la lingua di comunicazione di nessun paese e sarà parlata solo come lingua madre da cinque milioni di abitanti (gli irlandesi). È quindi destinato a scomparire. E il francese è in ottima posizione per conquistare la torcia. In un dispaccio pubblicato da AFP la scorsa domenica, si dice che l’80% dei dipendenti della Commissione europea conosce già il francese. Più significativamente, la Commissione ha affermato che il francese è ora presente in quasi tutte le riunioni, il che a quanto pare non era il caso prima. Questa perdita dell’inglese sarà quindi molto vantaggiosa per il francese, che diventerà meccanicamente la lingua franca all’interno delle istituzioni europee, e indirettamente quella degli europei, perché le tre capitali europee (Bruxelles, Lussemburgo e Strasburgo) sono francofoni e molti paesi europei fanno parte dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia o vogliono farne parte. Vedi la bella mappa qui sotto:
https://www.francophonie.org/IMG/pdf/carte_francophonie_mai_2017.pdf
Il ritorno del francese si baserà anche sui seguenti due elementi geopolitici:
1) Il numero di parlanti di lingua francese nel mondo continua ad aumentare e raggiungerà i 700 milioni nel 2050, tra l’altro a causa della demografia africana e del progresso scolastico. Pochi sanno, ad esempio, che il più popoloso paese francofono del mondo non è più la Francia ma la Repubblica Democratica del Congo, con 85 milioni di abitanti (180 milioni nel 2050).
2) Secondo l’istituto economico tedesco di Colonia, la Francia soppianterà economicamente la Germania non più tardi del 2035, grazie alla sua crescita demografica. Questo sondaggio mostra anche che la popolazione francese dovrebbe raggiungere 78,9 milioni di abitanti entro il 2050, mentre quella della Germania non supererà i 71,4 milioni di abitanti.
Non dimentichiamo anche che l’egemonia attuale dell’inglese in Europa fa guadagnare 10 miliardi di euro alla Gran Bretagna, soldi che vengono dalle tasche degli altri Europei.
Per concludere, un evento significativo si è svolto venerdì 23 marzo: Michel Barnier ha rifiutato di parlare in inglese, poiché questa lingua non ha più futuro a Bruxelles.
Che il francese possa dir la sua, sono d’accordo. Ma il resto mi sembra (perdonate l’inglesismo) un poco wishful thinking…
Senza dire che si fanno i conti senza quell’oste non da poco che e’ lo spagnolo.
Amo molto il francese, almeno quanto l’inglese e l’italiano, dunque non scrivo quanto segue per qualche tornaconto, ma solo perché è un esempio assai calzante. Anni fa mi sono trovata a svolgere un’attività per via della quale seguivo dei negoziati internazionali che si tenevano all’interno del Ministero francese dell’Economia e delle Finanze, a Bercy. Vi prendevano parte, oltre ai paesi europei, anche delegazioni di paesi quali Giappone, Russia, Stati Uniti e molti altri. Lingue ufficiali dei negoziati inglese e francese, entrambe sempre con traduzione simultanea in cuffia per chi voleva. I bravissimi funzionari del ministero francese conducevano con maestria e diplomazia i negoziati. Lingua da loro usata a microfoni accessi, come da indicazioni governative, il francese, sempre e comunque (una volta un funzionario si sbagliò e iniziò a pralare in inglese e prontamente arrossì balbettando).
Lingua da loro utilizzata a microfoni spenti, nelle pause e anche con le delegazioni che parlavano francese? Avrete indovinato: l’inglese.
Sono sicura che ,in Europa, francese (e tedesco) riacquisiranno maggiore importanza nello scenario post Brexit, quello di cui non sarei tanto sicura è che il francese verrà considerato anche la lingua più facile per capirsi nelle consultazioni informali… ormai è troppo più facile capirsi in globish!
Salve a tutti, volevo sollevare un quesito in vista della recente ammissione alla facoltà di medicina cattolica di Roma, è giustificata questa corsa alla preparazione e all’ammissione ai corsi di laurea di medicina e odontoiatria?
No so dalle vostre parti, ma da noi c’ è una pletora di ragazzi che ci prova, che si affanna per prepararsi e professori che si adoperano per prepararli. Mi chiedevo e ne valesse la pena….che ne pensate?
Per quello che so io, i test sono formulati in modo da richiedere una preparazione specifica, se gli si affronta con le sole nozioni scolastiche, le probabilita’ di successo sono ridotte. Se ne valga in assoluto la pena, non saprei dire, nel senso che per accedere alla facolta’ superarli e’ necessario, ma non so, per mia ignoranza, se il livello delle facolta’ cui si accede giustifichi l’investimento, ad esempio rispetto ad omologhe facolta’ straniere (di regola pero’ anch’esse ad accesso in qualche modo programmato).
Forse la mia domanda non era chiara, mi riferivo alla facoltà di medicina , cioè se saranno così richiesti i medici e dentisti nel prossimo futuro, visto che molti genitori e ragazzi investono tempo e soldi per prepararsi per i test di ammissione.
Secondo molti osservatori, il numero dei posti messi a concorso sarebbe addirittura inferiore al fabbisogno stimato del Servizio sanitario nazionale, quindi il posto di lavoro dovrebbe essere assicurato, senza contare che il medico e’ una professionalita’ spendibile, praticamente, in tutto il mondo. Sul livello delle retribuzioni, mi mancano dati precisi, pero’ mi si dice che gli stipendi, pur se non indecorosi, non compensano adeguatamente il grosso impegno richiesto, ad esempio, ad un medico ospedaliero soggetto a turni (e comunque sono inferiori alle corrispondenti retribuzioni straniere).
Per l’odontoiatra, il discorso e’ in parte diverso, perche’ la figura corrispondente di regola lavora fuori dal SSN, in strutture private di cui e’ in sostanza dipendente, anche in ragione degli ingenti capitali necessari per avviare uno studio proprio.
Grazie. Penso anch’io che sia così. Volevo conferme