La scuola italiana è un perenne cantiere dove, come nel Gattopardo: tutto cambia (in apparenza) per rimanere così come è. Da quando ho due su tre figli al liceo, l’esame di Stato (o di maturità) è cambiato tre volte, il peso dell’Alternanza scuola-lavoro (ormai denominata Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento-PCTO) è cambiata due volte, dell’educazione civica si discute da anni e pare (salvo che non si cambino nuovamente le carte in tavola) che il relativo insegnamento sarà istituito a partire dall’anno scolastico 2020/2021.
Se la scuola fosse un gioco, sarebbe il gioco dove ti cambiano le regole in continuazione mentre stai giocando: un gioco sleale per definizione. Solo che l’istruzione non è un gioco, ma il luogo dove si forma il futuro.
Forse semplifico molto, ma chi governa, in media della scuola se ne preoccupa solo a parole o se ne occupa per fare due o tre cose che destano molto clamore, creano nervosismo in docenti e dirigenti scolastici e non mutano la sostanza delle cose (da cui il riferimento al noto romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa).
Nessun grande disegno pluriennale di revisione dei cicli e degli apprendimenti, nessuna riforma super-partes in nome del futuro. D’altronde, in un paese così litigioso e con una classe dirigente così ondivaga, in molti concludono che è meglio che nessuno si azzardi a rivedere l’impianto gentiliano, novecentesco (ed ormai vetusto, posso dirlo?) della scuola superiore: non si sa, poi, che tipo di mostro ne verrebbe fuori.
L’Italia dunque resta ferma, mentre altri paesi – che nella scuola credono – investono tempo, risorse e riflessioni, in scuola, università e ricerca. Consultano pedagoghi, creano commissioni di studio, fanno riforme bipartisan. Così, negli ultimi anni, l’Estonia ha creato classi e scuole digitalizzate, la Finlandia va abbandonando il concetto di materia o disciplina, il Regno Unito ha inserito la c.d. “Singapore Math” nel British National Curriculum.
Noi restiamo fermi ed altri ci sorpassano nelle rilevazioni internazionali. E’ il caso del Programme for International Student Assessment – PISA, dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – OCSE.
Come penso ormai tutti sapranno, PISA è la rilevazione campionaria riferita agli studenti 15enni che periodicamente indaga sulle competenze in matematica, lettura e scienze.
In prospettiva, l’indagine PISA si estenderà ad altri ambiti: nell’edizione 2021 dell’indagine PISA, che avrà come principale ambito di valutazione la matematica, è già previsto che sarà aggiunto un ulteriore test riguardante il pensiero creativo, mentre nel 2024 sarà valutata anche la competenza nelle lingue straniere.
Normalmente quando parlo dei risultati PISA, c’è sempre qualcuno che mi dice che l’Italia ha comunque la scuola migliore (noi italiani abbiamo spesso questo senso di snobberia nel giudicare le scuole degli altri); c’è poi sempre qualcun altro che fa un po’ il pierino, mi ricorda che la statistica è quella scienza per cui se io ho due polli e tu nessun pollo, in media ne abbiamo uno ciascuno (ma uno dei due ha fame…). Di norma, queste persone finiscono per concludere affermando: “ma quelle sono statistiche, mia figlia sta in un ottimo liceo, molto sfidante e studia tantissimo”.
Nel dire questo ha ragione, ma ha anche torto. Ha ragione perché è vero che ci sono enormi disparità nel nostro Paese e questa è forse la cosa più triste che ci mostrano le rilevazioni PISA (ci arrivo tra un attimo). Ha torto, perché occuparsi solo dei propri figli, oltre che egoista, è anche poco illuminato.
Per una ragazza, per un ragazzo, la media dei propri coetanei costituisce il proprio campo da gioco, il proprio termine di confronto. Se la media va giù, anche chi è bravo può rischiare di impigrirsi, salvo poi scoprire – se varca i confini nazionali – che tantissimi giovani indiani, estoni o canadesi sono meglio di lei o di lui, o semplicemente disposti ad impegnarsi di più.
E poi bisogna sempre augurarsi di avere luoghi di formazione di qualità che siano accessibili a tutti; dal “capitale umano” di un paese derivano importanti conseguenze in termini di sviluppo, competitività e ricchezza collettiva.
Dell’indagine PISA, poi, c’è chi critica la metodologia. Si cita il caso della Cina che “gareggia” solo con i quindicenni delle città più sviluppate e con scuole eccellenti, c’è il peso di fattori di diversità come i sistemi in cui tutti prendono tantissime lezioni private e si studia come forsennati (Corea, ad esempio) e tutto ciò renderebbe impossibile confrontare e/o trapiantare le politiche educative adottate dai singoli Paesi. E’ vero, ma per quanto il PISA sia una misurazione perfettibile è comunque meglio di nessuna misurazione. Non so se la frase è apocrifa, ma Galileo diceva “Rendi misurabile ciò che non lo è”, per cui è necessario vedere queste indagini come uno spunto per riflettere.
All’ultima rilevazione PISA, i cui esiti sono stati pubblicati pochi giorni fa, hanno partecipato 11.785 studenti italiani; le prove sono state sostenute nella primavera del 2018. Per quanto riguarda la reading literacy i test somministrati nel 2018 hanno tenuto conto del fatto che la pagina stampata è stata affiancata in questi ultimi anni da una pluralità di testi in formato elettronico, reperibili anche online, che veicolano informazioni di ogni tipo, comprese quelle errate (le fake news). L’intento dichiarato dagli autori dei test era quello di valutare se e quanto gli studenti sapessero distinguere tra fatti e opinioni navigando attraverso i diversi formati.
Dal PISA 2018 cosa viene fuori? In realtà nessuna grande novità ma la triste conferma di una debolezza che si accentua. Ne viene fuori che l’ottava economia del mondo – l’Italia – si colloca tra il ventitreesimo e il ventinovesimo posto della classifica.
Gli studenti in Italia hanno ottenuto punteggi inferiori alla media OCSE in lettura, nella media in OCSE in matematica, e piuttosto inferiori alla media OCSE in scienze (abbiamo 476 punti in lettura, 487 in matematica e 468 in scienze, quando la media OCSE è 487 in lettura 489 e matematica e 489 in scienze (sintesi dell’indagine PISA OCSE 2018 per l’Italia; per un commento consiglio di scorrere anche la Presentazione dei risultati dell’indagine OCSE PISA 2018 di Laura Palmerio dell’INVALSI).
Detto in altre parole: nel ragionamento quantitativo/matematico siamo nella media (nella media, non nei picchi!), in comprensione del testo scritto sotto la media e ancora peggio in scienze, molto sotto la media.
Insomma, gli studenti dei paesi con cui siamo soliti confrontarci (Francia, Germania, Regno Unito, Olanda e Belgio, to name but a few) fanno meglio dei nostri (qui trovate i risultati complessivi dell’indagine).
Il motivo per cui negli ultimi giorni i giornali si sono soffermati molto sul tema della lettura e della comprensione del testo è che questa edizione del PISA aveva come focus particolare la lettura nella lingua madre e la comprensione del testo scritto. Ne è emerso che un quindicenne su quattro ha basse competenze di comprensione di un testo scritto; in realtà questa non è una novità ma una conferma.
Gli adulti, però, stanno messi peggio; lo sappiamo da un’altra indagine, sempre dell’OCSE, che si chiama PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), pubblicata dall’OCSE nell’autunno del 2013. In base ai risultati PIAAC, per gli adulti, il campione che raggiunge il livello minimo di competenza è meno della metà. Detto in altri termini, il 70 per cento degli adulti italiani non è in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e articolati. I risultati dell’indagine evidenziano per l’Italia un grado elevato di “analfabetismo funzionale” (di cui tanto già scrisse il linguista ed ex Ministro Tullio De Mauro), ovvero una diffusa carenza di quelle competenze – di lettura e comprensione, logiche e analitiche che sono necessarie alla vita e al lavoro. Altro che life-long-learning!
Ma torniamo alle altre evidenze che emergono dall’indagine PISA.
Una è nota da molto tempo, ed è forse la più grave: l’enorme problema di equità del nostro sistema d’istruzione. Una delle caratteristiche del sistema scolastico italiano è che la variabilità degli esiti tra le scuole è elevatissima (ne consegue che chi afferma che la scuola italiana non va, ma il liceo del figlio è ottimo potrebbe non avere tutti i torti, pur con tutti i già menzionati caveat). L’Italia è uno dei paesi in cui c’è maggiore variabilità degli esiti, che sono drammaticamente diversi tra una scuola e l’altra.
E’ difficile accettare che un sistema scolastico prepari in modo così marcatamente diverso studenti. Il rapporto PISA serve anche a questo: mostra gli enormi i divari del nostro sistema d’istruzione (tra nord e sud, tra centri e periferie, tra ricchi e poveri e tra tipi di scuole superiori: licei, istituti tecnici e professionali).
Quanto alle differenze tra zone geografiche (nord, centro, sud), nel nord, soprattutto nel nord-est, i quindicenni italiani ottengono risultati uguali o superiori ai loro colleghi tedeschi o ai coetanei degli altri paesi a cui siamo soliti raffrontarci; non così nelle scuole del sud. Non è una novità, si tratta di elementi emersi anche nelle precedenti rilevazioni PISA.
Quanto alle differenze tra tipi di scuole, la disparità è tra i licei e gli istituti tecnici e professionale. Nei licei nove ragazzi dieci ottengono almeno livello minimo di competenze in lettura, ma nelle scuole professionali gli insufficienti sono addirittura il 50% .
Poiché la scelta della scuola superiore si basa sull’estrazione sociale, economica e culturale dei genitori, praticamente, il ritardo della scuola tende a ricalcare lo svantaggio delle famiglie d’origine.
La fotografia della ripartizione delle competenze che ci mostra l’OCSE in Italia è la fotografia della povertà: dove ci sono meno servizi all’infanzia e meno reddito ci sono competenze più basse. Non mi sorprenderebbe se questi dati coincidessero con quelli dell’ultimo rapporto di Save the Children sui bambini italiani in condizioni di povertà assoluta.
Il nord è più ricco, si fanno più figli, ci sono più scuole (anche nidi e scuola d’infanzia) e le competenze dei 15 enni sono sensibilmente più alte.
Per inciso, proprio le indagini Ocse Pisa (tra cui la pubblicazione Education at a Glance) mettono la frequenza al nido come una delle compensazioni più efficaci alle fragilità all’ingresso. L’asilo nido può rafforzare i rendimenti scolastici, dei bambini che vengono da famiglie più svantaggiate dal punto di vista culturale. E’ del resto noto che già a 3 anni, i bambini nati in famiglie meno colte hanno un gap in termini di quantità di parole conosciute rispetto a quelle più colte, come dimostrano altre ricerche di cui ho scritto in Le due ragioni per cui devi leggere ad alta voce a tuo figlio tutti i giorni. Il vero investimento in istruzione inizia già da quando il bambino è piccolo.
Insomma, per tirare le somme, la scuola italiana nel complesso (e non nelle singole parti) non brilla, se paragonata con quella degli altri paesi con i quali siamo soliti confrontarci, ma molto peggio va il tema dell’equità.
La terapia per questi mali sarebbe sempre la stessa.
Puntare sui bravi insegnanti. Se si vanno a vedere i paesi che nel tempo hanno risultati sempre più soddisfacenti (tra gli europei la Finlandia, dove danno pochissimi compiti a casa!, l’Estonia (che da giovane paese dinamico e proiettato verso il futuro sta investendo in education) essi hanno in comune le politiche volte a scegliere, formare e trattenere, attraverso adeguati incentivi economici ma anche di prestigio sociale, giovani docenti preparati e motivati.
Ormai esistono anche metodi semi-scientifici per individuare i bravi insegnanti (l’ho scritto in Come si riconosce un bravo insegnante?) ed è un vero peccato che non ne discuta nessuno.
L’Italia è un paese anziano, la quota di giovani è inferiore rispetto a quella di altri paesi. Tra poco, il calo delle nascite si riverberà anche sulle scuole superiori: Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli, suggeriva tempo fa di cogliere l’occasione dell’assottigliamento delle coorti di studenti per dare priorità al miglioramento della qualità dell’istruzione, proponendo “un rafforzamento generalizzato della ‘scuola del pomeriggio’, con più possibilità di scelta del tempo pieno/prolungato, attività integrative, supporto ai percorsi personalizzati, contrasto all’abbandono”. Insomma, di trasformare il problema della denatalità in una opportunità di investimento nella scuola.
Chissà se la politica lo ascolterà.
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