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IB o A-levels, quale scegliere?

educazioneglobale international baccalaureateAlcuni anni fa, una giornata piovosa e fredda che irrompeva nella primavera romana come un fulmine a ciel sereno, io e una mia amica andavamo a visitare una delle scuole internazionali della capitale, nella fattispecie una scuola che segue il curriculum inglese.

La mia amica aveva infatti ottenuto un appuntamento con un’altra mamma che ha i figli in quella scuola la quale, molto cortesemente, ci ha accolte, spiegato come funzionava e fatto fare un giro del giardino e della parte esterna dell’edificio. Tra una chiacchiera e l’altra, abbiamo scoperto che la dirigente scolastica era libera e siamo andate a parlare anche con lei.

E’ parlando con la dirigente scolastica che ho finalmente capito la differenza tra i due percorsi conclusivi del cursus studiorum britannico: gli A level e l’IB (a dire il vero, quest’ultimo, seguito da molte scuole internazionali di lingua inglese, anche americane e sostenibile – in teoria – anche in francese o in spagnolo).

Intendiamoci: conoscevo già i due sistemi, ma non avevo veramente colto quale potesse essere la bussola per guidare il genitore o l’allievo indeciso tra i due.

Il fatto interessante è che questa scuola internazionale è una delle poche che, avendo imboccato il sistema dell’IB anni fa, l’ha poi abbandonato per strada per ritornare al classico sistema inglese dei GCSE (nella versione migliorata che è quella “International”, dunque non GCSE ma IGSCE) e poi AS e A levels. Ma andiamo con ordine.

 

Cosa è l’IB? Cosa sono gli A levels?

Facciamo un passo indietro. La scuola superiore inglese dura 4 anni, dai 14 ai 18 anni. A 16 anni si sostengono degli esami che si chiamano General Certificate of Secondary Education (GCSE). Il numero e la scelta stessa delle materie dipendono dai singoli studenti. C’è un esame per ogni singola materia. Se uno studente supera questi esami, può accedere a determinati impieghi e corsi professionali, ma non bastano i GCSE per accedere a tutte le università.

Tra i 16 e i 18 anni, dunque, si sostengono gli A levels (il termine, se non ho capito male, sta per General Certificate of Education Advanced Level (GCE A level) e GCE Advanced Supplementary (GCE AS level).

Quello che comunemente è chiamato A level è un esame rivolto a studenti di 18 anni (in pratica è la nostra Maturità, che oggi si chiama Esame di Stato). Lo studente a questa età si specializza in determinate materie, solitamente quelle fondamentali per iscriversi al corso di laurea desiderato. In Inghilterra nessuna università prevede il diritto automatico di iscrizione e c’è dappertutto il numero chiuso. Non è quindi facile accedere alle università, tanto più a quelle prestigiose, come Oxford e Cambridge.

Tra GCSE ed A -levels ci sono anche gli AS levels (ossia i GCE Advanced Supplementary level). Gli Advanced Supplementary danno la possibilità agli studenti combinare studi anche divergenti, materie scientifiche e umanistiche, richiedono la metà delle ore di studio rispetto all’Advanced e due AS Level valgono quanto un Advanced per l’iscrizione all’università.

E l’IB?

L’IB, o International Baccalaureate (in italiano Baccellierato Internazionale) è sempre un “esame di maturità” e quindi un programma di studi superiori, ma con caratteristiche leggermente diverse.

Nato per i figli dei diplomatici, l’IB è un programma di Diploma sempre più diffuso che offre agli studenti l’opportunità per acquisire una formazione riconosciuta in tutto il mondo (per saperne di più si può consultare il sito www.ibo.org).

Alcune scuole internazionali di stampo britannico delle grandi città italiane (Roma, Milano ecc..) offrono entrambi i programmi.  Per alcuni genitori italiani si pone dunque il problema di quale sistema scegliere tra i due.

 

Cosa è meglio tra A levels e IB? 

Quale dei due sistemi dà maggiori opportunità ai fini delle ammissioni universitarie?

Entrambi i diplomi sono accettati sia dalle università italiane (a determinate condizioni) sia dalle università estere. Posto che nessuno potrà dire in assoluto quale sia il migliore, una differenza fondamentale tra i due esami e, dunque, tra i due programmi, sta nel numero e nella tipologia delle materie studiate, che influenzerà il percorso futuro di studi dello studente.

Mi spiego meglio, sempre per quanto ho potuto approfondire.

Nell’iter IGCSE – A Levels si portano inizialmente 10 materie, che poi diventano 6 e scendono – se non ho capito male – a 4 al livello di Advanced Level.  Ovviamente chi vuole e può ne sostiene di più, ma, sempre se ho capito bene, lo studente tra i 14 e i 18 anni si specializza molto. Questo fa sì che, in qualche modo, possa restringere i suoi interessi ad un determinato campo (storico, linguistico, scientifico, matematico e così via). Se è uno studente “math & science oriented” può scegliere tre materie scientifiche. Se è più un “liberal arts student” può portare un trittico di materie umanistiche, e via dicendo.

Nell’IB invece si portano sino alla fine 6 materie, che devono essere scelte tra sei diverse aree (lingua, seconda lingua, scienze sociali, scienze sperimentali, matematica, arti figurative). Bisogna inoltre sostenere un essay di “teoria della conoscenza”.

Dunque, l’IB comprende per forza un programma più ampio, mentre il sistema britannico dell’A level, ti consente, se vuoi, di restringere l’area di studio, anche se questo influenzerà la tua formazione e limiterà l’accesso a determinati corsi di laurea.

Pertanto, da quello che ho avuto modo di capire, la scelta tra IB e A level quindi, a parità di capacità linguistiche e di apprendimento dello studente, dipende dalla volontà o meno di specializzarsi già a 16 anni concentrandosi al massimo su ciò che si ritiene sarà la propria strada professionale, oppure mantenere una varietà formativa (anche per cultura personale), con il rischio però di affaticarsi e non riuscire ad ottenere i voti sufficientemente alti per accedere alle prestigiose e molto selettive università inglesi o americane.

Insomma, la sensazione è questa, che chi è un ottimo studente in tutte le materie farà bene in entrambi i sistemi, ma chi invece è bravo ma sbilanciato verso una determinata area (ad esempio il classico umanista che non ha il pallino della matematica) può ottenere voti più alti seguendo la strada degli A levels, dunque specializzandosi nelle sue materie “forti”. 

Aggiungo un’altra considerazione, del tutto personale. La scelta della specializzazione è vincente solo se si hanno le idee chiare su cosa fare “dopo”. Se lo studente ha già chiaro in mente che vorrà studiare medicina, o scienze o matematica, ingegneria, bene, ma se ha ancora le idee poco chiare è meglio che abbia una formazione più ampia.

Tutti questi ragionamenti valgono per lo studente di una scuola internazionale che voglia proseguire gli studi all’estero. Ma, come è bene noto, le scuole internazionali costano e non sono, quindi, per tutti.

 

Ma chi fa un liceo italiano e volesse continuare gli studi in Inghilterra invece di fare l’università italiana, cosa può fare?

In realtà anche chi viene dal liceo italiano può decidere di terminare i propri studi all’estero, trasferendosi in una boarding school inglese negli ultimi due anni di liceo e sostenendo gli esami lì.  Società e consulenti offrono aiuto alle famiglie che vogliano intraprendere questa (non meno costosa, ma forse più formativa) avventura. Tra le società che offrono consulenza in questo campo vi sono annoall’estero.it ed educationalconsultants.it

Inoltre, anche senza terminare l’anno scolastico in Inghilterra, gli studenti italiani possono accedere a determinate condizioni alle università inglesi. Quali sono queste condizioni? Per saperlo basta partire dal sito dell’UCAS.

E se qualcuno ha fatto questa esperienza, da studente o da genitore, spero la voglia narrare ad educazioneglobale!

 

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Comments

  1. Caro Paolo, va bene. Ti dico tutto. Poi però non dire che non ti avevo avvertito… 
    Come avevo accennato, ritengo che la scelta di una istruzione internazionale, ovvero, diploma IB -gli A level non sono disponibili nella mia area geografica- seguito da una laurea all’estero, ragionevolmente, nel Regno Unito, sia nell’attuale contesto non opportuna, ma addirittura necessaria. Vado ad argomentare tale mia affermazione. Con una premessa: quella che espongo è la mia verità, valida per me, e per chi eventualmente nella mia situazione – credo non unica, ma pur sempre particolare- credesse di riconoscersi. Non è, e non pretende di essere, la verità assoluta, e quindi non significa disistima per chi la pensa diversamente. Anzi, per ragioni che risulteranno chiare a fine lettura, mi auguro in certo senso di essere smentito.
    La mia famiglia non può in alcun modo definirsi ricca, e forse nemmeno benestante: diciamo che si vive – se Dio vuole- quello che una volta si chiamava decoroso benessere borghese. In concreto, la nostra casa è riscaldata d’inverno ed ha l’aria condizionata d’estate; faccio la spesa guardando le offerte speciali, ma non solo quelle; se i vestiti dei bambini sono fuori misura, li comperiamo nuovi, se qualcosa in casa si rompe e non è riparabile, la sostituiamo senza troppi pensieri. D’estate andiamo in vacanza, il gelato al bar dopo scuola per i miei piccoli birbanti è una piacevole abitudine e, a patto di non esagerare, la serata in pizzeria o affini, non certo tristellati – ultimamente è prediletto l’Old Wild West- è un desiderio che si soddisfa volentieri. Non sono cose del tutto scontate, se vediamo gli ultimi rapporti ISTAT, e magari anche la situazione di qualche nostro vicino di casa. Non credo poi che alcuno mi voglia biasimare se dico che per i miei figlioli desidero un avvenire simile, e che sarò contento se sarà persino migliore.
    Il benessere che ho appena descritto ci è oggi possibile, sintetizzando brutalmente, grazie ad una decorosa retribuzione, ottenuta grazie a un titolo di studio superiore – nella specie, laurea- all’impegno personale, e alla Provvidenza, che aiuta, ma va aiutata. Una retribuzione non trasmissibile ai figli –lo trovo del tutto giusto- che quindi morirà con noi, meglio detto, con la nostra pensione, che la vedrà ridursi apprezzabilmente, anche se –speriamo- non a livelli drammatici.
    In tale contesto, devo prendere atto di quelli che economisti e sociologi chiamano “dati macro”. Nel momento presente, lo dicono fior di studiosi, in Italia non esiste di fatto più alcuna correlazione fra la situazione sociale di una persona -brutalmente il suo reddito- e il suo livello di istruzione. Detto altrimenti, con una scuola italiana e una laurea italiana non si va da nessuna parte. Qualche buontempone ha addirittura dimostrato, cifre alla mano, che laurearsi non conviene: i relativi costi non sono coperti da una maggiore retribuzione rispetto al lavoratore non laureato. Ciò naturalmente a meno di non disporre di congrui aiuti da parte della famiglia: un patrimonio, un’impresa, ovvero influenze, conoscenze e raccomandazioni, che si presumono, beninteso, nei limiti del lecito. Tutte cose di cui personalmente non dispongo, senza critica a chi sia in situazione migliore.
    Gli studiosi sbagliano? Vorrei pensarlo, ma ho paura di no: la mia esperienza personale mi conferma che le lauree italiane valgono all’incirca quanto un diploma di qualche anno fa, e di laureati disoccupati ne conosciamo tutti. Per i miei figli, con queste premesse, il futuro, a meno di colpi di scena che vedo un po’ improbabili, si situa, se va bene, all’interno di una forchetta all’incirca compresa fra i 1302 euro dello stipendio medio nazionale (ISTAT 2013) e i 756 euro della retribuzione media triveneta dei laureati a tre anni dalla laurea. Temo che con questi numeri il tenore di vita che ho descritto, pur non sfarzoso, diverrebbe un ricordo, non so quanto lieto. Ci sono le eccezioni, mi direte. Appunto, sono eccezioni. Potrei citare -con nomi, date e luoghi- numerosi esempi, ma non credo sia necessario, e finirei per annoiare.
    In tale contesto, l’istruzione internazionale mi sembra un’alternativa, nel senso che offre una possibilità là dove sembrerebbe non essercene alcuna. I laureati di determinate università, soprattutto nel Regno Unito, hanno tuttora accesso alle migliori opportunità professionali. Sabato scorso a Milano, alla fiera Study in UK, abbiamo sentito i dati aggiornati, e non sono sconfortanti. Per conseguire una laurea di quel tipo, e poi, a maggior ragione, per entrare nel corrispondente mondo del lavoro, però occorre sapere l’inglese, e saperlo sul serio. Con tutto il rispetto per chi vende il relativo prodotto, non è che con i vari corsi pomeridiani e relativi diplomi in tal senso si vada molto lontano. Provate a gestire una telefonata in inglese con un madrelingua – niente di trascendentale, diciamo prenotare una stanza di albergo- e mi saprete dire. Occorre poi, per ragioni anche burocratiche, venire dal tipo adatto di scuola superiore. Per ragioni che potrei spiegare in dettaglio, il diplomato italiano, con la sua maturità quinquennale, si trova ad iniziare un qualsiasi corso per undergraduate con due anni di ritardo rispetto ai colleghi britannici, il che in prospettiva lavorativa pesa. Naturalmente, dato e non concesso che la sua preparazione sia sufficiente, anche quanto a livello linguistico, e con quello che vedo in giro, su ciò permettetemi di nutrire gli igienici dubbi di crociana memoria. Con un diploma IB, tutto ciò non succede. Posto naturalmente che l’interessato abbia la volontà e la capacità di seguire un percorso sicuramente impegnativo, ma non certo riservato ai nipotini di Einstein. Ma se così non fosse, faccio e mi faccio una domanda provocatoria: perché farlo studiare?
    Ecco perché, in sintesi forzatamente semplificante, ho scelto per i miei figlioli il percorso internazionale, e ritengo che per mantenere la scelta valga la pena di affrontare sacrifici anche non minimali. Diciamo che la spending rewiew a casa nostra ha già tagliato le auto blu – la nostra è grigio metallizzato, ed è una Tigra del 1997 che fa duemila chilometri all’anno- e nel caso taglierebbe le missioni all’estero – diconsi vacanze- l’appalto dei buoni pasto -dicesi caffè e simili al bar- e anche di più, se necessario. Si tratta, in sintesi, di rinunciare a qualcosa oggi per non trovarsi (assai) male domani. Va da sé, con queste premesse, che un eventuale contesto snob – o pariolino, o posillipino, citando il tuo arguto neologismo- sarebbe l’ultima delle preoccupazioni: come ho già scritto ad un’altra interventrice, nella vita ci sarà sempre un vicino che fa meglio di te, e farsene un problema dipende da noi. Si può anche prenderlo come uno stimolo. Poi, non sempre gli ambienti di elite, o presunta tale, sono totalmente negativi: c’è anche ci ha stretto amicizie che sono rimaste. Infine, sempre brutalmente, meglio essere snobbati per qualche anno a scuola che trovarsi “working poor” per tutta la vita. In altre parole, mi sembra che ci si debba guardare dal compiere quella che Elisabetta, se pure in altro contesto, ha definito “scelta autoescludente”. Naturalmente, deve trattarsi di un progetto condiviso: bisogna parlarne in famiglia ed essere d’accordo, tanto sulle risorse da impegnare, quanto sull’impegno che si richiede per metterle a frutto. Qui però incomincia un altro discorso, che temo porterebbe troppo lontano.

    1. Ciao Francesco.

      Ho letto con attenzione cosa hai scritto e mi sembrava di vedere le mie considerazioni su italia/lavoro/futuro prendere forma.
      Abbiamo situazioni simili e credo affronteremo sacrifici simili per un obiettivo che sicuramente non è condiviso dai più, ma che temo sia l’unico percorso praticabile per offrire alla nostra prole un futuro non peggiore del nostro come vedo si sta profilando per la maggior parte di questa e la prossima generazione in italia.
      Il timore di un impegno troppo gravoso e/o di un ambiente non conforme ai miei desideri (non per il reddito, quanto per gli atteggiamenti che a volte gli si collegano specie tra i giovanissimi) resta forte, ma i vantaggi sono troppo evidenti per ignorarli.

      Adesso c’e’ davvero solo da trovare la scuola giusta a Roma.
      Se qualcuno ha consigli specifici sono ben accetti.

      E incrociamo le dita 🙂

    2. Premesso che l’IB mi piace tantissimo e che lo consiglio a tutti, che sono per tutto ciò che favorisca una educazione quanto più globale possibile (e non solo per motivi di inserimento lavorativo futuro, ma proprio per motivi culturali….) per una volta devo dissentire da Francesco su un aspetto: da madre di tre, di cui due già adolescenti posso dire che alcune perplessità sull’ambiente privilegiato sono fondate.
      La peer pressure ad un conformismo di apparenza (ma, nella sostanza, al ribasso), della serie “quello che conta è se ho la borsa giusta, non se sono una persona civile”, la sentono pure i ragazzini.
      Detto in altre parole, l’ambiente “scuola privata” alla lunga, si sente, dunque l’altra faccia della medaglia, ossia la didattica, deve essere veramente eccellente, altrimenti il gioco non vale la candela.
      Purtroppo ad un “privileged background” non sempre corrisponda un alto livello di civiltà e di istruzione. Per dirla più semplicemente, non tutti coloro che hanno buone o grosse disponibilità economiche (ossia gli 85.000 euro in 4 anni che servono per fare una scuola superiore con l’IB a Roma, per essere chiari) ne approfittano per elevarsi culturalmente (e umanamente), cosa che, secondo me, dovrebbe essere un dovere, avendone i mezzi.
      Il panorama di chi sceglie una scuola internazionale varia da città a città. Francesco Spisani parla di un’isola felice, Venezia, dove una scuola internazionale costa come una scuola bilingue della capitale.
      Ovviamente l’utenza varia non solo da città a città, ma da scuola a scuola e anche di anno in anno, rendendo difficile la scelta; è un po’ questione di fortuna.
      La buona notizia è che i figli – raggiunti i 25-30 anni somiglieranno – sotto il profilo valoriale – più alla famiglia di appartenenza che ai compagni di scuola, ma l’adolescenza è un momento un po’ a rischio.
      Bisogna essere preparati al giorno in cui un figlio non vuole più neanche che lo saluti all’angolo della scuola (cosa che accade a tutti, prima o poi) ma anche al momento in cui ti rinfaccia – per citare Francesco, anche se non mi intendo di macchine – di essere un fallito (anzi un loser) perché hai una “Tigra del 1997” (cosa che accade non a tutti, ma a molti).
      Estote parati…

  2. Credo che sulla questione di fortuna Elisabetta abbia non ragione ma ragionissima. Personalmente, frequentando un liceo pubblico di prestigio non particolare, mi sono trovato compagne che venivano a lezione in rolex e pelliccia, nonché compagni con Alfaromeo Spyder personale (sì, avete letto bene, non prestata dal babbo). A indurire la buccia ho incominciato allora… 🙂

  3. Poi, non vi preoccupate: per quando i miei figli saranno adolescenti, ho messo gli occhi su una Trabant: come nuova!

  4. Ciao Elisabetta, sono una ragazza che attualmente sta frequentando il terzo anno delle superiori ( ho 19 anni), mi piacerebbe l’anno prossimo andare in un college in Inghilterra , tutti richiedono almeno 3 GCSE, volevo sapere se posso sostenere questi esami da privatista in scuole a Milano o dintorni, grazie mille.

    1. Ciao Linda,
      la tua domanda è un pò vaga e comunque non mi tornano i conti: a 19 anni dovresti aver finito la scuola superiore e non essere al terzo anno, a parte ciò, che corso vorresti fare in Inghilterra? Per l’accesso all’università hai bisogno degli A-levels, oppure dell’esame di Stato italiano con un buon voto e di certificare la tua conoscenza dell’inglese con l’esame IELTS che puoi fare al British Council. Se, invece, fuori fare un anno all’estero, nell’ambito della mobilità studentesca, per poi rientrare nella scuola italiana, non hai bisogno di titoli particolari ma di concordare la cosa con la tua scuola e/o di organizzarti con Intercultura per scegliere la scuola e i corsi più adatti.

  5. Buongiorno a tutti,

    sono nuova (nel senso che non ho mai scritto qui) ma vi leggo sempre da molto tempo (un paio di anni). Vorrei fare una riflessione e chiedere un parere.

    Ho 3 bimbi che tento di crescere bilingui. Abbiamo avuto un’aupair londinese e ora una baysitter bilingue (madre EN e papà IT, molto differente rispetto al contrario) vissuta a Londra, laureata là etc..per 18 ore/settimana.

    Ho valutato una scuola americana che segue il programma IB per le elementari (il grande dovrà iniziare a settembre 2016). O meglio, sono già andata a vederla due volte, prima per l’asilo e ora di nuovo per la scuola, per informarmi e per cercare le “prove” della bontà di questo curriculum IB, perché a tutti i costi volevo mandare i miei figli lì.

    Purtroppo non ce l’ho fatta. Non mi hanno convinto (e dopo vi dirò cosa sceglierò).

    Il problema, secondo me, di questo percorso, è che è molto (troppo) orientato al “mondo del lavoro” e settoriale/specialistico/specializzato ma…gli manca la visione d’insieme delle cose e una cultura globale di fondo.

    Mi spiego: io ho capito (ma magari ho compreso male) che lo studente, alle superiori, può scegliere le sue 6 discipline. Quindi, un ragazzo potrebbe fare:

    – ipotesi “generalista – un po’ di tutto – visione d’insieme”: storia (e la filosofia?), letteratura (inglese o italiana – e l’altra?), matematica (e fisica?), arte e chimica (e biologia e scienze della terra?);

    – ipotesi “specialistica”: matematica, fisica, schienze della terra, chimica, biologia, letteratura inglese (e tutto il mondo umanistico?).

    Risultato: degli adolescenti che sanno bene, fin troppo, qualcosa, e sono delle “capre” in tutto il resto. Mancano dei pezzi…

    Io lavoro per un grosso studio inglese e ho quindi molti colleghi inglesi o americani che provengono pertanto da questi sistemi scolastici (simile all’IB, o IB stesso, etc..): ebbene, professionisti molto preparati, perfetti per il lavoro, ma “attenzione” se si parla di qualcosa che esula in minimo dal settore specifico perché inanellano tranquillamente degli “strafalcioni” da far ridere a crepapelle (e infatti, sorrisini sotto i baffi da parte di chi si sta rendendo conto di cosa stanno dicendo)…e la cosa per me grave non è tanto che gli manchino delle conoscenze (omnia scire nemo potest) ma che purtroppo non sono in grado nemmeno di rendersi conto di quanto grave o leggera sia la loro mancanza o ignoranza perché gli manca proprio il concetto di fondo complessivo.

    Il risultato: ad un buon lavoro arrivano comunque, ma le posizioni dirigenziali e di rilievo e un po’ più di ampio respiro sono solo quelli che, pur essendo ottimi economisti o ingegneri o matematici (o di area umanistica a seconda del ruolo), sono in grado di sostenere una conversazione di 30 minuti senza infilare gli egizi dopo Marco Polo o pensare che la pizza sia un’invenzione newyorkese (o, viceversa, avendo una vaga idea di terremoti e vulcani o della caratteristica principale di un campo gravitazionale, per gli esponenti dell’area umanistica).

    Ho capito che la visione globale della cultura non è una cosa su cui posso passare sopra in nome di un “lavoro certo futuro” (anche perché penso che un bravo studente colto possa integrare in adolescenza quelle quattro informazioni mancantigli per sosenere un A-level di matematica o fisica da privatista – con i metodi sopra citati – mentre un ragazzo che non abbia affrontato almeno una volta nella sua vita il percorso storico delle civiltà, dagli assiri/babilonesi fino alla guerra fredda, con tutte le mancanze e le superficialità legate al dover coprire un così lungo periodo in un tempo-scuola comunque ridotto, non recupererà mai quella mancanza. E non lo farà perché crescendo non gli servirà materialmente per trovare un lavoro sapere “quelle” cose, e sarà invece occupato a specializzarsi in qualcosa di “work oriented”: non avrà più tempo, e modo, e voglia e utilità a studiare le guerre puniche. Quindi, di fatto, non le saprà mai).

    Cosa sceglierò io.

    Una scuola elementare bilingue in cui si segue il programma ministeriale italiano e in cui la direttrice, invece di accogliermi raccontandomi le mirabolanti imprese di inglese dei suoi alunni, mi ha parlato di grammatica, dettato ortografico e consecutio temporum.

    Certo l’inglese forse sarà un po’ peggiore di quello della scuola americana. E certamente non potrò licenziare la babysitter. E di sicuro sarà meglio fare un summer camp a York che non la settimana azzurra a Riccione, se no l’inglese si ferma ad un livello non sufficiente.

    Però io penso che una persona che parla e scrive male nella sua lingua madre (e io e mio marito siamo italiani quindi la nostra lingua madre è l’italiano, è bene farsene una ragione) pensa peggio, e chi non è in grado di articolare un pensiero che vada oltre soggetto-verbo-complemento, non ha grande futuro, indipendente da quanto bi-trilingue possa essere.

    Quindi: attenzione ad investire tante risorse in un percorso che se portato a termine ai massimi livelli, farà entrare i ragazzi in una buona università ma lascerà loro comunque un’ignoranza di fondo complessiva che faticheranno tutta la vita a tener nascosta. Se poi non viene portato a termine ai massimi livelli (perché non tutti usciranno dall’IB con 40, e con meno nè a Oxford nè a Cambridge ti accettano), avremo solo ragazzi ignoranti. A quel punto, meglio tenere qualche soldo per fargli fare un domani un A.-level da privatista se vorrà e se avrà l’intelligenza suffciente per aspirare all’Imperial College.

    Grazie per lo spazio concessomi.

    1. Vale, dal tuo commento pare che la decisione l’avessi già presa e cercavi solo una conferma. L’istinto di genitore è sempre un buon istinto.

      Tuttavia, il tuo commento rivela alcune inaccuratezze e generalizzazioni. Ad esempio, quando affermi che “gli manca la visione d’insieme delle cose e una cultura globale di fondo” non è chiaro come tu possa avere avuto tale percezione visto che il programma IB è stato proprio pensato per dare una cultura globale di fondo, inzialmente appannaggio di figli di diplomatici e poi divenuto accessibili anche a una platea più ampia. Sul punto dovresti chiarirti su cosa intendi per “visione d’insieme” e “cultura globale”. Se il punto per te dirimente era tra “nozioni di storia patria” e metodo storico, allora sicuramente l’IB non era adatto a fornire nozioni sparse, ma molto più concentrate su quello che si definisce Western Civilization e dà lì sviluppare il metodo storico. Peraltro le scuole americane hanno corsi di World Civilization, quindi il problema normalmente non si pone. Certo Muzio Scevola non compare, ma gli Egizi sono al posto giusto, così come pure tutti gli altri.

      La pizza invenzione newyorchese è sicuramente fuori dalla portata di chiunque abbia studiato in nordamerica. Mi pare una leggenda metropolitana, anche se a Chicago hanno effettivamente inventato la Chicago-style pizza, mentre la New York-style pizza è la nostra pizza, ma questo la dice lunga sulla capacità di branding degli americani, piuttosto che sulla capacità di formare giovani menti da parte dell’IB, che con l’America ha poco a che fare, visto che ha uno stampo molto liceale.

      Per quanto riguarda il confronto tra laureati italiani e laureati di altri paesi (UK e America in primis) spesso facciamo discorsi del tipo “come sanno la storia i nostri ragazzi non la sa nessuno”. In realtà non è così, nonostante quello che scriverò sotto.

      In proporzione ci sono meno italiani che si diplomano e si laureano che inglesi e americani sul totale delle rispettive popolazioni. Tenendo conto della distribuzione delle intelligenze, è normale che qualche subdotato riesca a laurearsi negli USA in qualche università. I confronti si fanno con persone con background familiare simile (ciè con cultura e reddito paragonabile), e non il ns diplomato al classico che si laurea con il figlio dell’operaio della General Motors che si laurea, magari alla stessa Stanford. Ma nonostante questo caveat, le indagini internazionali condotte sugli adulti con laurea hanno mostrato che quelli italiani capiscono un testo meno bene di un americano o di un inglese. Anzi, un nostra laureato capisce un testo meno bene di un diplomato (che non è andato all’università) olandese o finlandese (la fonte è l’OCSE). NB: un diplomato olandese che per qualche ragione non si è laureato. Uno che capisce un testo meno bene e conosce gli egizi (o gli assiri/babilonesi), pare improbabile, no?

      Tornando ai tuoi colleghi, certamente “se si parla di qualcosa che esula un minimo dal settore specifico perché inanellano tranquillamente degli “strafalcioni””, sicuramente lo standard su cosa sia il settore specifico o ciò che esula lo stabilisci tu. Ora immagina cosa pensano quando vedono un italiano che non sa leggere una semplice tabella statistica, non sa mettere in linea una argomentazione logica, non sa scrivere in modo coerente una pagina di 800 parole. Fortunatamente questo test è stato condotto proprio su studenti universitari italiani e stranieri, ed il risultato è stato che le capacità critiche dei ns studenti presentano falle serie (su questo punto avevo commentato su questo blog nell’articolo su “i programmi dei licei” in merito al CLA+). Detto questo non sarei sicuro sul fatto che un italiano ben laureato sappia arrangiare cronologicamente eventi storici che vanno dall’uomo delle caverne ai giorni nostri.

      Detto quanto sopra, sicuramente l’istinto ti ha evitato di finire in una scuola inidonea, per qualsiasi ragione, a soddisfare i bisogni di educazione e formazione che ritieni giusti per i tuoi figli. Ed è questo quello che conta.

      1. Grazie Francesco per le tue interessanti analisi che mi hanno fornito informazioni che non conoscevo bene. Mi rimane però qualche dubbio:

        1- l’IB è pensato per dare una cultura globale di fondo: concordo.Sarà nato anche per quello, ma è stato costruito cercando di coniugare i sistemi di istruzione/scolarizzazione dei paesi occidentali principali che l’hanno voluto e per cui è stato creato, e non è mai semplice mettere insieme sistemi complessi diversi senza creare un’insalata.Il risultato proposto per l’apprendimento sono comunque le unity of enquiry: un argomento affrontato in maniera interdisciplinare da più punti di vista, con buona pace dei collegamenti sequenziali propri di ciascuna materia.

        2- ovviamente confrontavo laureati aventi background socioculturale simile.

        3- se le indagini internazionali confrontano il laureato italiano con il diplomato olandese o finlandese ci raccontano della bontà del sistema scolastico olandese o finlandese, non dell’IB ( a meno che non siano sistemi sovrapponibili).Potendo, anche io sceglierei il sistema olandese o finlandese di istruzione, ma al momento posso scegliere solo tra l’italiano e l’IB, ed è su quest’ultimo che cerco informazioni.

        4- per i miei colleghi, mi riferivo a ingegneri/chimici/economisti che parlano di arte, cucina, letteratura contemporanea,storia moderna/contemporanea (quindi è molto facile separare cosa fa parte del loro settore specifico e cosa no, e per ciò che non vi appartiene siamo davvero sul “basic”…).

        5 – non intendevo sostenere quanto sappiano bene la storia i nostri ragazzi ma piuttosto quanto il percorso dell’IB, per come è strutturato, non permetta a nessun ragazzo di conoscerla tutta, né bene né male, né approfonditamente né superficialmente. Semplicemente certe cose non si studiano perché non si riescono a collegare facilmente con altre materie da poterle infilare in una stessa unity che abbia un filo conduttore comune. E sicuramente questo vale per molti altri argomenti nelle altre materie.

        6 – è vero che bisogna migliorare le capacità critiche dei nostri studenti, ma non credo che ciò si possa ottenere sottraendo loro dei contenuti (magari per sostituirli con esercitazioni di “critica”… come si diceva altrove, un qualunque testo hindu o altro va bene per fare esercizio).

      2. Sul livello di inglese non aggiungerei altro…e dai che una scuola bilingue + tata bilingue + TV inglese + libri inglesi + summer camps locali (non le vacanze studio per italiani in qualche bording school che d’estate si svuota dei suoi studenti e si riempe di europei che vanno ad “impararci”l ‘inglese – io posso trasferirmi a lavorare temporaneamente d’estate in uno degli uffici uk del mio studio, ho colleghi che l’han fatto, e portare i bambini a qualche scuola/camp locale che è meglio di qualunque scuola internazionale con almeno 50% di italiani) ce la facciamo a 16 anni a raggiungere un C1 o C2.

        Poi: circa 10.000 euro al’anno per 12 anni = 120.000 euro.Con 120.000 non riesco a trovare il modo di compilare una domanda di ammissione?!?Di preparare 2 A levels (sui certificati degli A levels non compare il nome della scuola in cui ti sei prepararo/hai sostenuto l’esame da privatista, quindi le università vedo tutti con lo stesso favore)?

        Perché non è che se hai l’IB salti la burocrazia, o ho capito male ed è proprio lì la differenza?

        Ma di che parliamo?

  6. Ah, un’ultima aggiunta (oltre alle scuse per i ahime! molteplici errori di battitura, articoli non declinati correttamente etc del post precednete…la fretta!):

    quanto detto per me vale a maggior ragione per le scuole elementari e le medie.

    Le Unity of Enquiry mi pare che cerchino di affrontare un certo tema da più punti di vista: ad es. la Luna (come è stata citata/narrata la luna nella poesia, la Luna dal punto di vista della materia “scienze della terra”, la luna e la forza di gravità per la “fisica” etc…).

    Approccio molto interessante, ma per me assolutamente inadatto per dei bambini. Questo è l’approccio giusto per chi, avendo un grosso bagaglio di conoscenze pregresse acquisite in maniera più “lineare”, arriva a 17-19 anni (alla maturità o simile) e integra le proprie conoscenze creando un percorso trasversale del sapere.

    Ma non va bene, per me, quando quel sapere bisogna costruirselo, da bambini o adolescenti (perché mi pare ovvio e oggettivo che qualche “argomento” rimanga fuori. Tanto che, a diretta domanda, persone diverse della scuola americana non hanno potuto NON ammettere che certamente non si può “fare/affrontare” tutto. Nessuno pretende un approfondimento di tutto lo scibile umano, ma credo sia bene cercare, quanto meno, di “citare” tutto, così che i bambini possano almeno sapere che queste cose esistono…starà a loro approfondire poi nella vita ciò che più interesserà).

    Naturalmente, per compensare queste “mancanze” didattiche cosa mi viene prospettato? Uno sviluppo di grandi capacità relazionali dovute ai lavori di team, di abilità di creare collegamenti trasversali tra le materie, di capacità di interrogarsi sul perché delle cose…mah…

    Attendo opinioni.

  7. Grazie Vale per il tuo post. Il tuo punto di vista è molto interessante. Io non ho molta esperienza al riguardo ma ti vorrei riportare quella della nipote ventiduenne di una mia cara amica, che è stata mandata in una università del centro di Londra per sei mesi per un progetto universitario (studia economia in un ateneo pubblico italiano. Lei, che ha frequentato solo scuole italiane, non solo non ha avuto alcun problema di comunicazione (ammetto che è una molto brava) ma è rimasta colpita dalla scarsa preparazione dei suoi colleghi inglesi (paganti). I più bravi erano quelli con le borse di studio, spesso stranieri. Non mi ha neanche parlato di corsi particolarmente interessanti a dire il vero. Ma forse aveva troppe aspettative…Comunque ha passato brillantemente tutti gli esami.

  8. Cara Vale, ti confesso che sono stato in dubbio se rispondere o no al tuo intervento, perché francamente, così come Francesco 100, ho avuto l’impressione che tu, piuttosto che sollecitare un consiglio ed un confronto, stia esponendo una decisione comunque già presa.
    Ciò detto, ti dico lo stesso la mia. Leggendoti, ho avuto l’impressione di una premessa implicita: tu devi essere una di quelle persone – non moltissime, purtroppo- le quali sono tanto fortunate da poter scegliere il percorso educativo dei propri figli -che comprende la scuola, ma non si riduce ad essa: au pair, tata bilingue, eccetera- esclusivamente, o prevalentemente, in base a considerazioni teoretiche e pedagogiche. In tal senso, non provo nemmeno a confutarti: ognuno ha le proprie idee e sul modello ideale di educazione hanno scritto i pensatori di tutte le epoche -filosofi, religiosi, politici e financo militari- dalla A di Aristotele alla Z di Zoroastro, sì che difficilmente potrei aggiungere qualcosa. Mi permetto solo un paio di considerazioni. Sulla validità culturale del sistema scolastico italiano e dei programmi che ne derivano -appunto come sistema, e quindi prescindendo dalla possibilità di incontrarvi anche ottime persone- condivido i dubbi di Francesco 100, anche se mi baso sulla mia esperienza ruspante, più che sulle statistiche da lui esposte, che peraltro non ho motivo di rifiutare. Inoltre, per lo meno nelle scuole internazionali che conosco io, la grammatica, la consecutio e il dettato ortografico si fanno seriamente sia in inglese, sia in italiano. Il dettato ortografico, in particolare, si declina anche nella veste dello spelling, e in tale veste è mediamente più severo di quello italiano, dato che nella cultura anglosassone il mispelling è una patente di ignoranza assai grave: si ricorda ancora quel vicepresidente degli Stati Uniti che si stroncò la carriere politica per non aver saputo scrivere correttamente “potato” alla lavagna di una trasmissione televisiva…
    Per parte mia, mi situo all’estremo opposto del tuo. Per ragioni che ho ampiamente esposto, e che non ripeto per non annoiare, per me fa premio, con priorità su ogni altro, il dato, che anche tu, con onestà intellettuale, riconosci, ovvero che l’IB serve a trovare lavoro. Nel mio contesto – di tutele forse crescenti, ma di salari sicuramente calanti- è quindi la migliore fra le alternative in concreto ai miei figli accessibili. Crescerò soltanto degli ignoranti dalla busta paga spessa, o almeno non trasparente? Può essere, ma fa parte di un discorso più generale, per cui se i figli fanno bene è merito loro, se invece riescono male è colpa dei genitori. Chi vivrà, vedrà.

    1. Ciao Francesco,…io spero davvero che l’IB non solo serva ma garantisca un lavoro, altrimenti, con quel che un genitore ha speso…anche se non possiamo nasconderci che o lo studente è molto dotato da prendere un punteggio alto ed entrare in qualche buona università straniera (perché se poi va in una italiana, tanto valeva non investire per l’IB…) oppure, se prenderà un punteggio basso, non gli servirà più di tanto per trovare direttamente un lavoro…

      il problema è di risorse: se io genitore ho 100 da investire e ho un bravo/bravissimo figlio (scolasticamente parlando), quel 100 lo posso investire su quel che mi pare: IB, vacanze studio o anni scolastici all’estero, corso di mandolino e cetra, scuola serale di arte drammatica…mio figlio comunque in una università medio-eccellente entrerà (IT o estera) e un lavoro lo troverà (più o meno). Se però ho un figlio “medio” (come la maggior parte di noi ha) e investo tutto il mio 100 nell’IB e poi lui mi esce con 24-30 punti, lui non entrerà in nessuna buona università e a me non saranno rimaste più risorse economiche da dedicargli per “correggere il tiro” (credevo di avere un figlio adatto per astrofisica a Oxford invece forse non è proprio tanto vero…) e aiutarlo a trovare qualcosa di più adatto a lui.

      Detto questo, per me è oggettivo che in una scuola internazionale posta in Italia in cui l’italiano è denominato L2 e viene insegnato 5 ore a settimana non si possa imparare l’italiano bene quanto in una scuola italiana pubblica o privata o paritaria (non completamente scassata dal punto di vista degli insegnanti, certo, e che se privata/paritaria segua effettivamente il programma ministeriale italiano con docenti madrelingua italiani aventi una laurea italiana presa in Italia…insomma, una seria e decorosa scuola italiana) in cui è considerato la lingua principale-madrelingua.

      Qualcuno penserebbe mai che da una scuola italiana (anche di quelle super che fanno 15 ore di inglese a settimana) un ragazzino madrelingua inglese potrebbe uscire con una padronanza dell’inglese pari a quella di un coetaneo madrelingua inglese che esca invece da una scuola inglese frequentata in Inghilterra/Stati Uniti da bimbi madrelingua inglesi con insegnanti madrelingua inglesi? Io non lo credo possibile.

      Per me è importante che mio figlio sviluppi una padronanza PERFETTA dell’italiano scritto ed orale (perché io sono madrelingua italiana, che mi piaccia o no) perché credo fermamente che solo la conoscenza evoluta di un linguaggio permetta di articolare pensieri evoluti (che potranno poi, questi sì, essere espressi anche in maniera più semplice, nella propria lingua madre o in un’altra lingua che si padroneggia anche meno bene).

      il mio post voleva solo suggerire uno spunto di riflessione per chi decide di investire tempo e risorse in un progetto che, oltre a mettere un pochino (un pochino, non completamente) da parte la lingua madre, mette anche un pochino da parte certi contenuti, e mette anche un pochino da parte una visione un po’ di ampio respiro del sapere (non occorre conoscere tutto ma è indispensabile sapere molto, per poter approfondire poi cosa interessa e tralasciare il resto…se certe cose non so nemmeno che esistono, mi mancano proprio delle informazioni).

      E a furia di mettere da parte…cosa resta di significativo?

      Grazie per avermi letta e gentili saluti a tutti.

  9. Cara Vale, lo stile del tuo intervento, in particolare l’uso di quella particolare figura stilistica che è la domanda retorica, rafforza la mia impressione che tu non stia cercando consiglio, ma abbia già deciso a prescindere.
    Mi limito allora a replicarti che, a mio avviso, basato sulla mia esperienza e quindi per forza di cose limitato e senz’ altro criticabile, tu sovrastimi la bontà dei programmi scolastici italiani, e forse della cultura italiana in quanto tale, e invece sottostimi quello che un’istruzione internazionale può dare, in termini di panem , ma anche di carmina. Mi pare anzi, ma forse sbaglio, che tu tutto sommato all’educazione bilingue come proposta culturale non creda molto. Potrei argomentare a lungo in contrario, partendo appunto dall’esperienza che è in corso per i miei figli, ma ripeterei cose già dette e scritte più volte, e temo di annoiare senza uno scopo. Chi abbia ragione e chi torto, forse entrambi, potrà dirlo solo il futuro.

  10. Ciao a tutti…non capisco perchè continuate a dire che Vale non chiede un consiglio ma che avete l’impressione che lei abbia già deciso. Il dubbio perchè sussiste? La richiesta di consiglio io non l’ho mai letta. Mi sembra che abbia subito sottolineato di aver deciso per una scuola italiana con inglese rinforzato. In questa piattaforma ha espresso semplicemente le sue ragioni, offrendo un punto di vista alternativo che, peraltro, io trovo molto interessante (specialmente nella correlazione tra complessità delpensiero e proprietà linguistica)….ha aperto un dibattito molto interessante e stimolante!

    1. Effettivamente mi ero persa anche io questo punto evidenziato da Lavinia…è vero che avevo già deciso (quello che ho indicato nel primo post) e quindi non stavo cercando un vero e proprio consiglio per la scelta ma un parere specifico su alcuni punti da parte di chi invece ha scelto l’IB (e quindi, indirettamente, esprimere un mio punto di vista alternativo).

      E non ho comunque ricevuto una risposta esauriente nè sui contenuti specifici delle Unity of enquiry (di quello che contengono e che non contengono, di ciò che trascurano e di ciò a cui danno invece importanza) nè sull’italiano…non è che io non creda sull’educazione bilingue come proposta culturale (se no non sarei qui nè avrei preso un’au pair nè stra-pagherei una tata bilingue per più ore settimanali di inglese di quante se ne faccia mediamente in qualunque scuola bilingue o internazionale italiana), nè che sovrastimi i programmi scolastici di nessun paese..

      è solo che io vorrei capire come si possa insegnare l’italiano ugualmente bene considerandolo una lingua secondaria fatta in una scuola di derivazione ed impostazione straniera oppure primaria, o come si possano veicolare dei contenuti organici in più materie raggruppandoli tra loro senza, ripeto, “lasciare fuori” tutto ciò che non si presta ad essere integrato con altre materie (esempio; le rocce – argomento di scienze della terra/geologia ricordo affrontato alle delle medie…con cosa lo abbino in letteratura, arte, matematica e storia?).

      Poi, si può discutere se saper parlare benebene almeno una lingua sia utile o meno o se conoscere le rocce serva e interessi oppure no…

      E rimane il fatto che una persona che faccia una lamentela o litighi o argomenti le sue idee ricorrendo a congiuntivi sbagliati e una sequela di “coso/a” perché non ha sinonimi non sarà mai nè autorevole nè autoritario e spesso nemmeno preso tanto sul serio.

      Ultima nota, la lingua è un mezzo non un fine: io devo studiare e diventare conoscitore di qualcosa (arte, musica, letteratura, geografia o filosofia) e poi usare una lingua (la madrelingua perfettamente, una-due altre lingue molto bene) per esprimere un qualche contenuto. Se mi concentro solo sulla lingua, di che cosa parlerò poi?

    2. Cito dal primo post, in cui si parla di “chiedere un parere”.
      Se ho capito male, domando scusa.

  11. Vorrei aggiungere le mie impressioni alle parole un po’ fuori dal coro in questo contesto, di Vale, anche se questo mio commento forse si allontana dalla discussione A level vs IB.
    Dopo essermi chiesta per anni se avevo sbagliato a non mandare mio figlio alla scuola internazionale, scegliendo di fatto la strada piu’ ardua: scuola italiana, e inglese il piu’ possibile, mi trovo d’accordo su due punti.
    Approfondire al massimo una lingua (in genere quella madre) allo scopo di elaborare pensieri profondi, stellari, di destreggiarsi nei registri linguistici piu’ disparati, costruisce a mio parere la base mentale per usare altre. Questo al prezzo di non andare esattamente in parallelo con una L2, a meno che non sia una lingua sorella come spagnolo e portoghese.
    In altre parole, formatta la mente in maniera piu’ complessa e strutturata per il pensiero/parola, perdonatemi l’azzardo luciobattistiano.
    Non vi annoio con la mia mania delle lingue, ne ho approfondite un po’, aiutata dal mio (ex) lavoro che mi ha fatto vivere spesso all’estero.
    L’altro punto si riferisce al tipo di studente/figlio, che poi e’ il principale attore di tutta la questione.
    C’e’ il problema, non scontato, dell’adesione al progetto. Problema da prendere in seria considerazione, anche relativamente alle risorse (ahime’ sempre quelle).
    Non tanto nella primary, ma quando entrano in ballo le dinamiche adolescenziali, dove vedo succedere di tutto e dove le scelte dei genitori sono in genere bersagliate di critiche, proteste e rifiuti. Personalmente ritengo che anche questo faccia parte del gioco e che anzi, quando parlo con le rare amiche dai figli perfetti, mi pongo qualche domanda.
    In conclusione spero che i nostri sforzi, sia con la determinazione di Francesco (ti leggo sempre avidamente), le confutazioni di Vale, o il mio metodo soft, raggiungano lo scopo, che mi sembra comunque il medesimo.
    Ringrazio immensamente Elisabetta per questo geniale Think Tank che e’ Educazione Globale.
    Sarebbe meraviglioso potervi incontrare. Chissa’ un giorno si trovera’ il momento magico.
    Ama

  12. Chiederei a Vale, ad Anna e a chi ha esperienza di lavorare in contesti internazionali: è indispensabile una conoscenza dell’inglese di un livello tale che solo una scuola internazionale può offrire? Nel mio piccolo, mi sembra che anche un livello C1 già apra a molteplici possibilità. L’importante sembrerebbe fare un largo giro di boa al “first certificate”…come base per lanciarsi sul campo, sia universitario che lavorativo.
    Detto questo, Anna, mia figlia fa la prima elementare e credimi che i problemi sul “consenso” ce li ho già! Tampono un’ottima e impegnativa scuola pubblica, quando non mi è possibile ospitare una aupair, con un corso del British Council e ogni volta che dobbiamo andarci fa storie…Anche se ho sentito dire alla sua amichetta che non voleva sciare ” Ma dai, è una cosa importante, anche io non vorrei andare alla scuoletta di inglese ma poi ci rifletto e capisco che bisogna farlo perchè è importante!”…Ma non so quanto durerà…

    1. Cara Lavinia, se accetti l’intervento di un cruschevole: test your English the Spisani way .
      Primo: sei in grado di gestire una telefonata di affari – in cui quindi sì parli di cifre, date e soldi- con un madrelingua sconosciuto così come faresti nella tua madrelingua?
      Secondo, courtesy of Ilaria (ma dà informazioni ottenute al British Council pare sia davvero un “ponte dell’ asino”): sei in grado di gustare in originale un episodio di “My little pony”, con Pinkie Pie , Rainbow Dash e compagnia?
      Se la risposta è sì a tutte le domande, allora sai la lingua. Se no… try your luckier again. 🙂

    2. E’ indispensabile una conoscenza dell’inglese che permetta, come dice Francesco, di gestire una telefonata di affari (difficoltà medio-alta) e un incontro di “business development” (difficoltà alta), in cui si deve conversare un po’, come si diceva una volta, del tempo…per questo è fondamentale, in questa seconda parte, non farsi figuracce di contenuti…

      personalmente ho fatto un colloquio di lavoro in Danimarca lo scorso anno, sono andata là (tutto spesato…solo per il colloquio) e sono stata con queste persone 5 ore di fila, colloquio e pranzo incluso…e ho dovuto chiaccherare di tutto, dalla corruzione della politica italiana al nostro sistema universitario, dalle politiche di immigrazione dell’europa ai beni patrimonio dell’Unesco presenti in Italia passando per la nouvelle cousine francese…un CAE come certificazione (per quel che valgono le certificazioni, come dice Anna sotto) è più che sufficiente (e non serve una scuola internazionale per arrivare a prendere un CAE), ma servono i contenuti, perché se non so cosa dire…

      e io lì, in quelle 5 ore, pensavo in Italiano cosa dire che avesse un senso, e lo dicevo poi in inglese…per questo la conoscenza dell’italiano è per me fondamentale per permettere PRIMA di articolare un pensiero (io penso velocemente quello che saprei dire velocemente nella mia lingua, e poi mentalmente lo traduco, tanto più velocemente quanto so bene la seconda lingua, prima di dirlo. I due primi passaggi devono essere quasi istantanei, e il terzo sufficientemente veloce da non sembrare un mentecatto che o non sa cosa dire o non sa come dirlo…).

      Il terzo passaggio si raggiunge con un CAE, i primi due con la scuola di base.

  13. Lavinia, sto per dire una cosa oscena: non credo nelle certificazioni.
    Quanto ai livelli del Quadro Comune Europeo, i famosi A2, B1, C1 ecc. ecc. hanno posto fine alle classificazioni su base grammaticale, ma neanche loro esprimono in pieno la padronanza di una lingua.
    Ora, per lavorare all’estero, puoi “essere” un A2, ma molto ferrato nel linguaggio settoriale del tuo lavoro, oppure avere un carattere estroverso e una grinta tale che ti trasformi in “spugna” e dopo un mese hai preso pure l’accento. Così come la situazione opposta, timidezza, ricerca dela perfezione (impossibile), poca capacità di parzializzare, che poi è il concetto chiave per progredire.
    Cioè, continuo a pensare che la cosa più importante in fondo è il carattere e la voglia di scoprire/imparare/inserirsi di un ragazzino/a. Se non c’è quella, il fatto di essere bi/tri/quadrilingue non può garantire nulla. Non la do affatto per scontata.

    Inoltre, visto che mi sento a disagio a scrivere in questo post andando ogni volta fuori tema, aggiungo che alla fine, fra i vari sistemi, se proprio si punta ad un ambito strettamente professionale, io sarei per gli A level. Bang!

    Ama

  14. …quindi mi sembra di capire che investire in una scuola internazionale per gli IB non è indispensabile….Tutto sommato per muoversi in un contesto lavorativo e/o accademico internazionale può essere sufficiente anche un percorso più soft. Questo mi consola non per me- io arranco su un B2 scarso ma per il mio lavoro va bene così- bensì per il futuro di mia figlia. grazie per i contributi preziosi.

    1. Secondo me no…a meno di non avere tanti tanti soldi…oggi parlavo con una mia amica la cui mamma (straniera) ha fatto l’insegnante in una scuola media italiana in cui facevano gli esami di terza media i ragazzini della scuola americana (qualche anno fa, ma non troppi, quindi magari qualcosa è cambiato nel frattempo, per carità…) e mi ha detto che avevano un inglese/americano quasi perfetto, per il resto…assolutamente indietro e inadeguati…poi non è che il suo parere sia la verità, ci mancherebbe, però è un parere di chi ha visto qualcosa da vicino.

      E infatti ora la scuola americana (quella vicino a casa mia, non tutte le scuole internazionali d’Italia) ha “completato” tutto il percorso così che, volendolo e potendolo, entri a 3 anni ed esci a 18 senza dover “rientrare” per sbaglio nel sistema italiano.

      Io non so se sia vero o se sia una leggenda metropolitana di discredito creata da un popolo di invidiosi che non se la possono/potevano permettere (e quest’ultima è stata la prima cosa che ho pensato, se no non sarei andata ben 2 volte a visitarla).

      Però purtroppo mi sembra un “racconto” che si concilia perfettamente con i programmi e la didattica che mi hanno raccontato alla scuola

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